nonluoghi
percorsi
copertina
percorsi
libri
inchieste
novità
i i
notiziario
la satira
racconti
archivio
editorali
calendario
interviste
musica
notizie
scrivici

"Cristo tra i chitarristi"
Maledizione, morte e altre considerazioni su Piero Ciampi
 

di VITTORIO PERGOLA

"Un giorno.
Tu parlerai.
Agli intellettuali.
Loro ascolteranno.
Alla fine.
Tu darai
loro prenderanno
e ti incalzeranno
sulla soglia
di un manicomio
senza porte"
 

I.
   Il 19 gennaio del 1980 un livornese dall'aria pigra, stanca e strafottente, più noto come cantautore che come poeta, otteneva dalla vita e dal suo particolare modo di affrontarla il sospirato visto di transito, la possibilità di imbarcarsi verso il porto delle illusioni. Spesso definito "il livornese maledetto" Piero Ciampi se ne andava a soli quarantasei anni, dopo aver condotto una vita che per molti altro non fu che un lento suicidio, privo del clamore che accompagna l'estremismo di questi gesti. In occasione del decimo anno dalla sua scomparsa, durante una serata in suo onore che probabilmente lo avrebbe nauseato per i toni e le presenze in sala (non tanto quelle dei suoi "colleghi", che forse non avrebbe definito tali e nemmeno per quella dei suoi amici, sinceramente impegnati nell'operazione di ricordo e resurrezione della sua opera; quanto per quelle prime file di presenzialisti da quattro soldi che approfittarono dell'occasione, come spesso accade, per darsi un tono che a loro non appartiene) - chi scrive era presente, ci si riferisce al 5 marzo del 1990 al teatro Argentina di Roma -; in quell'occasione, si diceva, fu distribuito un libriccino che attribuiva, tra le altre cose, a Piero Ciampi queste parole:

 

"Amo gli ulivi perché danno l'olio ed i vigneti perché danno il vino.

La ragione è questa: l'olio lo uso con i pomodori ed il pane ed il vino me lo bevo...Ecco questo sì: ho solo la faccia di un uomo...

Dove voglio arrivare? Ad essere in pace: per questo e sia ben certo, 

il mio metro quadrato è sacro."

L'intenzione che qui ci si propone è duplice: da un lato si vorrebbe ricordare un grande artista, una figura che nel panorama culturale italiano di quest'ultimo mezzo secolo non può e non deve tramontare nell'immondizia delle leggi di mercato ma semmai rinascere dalle sue ceneri (magari proprio sotto forma di demone da ricacciare, di prova tangibile della povertà dell'industria culturale di fine secolo), ed insieme di proporre una chiave di lettura, una prospettiva per quanto possibile originale sul fenomeno Ciampi, inteso come esempio di esistenza che aggredisce la vita e gioca con la morte. Tra le sue ultime carte una frase emblematica: 

"io canto per dire bene della morte."

L'autore delle poche righe poste in apertura, in effetti, pur con le dovute distinzioni di carattere storico, potrebbe iscriversi nella cerchia di quei personaggi in cui la produzione artistica e la filosofia di vita si presentano indissolubili, che significativamente godono dell'appellativo di maledetti.

FuVerlaine, in una raccolta di saggi del 1884 intitolata I poeti maledetti, a trovare questa definizione, la quale, con tutta la prudenza necessaria nel parlare di definizioni, coglie e raccoglie elementi comuni ad un certo tipo di artista: situazioni di conflitto e di ambivalenza emotiva, l'alternarsi di disordine e di aspirazioni ideali, che troviamo già in Baudelaire, la solitudine di chi si sente estraneo nel proprio tempo, nel mondo in cui vive: "...Come il principe dei nembi/ è il Poeta che, avvezzo alla tempesta, / si ride dell'arciere: ma esiliato / sulla terra, fra scherni, camminare / non può per le sue ali di gigante"[1]. Ancora, il ricorso all'hashish o all'oppio per risolvere queste inquietudini, o all'alcool in poeti come Verlaine e Rimbaud; il rifiuto di una vita mediocre legata a valori di riferimento necessari solo al problema dell'ordine e della stabilità e questa continua attrazione-repulsione verso la vita e ipso facto la morte - questi, sommariamente, sono i motivi biografico-artistici più caratteristici dei personaggi in questione.

Chiunque prenda un vocabolario dei giorni nostri e ricerchi il significato del termine "maledetto", avrà di fronte agli occhi accezioni quali: colpito da maledizione; che ha in sé la maledizione e quindi apporta sciagure; nel caso di "poeti maledetti", così detti perché portatori di una visione della vita in contrasto con le norme morali e sociali correnti. Ne deriva che l'impossibilità di integrarsi nel gruppo è fonte di maledizione. La storia ci insegna che prima o dopo si dovranno fare comunque i conti con parole e pensieri considerati in precedenza pericolosi e dannosi alle esigenze del momento, magari facendo in modo che essi vengano metabolizzati in maniera indolore e con i tempi giusti, fino a stemperarne la forza e la violenza di cui sono portatori. Nel caso di Ciampi è difficile stabilire con certezza quanto l'esilio sia una scelta consapevole o se non fosse invece una condizione subita ed accettata con rassegnazione. Alla sua seconda compagna, che lo abbandonerà come già avvenuto con la prima, scrive ricordandole che lui è "un uomo terribile e purtroppo eccezionale"; definendosi un'eccezione, ma temendo di esserlo in senso negativo, la prega di aiutarlo a diventare una "non-eccezione positiva". Ciò non avverrà perché, probabilmente con la fine della relazione amorosa, cessato lo stimolo forte a divenire "normale" costruendo una famiglia con la piccola figlia Mira e la sua compagna, tornerà la sua reale indole esistenziale, la sua impossibilità ad integrarsi, la sua condizione quasi naturale di distacco. Nel 1966, nella lettera che sanciva la parola fine al suo rapporto con la donna, le raccomandava di scrollarsi di dosso"il piccolo e pericoloso mondo che ti ho messo sulle spalle" ricordandole che forse per lei sarebbe stato comunque una sventura continuare quella frequentazione, rallegrandola poiché in fondo niente aveva perso. Affermando sì che ella non era più sua ma per un motivo molto chiaro: "...perché tu non capisci", affermazione subito seguita dal dubbio o dalla consapevolezza della propria natura poco costruttiva, mediante un drammatico quanto lucido: "o forse hai capito, e bene."

Ho scelto queste righe perché credo siano in grado più di molte sue poesie di rendere evidente la condizione dell'esiliato che sa di esserlo e che probabilmente dalla sua posizione è anche capace di avvertire la propria pericolosità per chi sta fuori, dall'altra parte, anche se per farlo ha bisogno che il legame tra i due modi di porsi nei confronti della vita venga dall'amore. L'oggetto del suo amore, in qualche modo e con forza, gli ribadisce la sua "diversità". 

A diciotto anni dalla sua scomparsa, purtroppo, sono molti quelli che ancora non hanno avuto l'occasione di conoscere, leggere o ascoltare, la produzione ciampiana e che poco sanno di lui. Per motivi di spazio e di opportunità analitica, non si vuole qui né recensirne le opere né ricordare nei particolari la sua biografia[2].

Qui, come si è detto in precedenza, si vuole ricordare una figura di grande spessore umano ed artistico, rimossa con troppa fretta, e nel contempo proporne il caso per lo sviluppo di alcune riflessioni di natura più storico-concettuale. Val la pena di far notare, comunque, quando affermiamo che si tratta di un personaggio importante nella cultura italiana del secondo novecento, che parliamo di un uomo che durante il suo breve soggiorno nella Parigi degli anni '50 frequentò Céline; di un isolato, ma non dal mondo che gli era congeniale (anche se a dire il vero i suoi amici, pittori o letterati che fossero, ne riconoscevano la genialità ma a volte stentavano a comprenderne gli atteggiamenti). In Italia le sue amicizie passavano da Giulio Turcato a Aldo Turchiaro, Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli e anche Carmelo Bene con cui, pare, ingaggiasse preferibilmente partite a scacchi. Questo per ribadire che non si parla di un uomo fuori dalla produzione artistica e culturale del suo tempo; semmai è il suo tempo che, emarginandone l'opera, ha dimostrato di non meritarsela. 

Gli elementi che entrano in campo a rendere complesso il rapporto tra la produzione artistica inquieta, ambigua, distruttiva e il pubblico, potenziale fruitore di essa, sono molteplici. De Angelis nella sua introduzione ricorda quanto, nei confronti di Ciampi, siano azzeccate le parole che Gino Castaldo usò per Miles Davis, che appare "come se mandasse misteriosi messaggi dalle zone nelle quali normalmente non abbiamo il coraggio di guardare"[3]

E' come se, nel leggere i suoi versi, a volerli penetrare, si rischi davvero di svelare qualcosa, di trovarsi improvvisamente imbrogliati dall'esistenza:

"Essere./ Procedere/ intatto/ zoppicando / per sempre." 

O visioni del mondo:

"Gli orbi nel mare/ i pirati sulla terra/ questa è una strage/ la consegnano/ al mercato/ gratis"..

Quando Horkheimer e Adorno, nel loro famoso saggio sull'industria culturale, sostengono che essa organizza lo svago, le attività culturali, il gusto, fino a raggiungere un completo livellamento degli individui, fino a ridurli a zero integrandoli totalmente entro la cultura dominante, espressione ideologica del potere, siamo nel 1947[4]; vent'anni dopo il "maledetto" Ciampi non è affatto disposto a subire né ad assecondare una divulgazione culturale che perseguisse tali finalità. E non per motivi propriamente politici; la sua lezione politica va di pari passo con la vicenda esistenziale, il binomio potenza-solitudine è la molla della sua anarchia, la tenace rivendicazione di libertà per chi sceglie di sentirsi estraneo è l'unico suo vero credo. L'industria culturale, come sappiamo, lo ripagherà con una tranquilla indifferenza. Anche quando qualcuno si è fatto avanti ( è noto l'episodio raccontato da Gino Paoli, il quale riuscì a fargli avere un contratto ed un anticipo dalla Rca, che Ciampi intascò e sparì), lo sciagurato ha velatamente palesato la libertà di decidere i tempi e i modi, per sviluppare la propria creatività.

In Andare camminare lavorare, uscita nel '75, si confronta, diciamo così, con iltempo in cui vive, con queste parole: 

" ... il vino contro il petrolio, grande vittoria, grandissima vittoria. (...) Andare camminare lavorare, queste casseforti che infernale invenzione, viva la ricchezza mobile, andare camminare lavorare (...) la Penisola in automobile, tutti in automobile al matrimonio, alé, la Penisola al volante, questa bella Penisola è diventata un volante.(...)"

Il rifiuto è netto, l'impossibilità di adattamento, che sia più o meno consapevole, è un fatto. Non ci è dato risolvere la questione se sia stata scelta consapevole o no, sappiamo che chi ritiene il suo ambiente sociale, storico e culturale inospitale, o si eleva a profeta oppure finisce per diventarne vittima; in entrambi i casi è innegabile che l'inadeguatezza favorisca una visione delle cose diversa, per il semplice fatto di partire da un non-punto di vista, da una non-posizione che è poi la posizione di chi sta fuori, lucida, disperata, cruda, forte ma non della sua coerenza, semmai delle sue contraddizioni.

Per avere un idea di quello che Ciampi intendesse come produzione culturale e dei suoi rapporti con essa ci può essere d'aiuto un intervista di Lina Agosti del giugno '76 per il "Radiocorriere TV". La Agosti introduce così il personaggio: "Dicono che è stonato. Dicono che scrive canzoni sgradevoli, malinconiche, popolate di vinti, di infelicità e di abbandoni. Dicono che è costantemente ubriaco. Dicono che canta solo quando glielo impongono gli esattori della luce e del gas. Dicono che è un campione di invettive. Dicono che è antipatico e presuntuoso. Dicono che non ha una lira. Dicono che non accetta d'essere paragonato ad altro autore che non sia Leo Ferré o Brassens, Sartre, Camus o Hemingway. Dicono che si cita e si autocelebra."

Credo che non si potesse presentarlo meglio. Quando poi si chiede cosa Piero Ciampi dicesse di sé, ecco una risposta risolutiva: "sono un poeta" (pretese dalle autorità che questa sua qualifica finisse anche sul passaporto). Alla domanda: "Un poeta che maltratta l'amore?", così risponde: "Sono gli altri autori italiani a trattarlo male, lo drammatizzano e comunicano questa ansia a chi ascolta canzoni, trasmettono loro i propri complessi nei confronti degli autori stranieri. Ognuno quando ama è grande, invece noi ci sentiamo ridicoli o mediocri e per fare l'amore dobbiamo rifugiarci in un abbraccio musicale francese o americano, chiediamo la complicità di Montand o di Sinatra e allora che amore faccia pure rima con squallore." La giornalista a questo punto fa notare a Ciampi la sua lontananza dal pubblico ricordando un episodio: "Al pubblico milanese del Derby questa sua tesi non è piaciuta molto, parecchi spettatori se ne sono andati a metà serata per evitare altri improperi e dopo tre serate ad andarsene è stato lei." Ancora, la risposta è emblematica: "Quel pubblico non mi rispettava, dunque perché io dovevo rispettarlo? Mi guardava come un intruso, non capivano che ero lì per fare cultura e non per cantare stravaganze ad uso e consumo dei proprietari di Rolls-Royce." Quando poi gli si chiede cosa c'entra la canzone italiana con un tipo come lui, l'arroganza del potere del binomio potenza-solitudine cui si è accennato produce un ovvia riposta: " che cosa c'entra con me la canzone italiana, semmai."

II.

Foucault ci ricorda che dal diciassettesimo secolo "la follia è percepita nell'orizzonte sociale della povertà, dell'incapacità al lavoro, dell'impossibilità di integrarsi nel gruppo"[5]. La razionalizzazione, il disincanto, la crescita impressionante della tecnologia scientifica e della scienza medica, ha prodotto una giustificazione all'internamento del folle o comunque al suo riconoscimento: la psichiatria. Probabilmente per la psichiatria moderna Piero Ciampi sarebbe un uomo affetto da disturbi della personalità, da alcolismo, difficoltà nelle relazioni sociali, forse non dichiarabile come socialmente pericoloso ma quasi. A nostro giudizio sarebbe soltanto un umile poeta, con le sue parole, "un elegantissima anima" colpevole di andare spesso "...a cena sulle stelle". 

In una recente intervista al settimanale "L'Espresso", Renè Girard ci ricorda che la scienza non può che perdere il suo "peso culturale" per il semplice fatto che non è in grado di fornirci una risposta all'unica domanda che ossessiona veramente l'umanità, quella dell'esistenza o meno di un senso della vita umana su questa terra. La tendenza al caos, si vince solo con il trasferimento della violenza su di un elemento esterno, un capro espiatorio. Come altri pensatori contemporanei, Girard pensa che un esperienza religiosa naturale debba necessariamente rappresentare un'esperienza di paura nei confronti delle forze della natura. Il presente ci offre un quadro dell'uomo come capace, entro certi limiti, di dominare le forze della natura, ma nelcontesto sociale e culturale della complessità attuale la morte, sottrattasi alla penetrazione e alle rappresentazioni razionali, simboleggia ancora la natura nella sua forma più cruda.[6]

Nulla nel mondo degli uomini è permanente.

Per comprendere più chiaramente il concetto di impermanenza torna utile una storia tratta dal Libro tibetano del vivere e del morire[7]; è la storia di una giovane donna, Krishna Gotami, che vive al tempo del Buddha e non si rassegna alla scomparsa del suo figlioletto di un anno, tanto da girovagare con il corpo del bambino tra le braccia, implorando chi incontrava di indicarle un mezzo per riportarlo in vita. Consigliata da un saggio ella si rivolge al Buddha che, dopo aver ascoltato la sua sventurata storia, le dice: " c'è un solo rimedio al male che ti affligge. Scendi in città e portami un granello di senape che venga da una casa dove non c'è mai stato un morto ". Il messaggio è molto chiaro: l'unico elemento eterno è l'impermanenza, il carattere perituro di tutte le cose. 

Si può affermare che la religione come esperienza e come pratica che ne rafforza l'intensità "copre il gap fra una serie di bisogni e i limiti alla loro soddisfazione"[8], non tanto nel senso sotteso alla teoria della deprivazione relativa, che evidenzia il carattere compensatorio in taluni casi del comportamento religioso, ma parlando di bisogni insoddisfatti in maniera molto più ampia. Tornano utili, per esemplificare quello che si intende come prospettiva più ampia, le definizioni che danno della religione autori come Michel Campbell: " La religione è un meccanismo adattivo per patteggiare con la morte nell'ambito dell'evoluzione dell'umanità"; o, come sostiene Mary Joe Meadow, uno strumento per patteggiare con il senso del limite[9]. Definizioni, queste, che riguardano in particolare le origini psicologiche delle funzioni che una religione deve svolgere.

La relazione tra il bisogno genetico di una vita eterna e la religione è uno dei tratti più evidenti di questo tipo di discorso. Il bisogno di vivere in eterno, legato alla paura della morte, produce una spinta verso la lotta per sopravvivere. La paura della morte nell'uomo è naturale, egli ha la percezione di questo destino (grazie allo sviluppo dell'area neocorticale con la mediazione del linguaggio, del senso del tempo e della storia ne prende coscienza), tentando di fuggire l'angoscia che produce con la fede nella vita eterna.[10]

La mancata soddisfazione dei bisogni biogrammatici, fisici e psicologici provoca un disagio che può essere ridotto sublimando tali bisogni all'interno di una complessa elaborazione culturale. Tra questi bisogni biogrammatici si può annoverare l'istinto di un bisogno esploratorio, che si traduce in una spinta alla conoscenza e si lega alla necessità di attribuire un senso al mondo, di rendere significativo l'ambiente in cui si vive, cioè di percepire gli eventi come significativi, di prevederli e di controllarli, accrescendo così l'autostima, la sicurezza nelle proprie capacità. Ciò comporta necessariamente che nel processo di attribuzione di significati si faccia in modo che essi forniscano una sempre maggiore coerenza. La civiltà di cui siamo partecipi ha proceduto alla costruzione di teorie attributive che non hanno un carattere religioso ma si legano ad una fede laica, quella nel progresso della scienza. Proprio all'interno di questa visione del mondo, disincantata e razionale, il processo di attribuzione di significati deve garantire una certa coerenza, pena l'insicurezza nelle capacità dell'intero sistema e la perdita repentina di quel peso culturale di cui Girard parlava nell'intervista citata in precedenza. La morte negata è in qualche modo il tipo di approccio che si è andato sviluppando nel nostro tempo, in cui anche i confini tra morte fisica e morte cerebrale appaiono sfuocati, e l'allungarsi delle possibilità di vita fa sì che il senso della morte venga tenuto fuori da una quotidianità in cui si va perdendo anche il culto dei propri morti. Questo negare, rimuovere la morte si registra anche nell'evoluzione del pensiero religioso; il mondo cattolico si concentra in modo più incisivo su teologie della speranza o della liberazione. 

La morte nel mondo moderno dunque non viene "metabolizzata psicologicamente", non si risolve il conflitto sempre presente nella condizione umana tra l'angoscia di morte e la certezza di morire. Si passa così da una concezione naturale ed una elaborazione culturale che affinava i suoi strumenti di lotta contro l'angoscia scaricandola nell'ambito del momento rituale, con un simbolismo che garantiva la possibilità, vera o falsa che fosse, di un "dopo", di una continuità, per finire ad una situazione presente, in cui l'unica difesa che l'uomo ha di fronte alla certezza della propria fine consiste nel negarne in qualche modo l'esistenza.

Come appare chiaro, a mio avviso, dalle premesse, il discorso focalizzato su una strategia intrinseca all'essere umano di patteggiare con una serie di limiti imposti dalla natura, non è universale nelle sue modalità. I bisogni repressi e sublimati in un contesto come quello occidentale in particolare cristiano, non si trovano proiettati in esperienze religiose appartenenti a contesti culturali differenti. L'elemento che può accomunare diverse fedi e cosmi sacri disparati è la fuga dal disagio, dal dolore; le strategie che portano a questo si sviluppano in rapporto a più fattori intervenienti,di natura storica, ambientale, filosofica. Il sacrificio rituale, tessuto su cui hanno fatto riferimento nella maggioranza dei casi le grandi religioni, ad esempio, non fa più parte, all'evidenza, della cultura della nostra civiltà; ma il meccanismo illustrato da Girard sul bisogno di una vittima sacrificale rimane l'elemento chiave per un nuovo modo di concepire una sublimazione del timore per le questioni ultime, sublimazione che in un contesto come quello occidentale va assumendo meccanismi di rimozione e allontanamento dell'angoscia di morte e di solitudine, di natura laica. 

La società che allontana il pensiero scomodo, esiliandolo, imita in qualche modo un processo sacrificale. Si potrebbe sostenere che l'artista, inteso nei termini di un Piero Ciampi, con il suo vissuto dimostra di poter sfidare qualcosa che altrimenti sarebbe terribile: l'impermanenza. 

Quando l'accesso alla dimensione trascendente del radicalmente altro viene ostacolato o comunque reso più difficile, dalle condizioni storico-sociali della modernità - senza però che essa sappia fornirci delle risposte certe sulle questioni ultime -, allora ci troviamo di fronte ad un religioso de-ritualizzato che perde la sua forza coesiva, il suo potere socializzante delle paure e delle angosce della finitudine; ciò porta ad un individuo che, in condizioni di solitudine, non riesce a non temere la solitudine. Si dovrebbe parlare quindi di "tarda modernità", come il periodo avente come caratteristica il movimento più l'incertezza, e non più il movimento più la certezza, come avveniva nella modernità propriamente detta.

Allora anche un artista può divenire un Cristo, vittima sacrificale non nella lettura girardiana di un uomo capace di salvare l'umanità dal meccanismo vittimario, ma semmai come colui che, secondo il dettato biblico, "distruggerà la sapienza dei sapienti, e rigetterà l'intelligenza degli intelligenti." (Isaia 29, 14)

L'artista Ciampi è utile a chi ne "consuma" l'opera, come figura esorcizzante una serie di disagi di fronte ai quali ci pongono le questioni fondamentali. Per lui il dolore, il disagio da cui fuggire erano non la morte, ma la povertà del suo tempo, nel quale impossibile era concepire qualcosa che sfidasse l'impermanenza senza negarla; con le parole di Kierkegaard: " ... mettiti prima in rapporto con Dio e poi in rapporto con "gli altri". Ma la realtà è che l'esistere e l'esistenza hanno per un pover'uomo qualcosa di immensamente angustiante. Così egli prende paura, non osa mettersi in rapporto con Dio; la parte animale in lui vince. Egli pensa: è più prudente essere "come gli altri" ..."[11]

In un mondo in cui, come nota Berger, sappiamo tutto della fisica delle particelle ma non parliamo più con gli angeli[12], il rapporto con Dio diventa il rapporto con la propria indipendenza interiore, capace di trascendere il gelo della produzione fine a se stessa e la conseguente perdita del senso, per ottenere il quale la solitudine è un elemento indispensabile. Piero Ciampi ci insegna allora che la solitudine è una conquista che si può anche pagare molto cara, e l'industria culturale, se mai ne rivaluterà l'opera, farà in modo che anche nella solitudine ci si possa sentire meno soli, chiudendo l'ultimo spiraglio di libertà in una bella conversazione da salotto.

 
 
NOTE AL TESTO

[1]Si tratta di versi da "L'albatro" di C. Baudelaire, da I fiori del male.

[2]Mi vedo costretto a rimandare gli interessati all'unico testo che rivesta un carattere sistematico sulla produzione ciampiana,Enrico de Angelis (a cura di),Tutta l'opera. Piero Ciampi, Arcana Editrice, Milano 1992. Se, come immagino, il testo risulti pressoché introvabile, si può sempre tentare di ordinarlo direttamente all'editore,Viale Sondrio 7 -20124 Milano.

[3] E. de Angelis ( a cura di), Tutta l'opera. Piero Ciampi, op.cit. 

[4]TH. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1966. (ed. or. 1947

[5] .M. Foucault, Storia della follia, Rizzoli, Milano 1980. (ed. or. 1961)

[6].Per un approfondimento sulla genesi delle immagini moderne della morte comparate alle immagini che essa assumeva in società primitive si veda: W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna. Sopravvivenze arcaiche e influenze attuali ,Einaudi, Torino, 1973. 

[7] S. Rinpoché, Il Libro tibetano del vivere e del morire, Astrolabio, Roma 1994.

[8] S. S. Acquaviva, La strategia del gene, Laterza, Roma-Bari 1983. 

[9] .M. Campbell, M. J. Meadow, R. Kahoe, The Psychological Origins and Functions of Religions, Annual Meeting, Society for the Scientific Study of Religions in Conjunction with Religious Research Association, San Antonio 1979.

[10] Chi scrive parte da una premessa teorica di fondo, che le pulsioni e i bisogni primari diano vita a diverse sensazioni che condizionano l'agire sociale, tra cui la spinta a fuggire un dolore e un disagio. Le premesse teoriche, d'altra parte, sono a loro volta una visione dell'uomo come il "risultato non definitivo di un particolare processo evolutivo". 

" Le componenti che danno vita alle caratteristiche fondamentali dell'individuo sono anzitutto nel biogramma (componente innata o ereditaria), che fa emergere una serie di pulsioni ad agire (e quindi di bisogni); in secondo luogo, sono nella neocorteccia, cioè in quella parte del cervello - responsabile delle conquiste dell'uomo - che immagazzina ed elabora informazioni, simboli e via dicendo. " In S. S. Acquaviva, La strategia del gene, op. cit.

Le pulsioni primarie e i bisogni ad esse legati danno vita dunque a tre tipi di sensazioni che condizionano l'azione sociale: la coscienza dell'esistenza di un proprio bisogno; l'attesa del piacere legato alla soddisfazione di questo bisogno; la spinta a fuggire un dolore o un disagio.

[11] S. Kierkegaard, Diario, voll.3, Morcelliana, Brescia 1948-51.

[12]P. L. Berger, Una gloria remota. Avere fede nell'epoca del pluralismo. Il Mulino,Bologna 1994.



 
 
o "Cristo tra i chitarristi"

E' un Uomo che vive di foreste
d'aria piena di voli d'aquile,
conquista vette e tocca il sole,
lui beve neve, parla alle stelle
e spazia il tempo.
Corre, anela, sta.
Devia i ruscelli, 
veglia e sonno è tutto un sogno.
E' un uomo solo e senza armi.
Un pomeriggio su una salita perse la vita.

Più niente in quel lungo silenzio
turbava la sua anima esperta.
Un coro di chitarre infelici
cantava per disperdere l'odio.

Sopra una collina era il più alto, 
il più bello, irraggiungibile.
 Ai suoi piedi c'era il deserto,
ormai la folla si era saziata
con le preghiere.
Là c'è sempre un Uomo in verticale
che non tocca mai la terra, 
talvolta scende da una croce
ma poco dopo su una salita sconosciuta
perde la vita.

Un concerto di chitarre arriva e suona
molto amaro.
Anche stasera da qualche parte
c'è qualche Cristo
che sale stanco
e senza scampo
una salita.

Piero Ciampi


(16 febbraio  2001)

Le news
e i commenti
nel notiziario
di Nonluoghi
 
 

 

Ricerca nel sito                 powered by FreeFind
copertina
percorsi
libri
inchieste
novità
notiziario
la satira
racconti
archivio
editorali
calendario
interviste
musica
notizie
scrivici