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Le politiche sociali per gli zingari: obsolete e violente
Un'analisi dettagliata della situazione italiana partendo dal "laboratorio" bolognese
 

    LA LEGISLAZIONE E LA TIPOLOGIA DI ACCOGLIENZA 
RIGUARDANTE GLI ZINGARI 
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL TERRITORIO BOLOGNESE


Non abbiamo finito / di incrinare / a forza di colpi / la tenebra
         J. Salomon Franco
   L’universo zingaro è un insieme di famiglie, comunità e gruppi che hanno una specifica unicità, pur rimanendo fra loro differenziate. E’ una realtà riconosciuta solo attraverso stereotipi e pregiudizi o meglio è una realtà sconosciuta, circondata dal silenzio. Ma anche questo silenzio non è assenza di rumore, non è un non essere. E’ una presenza, è l’essere di una presenza multiforme, diversificata, unica, non subordinata né alternativa alla nostra presenza. Un silenzio-presenza che costituisce uno degli elementi più significativi della loro differenza, della differenza zingara, la quale va considerata per concepirne le dimensioni e l’essenza.
Il non sapere, l’ignorare, ingrandito e amplificato dai mass media che distorcono l’immaginario collettivo per rafforzare il silenzio-assenza, è proprio anche dell’istituzione e della politica. E’ un non sapere che attraversa più periodi storici, raggiungendo il massimo della sua espressione stereotipata e pregiudiziale nella negazione / sterminio (olocausto – porrajmos) degli anni trenta e quaranta e con l’avvento dei mass-media, che privano gli individui e le comunità zingare della loro lingua, elemento che ne fonda l’essenza, l’etnicità e la coesione.
Questa popolazione, per sopravvivere, deve affrontare, in tempi brevi e rapidi, cambiamenti che possano portarla verso nuovi equilibi di sopravvivenza, in un incontro / scontro con il resto della popolazione e con le sue forme rappresentative ed istituzionali, i nuovi processi di alienazione che la nostra società produce anche nei confronti degli zingari, non si chiamano più soltanto fame e miseria, che pure ancora persistono, ma perdita di senso, omologazione, passività, inaridimento della capacità comunicativa.
Se e quando questa realtà è considerata, lo è per l’abitare nei campi, centri di prima accoglienza o aree sosta, in una condizione che rafforza la povertà, soprattutto di relazioni, e la separatezza.
Sono questi contesti di separazione, insospettabili e legalizzati, che fanno nutrire e convivere più differenze: la differenza culturale e la povertà, le differenze della malattia, della salute mentale, dell’handicap, la differenza culturale originaria dei gruppi e la cultura che si autonutre dal contesto di separazione, la devianza come proposta di integrazione con il resto della popolazione e la debolezza della proposta istituzionale per l’integrazione. Ed è in tali contesti che queste differenze si combinano con il vissuto di una cultura tradizionale millenaria, che si riformula a partire dalla cultura / subcultura del vivere nei campi.
Un abitare, questo, risultato di una collocazione “inevitabile”, giustificata storicamente con l’equazione pregiudiziale zingaro uguale nomade, che attraverso i tempi prolungati, supportati istituzionalmente, ha avviato meccanismi di sradicamento culturale, sostituendoli con una cultura propria, la cultura dell’apartheid.
Il cambiamento e il superamento della cultura e delle culture diventano bisogno prioritario per i giovani, perché non vivono né la cultura tradizionale né la cultura della città, ma la cultura del campo.

   L’istituzione si attiva nei loro confronti solo parzialmente e in modo settoriale, soprattutto con interventi dei servizi sociali. Anche la tipologia degli interventi è parzializzata e settorializzata: risponde soprattutto all’emergenza e non è impostata su tempi lunghi che devono considerare l’uscita dai campi, la dinamicità delle comunità e l’inclusione nel tessuto urbano. E’ invece indirizzata su alcune problematiche dei minori e lascia fuori gli adulti, senza incidere sulle questioni femminili, né sui percorsi familiari e comunitari.
Le politiche sociali che stanno a monte di questi interventi, sono anche il prodotto di leggi specifiche che cercano di contemplare il fenomeno e di disciplinarlo, partendo per lo più dal nomadismo, -dentro al quale collocano in modo univoco tutte le comunità e le caratteristiche degli zingari- oppure dando risposte emergenziali che si applicano solo nei contesti dell’emergenza (come i flussi migratori dalla Jugoslavia) se sono considerati a livello locale.
La presenza degli zingari è polimorfa, sia per la varietà delle caratteristiche culturali, economiche e sociali delle comunità che costituiscono questo popolo, sia per i percorsi di stabilizzazione, stanzializzazione e insediamento che hanno avuto sul territorio europeo, nazionale ed emiliano-romagnolo.
E’ una presenza fatta di realtà povere e ricche, di realtà isolate e represse. E’ una presenza stigmatizzata socialmente e questa stigmatizzazione diventa anche oggetto istituzionale, poiché la stragrande maggioranza degli interventi pensati per loro si impostano a partire dal considerare questa presenza come un problema di ordine pubblico. 
Il silenzio-presenza è spinto a diventare assenza attraverso un esclusione di partenza fatta da sgomberi, espulsioni, rimpatri, fogli di via, respingimenti, non applicazione delle leggi. Questa esclusione si concretizza in una non presa in carico giustificata da provvedimenti amministrativi e da una legislazione che contraddice l’esigua normativa a tutela degli zingari. Un esclusione che considera la differenza con l’indifferenza e questo elemento lo ritroviamo anche quando avviene la presa in carico.
 
 

LE ISTITUZIONI E LE POLITICHE SOCIALI

   Il fenomeno delle situazioni/condizioni delle comunità zingare italiane o straniere presenti sul territorio incomincia ad essere concepito dalle istituzioni solo quando il loro cambiamento – trasformazione diventa oggetto di controllo/ordine pubblico e tramite questa concezione si impostano politiche attinenti anche all’aiuto. 
Da circa quattro decenni, lentamente e con ritmi diversi, molte comunità si trovano in una situazione non più equilibrata da meccanismi economici che permettevano la loro sopravvivenza e rapporti non conflittuali con la restante parte della popolazione, perché la trasformazione generale della società italiana li respinge da un mercato del lavoro dentro al quale avevano una precisa e utile collocazione. 
Parallelamente subiscono e si trovano a dover fare i conti con la difesa della propria identità etnico-culturale che diventa vulnerabile all’influenza dei mass- media, della televisione in particolare, che producono  all’interno delle comunità modificazioni e perdite, forti, a livello linguistico e negli stili di vita. La lingua zingara perde per la prima volta il suo carattere coesivo e identitario, unico nel fondare l’appartenenza comunitaria dei Rom.
Le aree-sosta realizzate dai comuni e concepite nella legislazione regionale sono i primi interventi organici rivolti a questa popolazione, ormai impossibilitata a vivere con il nomadismo ed i lavori tradizionali ad esso legati e soprattutto divenuta estremamente povera. Sono interventi influenzati esclusivamente dalla logica del contenimento dei conflitti sociali e sono impostati sul concepire il nomadismo come unico elemento caratterizzante le comunità zingare.
E’ soprattutto la condizione di povertà, che a vari gradi tocca tutte le comunità zingare, che non viene concepita in un percorso di passaggio e di cambiamento e di conseguenza viene affrontata con strumenti di politica sociale ormai obsoleti, inadeguati e non opportuni a rispondere ai bisogni e alle richieste, molte volte non esplicitate con chiarezza. Gli interventi sino ad oggi attuati non hanno considerato le differenze in cambiamento e nel loro intersecarsi: la differenza culturale come la differenza che nasce dalla povertà, la differenza di genere e le differenze generazionali. Le politiche sociali attivano interventi parziali e settorializzati, improntati alla logica dell’assistenzialismo e mancanti di progettualità e strategie di lunga durata.

   A livello legislativo si contempla l’universo zingaro attraverso una legislazione che non da dignità e tutela a questa minoranza, affrontandola di volta in volta stando a categorie difformi ed emergenziali.
In generale la percezione della presenza delle comunità zingare (rom e sinte) di cittadinanza italiana, non è contemplata a livello legislativo nazionale. Nell’ordinamento italiano il concetto di minoranza è legato a quello della peculiarità linguistica e trova il suo fondamento nell’art. 6 della Costituzione che recita: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Ma anche questa tutela è poi lasciata, nei fatti, alla potestà legislativa del livello locale.
A partire da questa condizione legislativa, si distinguono quattro categorie -che non sono solo giuridiche- le quali caratterizzano fortemente la condizione degli zingari:

a) Gli zingari di cittadinanza italiana
Leggi specifiche per gli Zingari sono state emanate, a partire dal 1984, da diverse regioni: in particolare, la Regione Emilia Romagna approva nel 1988 la L. n. 47 “Norme per le minoranze nomadi in Emilia Romagna” che consta di 19 articoli e le cui finalità sono così specificate dall’art.2: favorire la tutela delle forme espressive e delle tradizioni culturali; realizzare aree di sosta attrezzate; promuovere attività di formazione professionale e di attuazione del diritto allo studio e iniziative di sostegno all’esercizio di attività artigiane. 
Tramite queste leggi si cerca di disciplinare il nomadismo, soprattutto attraverso la costruzione di aree sosta. L’equazione e/o l’omologazione dello zingaro esclusivamente come nomade, diventa così un principio centrale e influenza l’impostazione delle politiche sociali e degli interventi istituzionali in ogni direzione, sia per gli zingari cittadini italiani sia per quelli di cittadinanza straniera.
Anche laddove si fa riferimento alla tutela delle forme espressive, delle tradizioni culturali e dell’identità zingara, gli interventi sono per lo più limitati alla realizzazione di aree sosta e in ogni caso condizionati e subordinati alle scelte autonome dei comuni.
Sono riconosciuti agli zingari di cittadinanza italiana diritti e garanzie pari a quelle degli altri cittadini per l’accesso ai servizi sociali, sanitari, scolastici, ecc. però non si contemplano azioni differenziate per rafforzarne l’inclusione, a fronte delle difficoltà che gli zingari hanno nell’esercizio di questi diritti, vuoi per la mancata o scarsa informazione, vuoi per le rigidità istituzionali dei vari settori di intervento pubblico.

   A Bologna, storicamente luogo di permanenza e transito di comunità e gruppi zingari, il Comune delibera nel 1987 (un anno prima dell’approvazione della legge regionale), la realizzazione sul proprio territorio di cinque aree sosta, attrezzate per accogliere un numero complessivo di 800 zingari, attribuendone la gestione ai Quartieri. Di queste, solo l’area di via Persicetana viene realizzata nello stesso anno e destinata a una ottantina di Sinti emiliani. Altre due aree (Via Dozza e Via Erbosa), anch’esse destinate a Sinti emiliani e veneti, vengono realizzate nel 1990. 
Tutte le aree hanno come unità abitativa la roulotte (una o due per famiglia), solo in via Persicetana è stata realizzata una struttura in muratura dotata di servizi e di uno spazio ad uso comune. Quanto ad interventi per favorire l’integrazione e a tutela dell’identità zingara, non si registrano in modo organico in nessuna di queste aree. Solo in alcune realtà si realizzano interventi apprezzabili per favorire la scolarizzazione dei minori, ma con modalità che non considerano complessivamente il contesto di appartenenza del minore offrendo quindi possibilità di formazione e di lavoro per i componenti adulti della sua famiglia.
Nel corso di questi dieci anni non sono state realizzate a Bologna altre aree sosta destinate ad ospitare zingari cittadini italiani, mentre si realizzano sei aree nei comuni del territorio provinciale (Anzola dell’Emilia, Budrio, Calderara di Reno, Casalecchio di Reno, Granarolo dell’Emilia, San Lazzaro di Savena), con una capienza complessiva di 159 persone. 
Nell’insieme tali realtà sono, oltre che inadeguate strutturalmente, anche insufficienti dal punto di vista numerico e sottolineano l’incapacità istituzionale di considerare il fenomeno zingaro nella sua dinamicità, oltreché la scarsa volontà/capacità politica di dare attuazione quanto meno alle mere previsioni legislative.

b) Gli zingari cittadini stranieri immigrati
Da circa trent’anni l’Italia si è trasformata da paese dove l’emigrazione, soprattutto dai paesi del sud, era piuttosto consistente, a paese di prevalente immigrazione, fenomeno che si è sempre più accentuato, soprattutto negli ultimi due decenni. 
Sul piano legislativo, sino al 1998 le due leggi principali in materia  di immigrazione sono state la n. 934 del 1986 e la n. 39 del 1990 (cosiddetta legge Martelli), integrate da alcuni provvedimenti ad hoc (quali ad es. l’introduzione dei visti d’ingresso per i cittadini di paesi a maggior rischio di immigrazione, la previsione di “eccezioni umanitarie” a favore dei cittadini di paesi dilaniati dai conflitti bellici, come la Somalia e la ex-Jugoslavia, altre “eccezioni” imposte dalla necessità di fronteggiare emergenze, fra cui l’arrivo in massa degli albanesi sulle coste adriatiche nel ’91 e nel ’97, misure speciali a favore dei vecchi e dei nuovi rifugiati). 
Le leggi 943/’86 e 39 del ’90, riguardavano essenzialmente la regolarizzazione degli extracomunitari già presenti illegalmente in Italia, ma hanno anche definito i diritti degli immigrati e gli orientamenti di massima per la loro “integrazione”.
Nel suo insieme questa legislazione si ispirava alla filosofia di attribuire agli immigrati regolari gli stessi diritti civili, economici e sociali dei cittadini, senza imporre, come condizione per fruirne, l’acquisizione della cittadinanza.
Bisogna sottolineare, però, che in Italia molto intercorre fra il teorico riconoscimento dei diritti e la loro effettiva attuazione. Molti diritti, pur formalmente sanciti, sono quindi rimasti lettera morta o quasi (è il caso, in particolare, di quelli al lavoro e alla casa), così come, del resto, per molti cittadini italiani. 
In ogni caso, la legge Martelli ha stanziato fondi di una certa consistenza per dare attuazione al diritto alla casa e all’educazione, e con queste misure hanno trovato sistemazione giuridica e socio-residenziale a Bologna anche zingari cittadini di paesi dell’Est europeo, in particolare rom di cittadinanza Jugoslava che sono stati sistemati nei campi di S. Caterina e Via Larga. Non si è considerato il fatto che i rom Jugoslavi non sono nomadi ed erano ben inseriti nel tessuto sociale e istituzionale Jugoslavo.
In entrambe le aree si realizzano, da subito, attività socio-assistenziali di mediazione culturale fra le comunità rom e le istituzioni su questioni relative alla gestione dell’area, nonché interventi socio-educativi rivolti ai minori scolarizzati presenti nei due campi. Mancano interventi che considerano il lavoro degli adulti, uomini e donne, e di conseguenza tutto ciò che può sostenere i percorsi integrativi, come la formazione, l’alfabetizzazione, il sostegno all’inserimento lavorativo (borse lavoro, stage, ecc.).
Nessuna delle strutture appositamente create dal Comune di Bologna per gestire i vari aspetti dell’immigrazione (nemmeno l’Istituzione Servizi per l’Immigrazione), ha considerato gli immigrati rom Jugoslavi. Le questioni che li riguardavano erano affidate esclusivamente all’ufficio nomadi e profughi (chiuso definitivamente nel ’98 dopo l’affaire Gabbiano).
Nel 1998 viene approvata dal Parlamento la legge n. 40, seconda legge organica sull’immigrazione che sostituisce la precedente legge n. 39/1990. 
Gli obiettivi principali della legge che detta “Disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, riguardano l’esigenza di limitare gli ingressi programmandoli e regolandoli, di contrastare l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento criminale dei flussi migratori, nonché di avviare realistici ed effettivi percorsi di integrazione per i nuovi immigrati e per gli stranieri già regolarmente soggiornanti in Italia.
Ciò a partire dal riconoscimento effettivo del ruolo prezioso che l’immigrazione, anche se scarsamente regolata, ha avuto per il sistema economico nazionale negli anni ‘80 e ‘90, anche in correlazione con la vistosa tendenza all’invecchiamento della struttura demografica della popolazione italiana.
A questa normativa devono adeguarsi anche coloro che soggiornano in Italia stando alle misure umanitarie (ad es. legge n. 390/1992)  come le comunità rom sfollate dai territori della ex-Jugoslavia.
La legge è peraltro assai severa nel definire le condizioni che consentono la regolarizzazione e/o la concessione del permesso di soggiorno: le persone devono dimostrare di possedere un regolare contratto di lavoro, nonché un’adeguata sistemazione abitativa e risorse economiche sufficienti al sostentamento di sé e dei familiari a carico.
Fra le misure previste per contrastare l’immigrazione clandestina, la legge prevede anche la realizzazione di “Centri di trattenimento temporaneo”, ove vengono collocati in stato di detenzione, per un periodo massimo di trenta giorni, gli stranieri con provvedimento di espulsione. 

c) Gli zingari cittadini stranieri profughi
A partire dall’inizio degli anni ’90, con la crisi socio-economica, politica e dei conflitti bellici nazionalisti in corso nella ex-Jugoslavia, aumenta sensibilmente la presenza dei cittadini Jugoslavi sul territorio italiano. Gran parte di loro sono zingari rom che cercano di migliorare la loro posizione economica e che scappano dalla guerra (unica etnia che non si lascia coinvolgere). 
Nel 1992 viene approvata in Italia la legge n. 390 che consente ed obbliga le istituzioni ad attivare “Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli sfollati delle repubbliche sorte nei territori della ex-Jugoslavia”. Sulla base di questa normativa gli zingari profughi in Italia possono ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari e di lavoro, mentre vengono messi a disposizione degli Enti locali fondi per “fronteggiare le esigenze degli sfollati connessi alla ricezione, al trasporto, all’alloggio, al vitto, al vestiario, all’assistenza igienico sanitaria, all’assistenza socio-economica e ad ogni altra esigenza relativa alle necessità della vita quotidiana”. 
In Italia questa legge si applica in modo organico esclusivamente nella provincia di Bologna, seppure solo nel ‘94, cioè a due anni di distanza dalla sua approvazione, e ne usufruiscono al 90% rom della Serbia  e del Kossovo già presenti “abusivamente” sul territorio,  accampati in condizioni di estremo disagio lungo le rive del fiume Reno.
Pur tra ritardi, difficoltà, reticenze e contraddizioni istituzionali, 14 Comuni della Provincia di Bologna hanno dato via via la propria disponibilità ad accogliere i profughi, consentendo così la realizzazione di 22 Centri di Accoglienza che ospitano complessivamente 445 persone distribuite in 120 nuclei familiari. Per queste persone si attiva un percorso di integrazione che ha l’obiettivo di sostenerle e renderle autonome sul territorio.

- Nel marzo 1999, tre giorni dopo l’inizio dell’intervento NATO in Kossovo, un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dichiara, con particolare tempestività (se si considerano i tempi soliti della burocrazia italiana) lo stato di emergenza sul territorio nazionale fino al 30 giugno 1999, per “fronteggiare un eventuale eccezionale esodo delle popolazioni provenienti dalle zone di guerra dell’area balcanica”.
- Il 12.5.1999 un ulteriore Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri detta “Misure di protezione temporanea a fini umanitari, da assicurarsi nel territorio dello Stato a favore delle persone provenienti dalle zone di guerra dell’area balcanica”.
Il decreto consente il rilascio di un Permesso di soggiorno per motivi di protezione temporanea, che autorizza anche il lavoro e lo studio ed ha validità fino al 31.12.1999. Questo decreto prevede l’attivazione di un sistema di accoglienza analogo a quello realizzato a Bologna con l’applicazione della L. 390/92, ma rimane nei fatti inattuato, se si esclude la possibilità per i profughi di permanere nei centri governativi creati nei territori di confine. 
Se la con la legge 390/92 si era realizzato un doppio sistema di accoglienza che prevedeva o il “ricovero” delle persone nei centri governativi (dove si resta in attesa del rimpatrio) oppure, almeno a Bologna, la sistemazione in Centri realizzati dagli Enti Locali che consentivano e sostenevano un percorso di integrazione e autonomia sul territorio, con questi nuovi decreti, nei fatti, si offre alle persone solo la prima di queste opportunità.
A Bologna, su sollecitazione della Prefettura, gli Enti Locali si attivano, congiuntamente alla Caritas e alla Croce Rossa, per l’apertura e la gestione di un Centro di Prima Accoglienza nei locali dell’ex - Maternità di Via d’Azeglio, dove vengono ospitati per circa una settimana profughi kosovari provenienti dai centri governativi del sud Italia ed in transito sul territorio italiano per raggiungere i loro parenti già da tempo immigrati nelle regioni del Nord Europa.
- Nell’agosto 1999 una circolare del Ministro dell’Interno dichiara che, “essendo cessate le condizioni di guerra”, non potranno essere più rilasciati permessi di soggiorno per motivi di protezione umanitaria.
- Successivamente, nel febbraio 2000, un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, dichiara la prosecuzione delle misure di protezione temporanea fino al giugno 2000 per le persone già titolari di un permesso di soggiorno ai sensi del Decreto di maggio ‘99, nonché l’attivazione, a partire dal mese di aprile 2000, di “programmi coordinati di rimpatrio”. 
 Sostanzialmente, dal Decreto di maggio ’99 in poi, non si attivano più interventi di accoglienza strutturata e finalizzata all’integrazione, né si utilizzano le strutture già esistenti e realizzate con la L. 390/92 per i nuovi arrivati. E’ paradossale che un Decreto governativo prenda atto della cessazione del conflitto in Kossovo, ma non del fatto che le persone continuano ad arrivare, costrette da nuove pulizie etniche e atti di terrorismo, ancora in corso nel loro paese.

d) Gli zingari irregolari
Non esistono dati che stimano la presenza degli irregolari, né a livello locale né sul territorio nazionale, ma la loro presenza - nell’irregolarità - è dovuta a fenomeni che hanno a che fare soprattutto con l’applicazione o meno delle leggi esistenti in materia di regolarizzazione.
- Tutte le questioni attinenti al ricongiungimento familiare e ai flussi delle parentele non sono considerate con attenzione o addirittura sono disattese in fase di applicazione delle leggi che pure prevedono queste possibilità. 
- Spesso l’espulsione “amministrativa” dal campo/CPA si traduce in una espulsione di fatto dal territorio nazionale per l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. 
- La condizione “kafkiana” dei richiedenti asilo (fra i quali occorre considerare anche tutti i profughi che non hanno potuto ottenere un permesso di soggiorno perché arrivati  dopo la circolare dell’agosto ’99) che aspettano per anni una risposta, non possono lavorare e ricevono aiuto dallo stato per un periodo massimo di 30 giorni. 
- Le persone che non hanno potuto rinnovare il permesso di soggiorno ma che comunque non possono ritornare nel paese di provenienza. 
- La “disattenzione” rispetto all’applicazione delle leggi, come per le persone che pur in possesso di permesso di soggiorno, non hanno usufruito di alcuna forma di accoglienza istituzionale.
Tutte queste diverse condizioni fanno sì che il numero degli irregolari  e delle persone in attesa di sistemazione, accampati un po’ ovunque e sempre in condizioni di estrema precarietà, a volte anche in “centri di fortuna”, sia sempre in aumento.
Particolarmente significativi a questo proposito, i dati sulle espulsioni, gli sgomberi, i controlli realizzati nel 1999 dalla Polizia Municipale del territorio bolognese: 1792 controlli sui Nomadi (zingari), 678 controlli e sgomberi di aree occupate abusivamente da nomadi ed extracomunitari, 154 controlli nei Centri di prima accoglienza. 

In tutti questi anni 90’ che caratterizzano l’accoglienza –abusiva e strutturata- l’organica  mancanza di dialogo e di mediazione, fa nutrire di autoreferenzialità le istituzioni, così come la settorializzazione e il mancato coordinamento degli interventi pubblici hanno strutturato i meccanismi permanenti dell’esclusione e dell’emergenza istituzionale, funzionale solo a se stessa. 
Complessivamente per quanto riguarda le istituzioni e le politiche sociali rimane non osservata, poco puntualizzata e senza nessuna forma di monitoraggio tutta la fascia dei diritti di cittadinanza di cui gli zingari, italiani o stranieri, non usufruiscono oppure usufruiscono soltanto parzialmente e in modo disorganico e che riguardano la residenza anagrafica, l’iscrizione e accesso al Servizio Sanitario Nazionale, il Libretto di lavoro e l’iscrizione al collocamento, l’iscrizione scolastica, le opportunità di Formazione Professionale, l’opportunità di abilitazione ai mestieri, la possibilità di attivare contratti per le utenze, l’accesso ai bandi ERP.

   Resta, infine, l’esigenza di monitorare il riconoscimento e l’esercizio di questi diritti di cittadinanza su tutte le comunità zingare, specialmente su quelle collocate nei campi. E’ la funzionalità di questi diritti che può incidere sulla possibilità di muoversi verso una collocazione residenziale e sociale diversa dall’attuale.Ciò è necessario per capire i bisogni reali, superare l’autoreferenzialità che guida gli interventi in essere e concepire le prospettive di mobilità sociale per impostare le relazioni di aiuto pubblico in questa direzione.
 

Dimitris Argiropoulos
Centro Multietnico Navile

- ACCOGLIENZA E IMMIGRAZIONE A BOLOGNA

Gerusalemme fu distrutta perché i suoi abitanti non avevano più vergogna.
          Talmud, Shabbath
   Sgomberi piccoli e drastici in ogni quartiere, trattamento abituale verso chi orbita le periferie della città per assenza e proibizione di altri spazi. Sgomberi che caratterizzano l’intervento istituzionale per eccellenza nel periodo 1998-2000, durante il quale si applica in Italia,  in piena sintonia con le politiche di Schenghen,  la seconda legge organica sull’immigrazione.
Dai dati relativi all’attività della Polizia Municipale di Bologna nel 1998 risultano effettuati 120 sgomberi per occupazioni abusive di stabili e 677 allontanamenti di caravan di “nomadi” dalla città, attività che si intensifica nel 1999 anno in cui vengono portati a termine 1792 controlli sui “nomadi”, 678 controlli e sgomberi di aree occupate abusivamente da “nomadi” ed extracomunitari, 154 controlli nei Centri di prima accoglienza per immigrati e profughi. 
Questa tipologia di sgomberi si situa in continuità con gli sgomberi e le espulsioni degli anni precedenti che si caratterizzavano per la loro strutturazione periodica e costante, massiccia e frontale.
Tali sgomberi erano giustificati dalla presenza “abusiva” di cittadini, stranieri ma non solo, soprattutto nelle periferie delle città, ma anche in altri luoghi-nonluoghi del tessuto urbano, anche se su tutto il territorio metropolitano esistevano ed esistono ancora ben tre sistemi/strutture di accoglienza, i quali si differenziano in base al riferimento legislativo che ne ha consentito l’istituzione.
Questi sistemi/ strutture di accoglienza riguardano sia cittadini italiani che stranieri, influenzano le proposte e gli interventi pubblici (accompagnamento) per rispondere a bisogni e situazioni complesse includendo più settori come la scuola, il lavoro e la formazione, ma soprattutto sono caratterizzati dal tipo di residenzialità che impongono. Collocano individui, famiglie e comunità sia fuori dal contesto urbano, sia in tipologie abitative che possono a malapena essere considerate interventi a bassa soglia per una risposta rapida ed emergenziale, mentre si delineano come l’unica e definitiva risposta che a sua volta condiziona fortemente ogni tipo di intervento istituzionale limitandone potenzialità ed effetti.
I paradigmi di questi sistemi/strutture d’accoglienza sono sostanzialmente tre e caratterizzano gli anni dal 1985 al 2000.
Il primo riguarda gli zingari sinti di cittadinanza italiana che non essendo più nomadi da decenni si stabilizzano sul territorio in situazioni di grave disagio economico e  abitativo. Questa condizione li fa emergere e concepire come oggetto di intervento istituzionale impostato sulla logica dell’ordine pubblico. 
Nascono così  le “aree sosta nomadi”, che vengono successivamente legittimate dalla legge regionale (la n. 47 dell’88). L’equazione zingaro uguale nomade è il principio-guida che influenza l’impostazione delle politiche sociali e degli interventi istituzionali in ogni direzione, sia per gli zingari cittadini italiani sia per quelli di cittadinanza straniera, in Emilia Romagna come altrove.
A Bologna, storicamente luogo di transito e permanenza di comunità e gruppi zingari, negli anni ottanta vengono realizzate 8 aree sosta (3 in città e 5 nei paesi della cintura) per accogliere un numero complessivo di 800 zingari la maggior parte dei quali permane tutt’oggi nei campi. Ciò che caratterizza le loro condizioni di vita è l’immobilismo all’interno dei campi e la totale assenza di percorsi di mobilità sociale. Non si registrano in modo organico in nessuna di queste aree interventi per favorire i percorsi di integrazione e la loro identità zingara. Solo in alcune realtà si realizzano interventi apprezzabili per favorire la scolarizzazione dei minori, ma con modalità che non considerano complessivamente il contesto di appartenenza del minore offrendo quindi possibilità di formazione e di lavoro per i componenti adulti della sua famiglia.
Il secondo paradigma di accoglienza strutturata riguarda i cittadini stranieri presenti sul territorio e provenienti da paesi in via di sviluppo non appartenenti alla Comunità europea. 
Sino al 1998 le due leggi principali in materia di immigrazione sono state la n. 934 del 1986 e la n. 39 del 1990 (cosiddetta legge Martelli), integrate da alcuni provvedimenti ad hoc (quali ad es. la previsione di “eccezioni umanitarie” a favore dei cittadini di paesi dilaniati dai conflitti bellici). 
Le leggi 943/’86 e 39/’90, riguardavano essenzialmente la regolarizzazione degli extracomunitari già presenti illegalmente in Italia, ma hanno anche definito i diritti degli immigrati e gli orientamenti di massima per la loro “integrazione”. In particolare, la cosiddetta legge Martelli ha stanziato fondi di una certa consistenza per dare attuazione al diritto alla casa, all’educazione e alla formazione: si creano così i centri di prima accoglienza per immigrati (di seguito CPA).
Al febbraio 99 sono presenti nel territorio provinciale di Bologna 62 CPA (32 nella città) che sono in maggioranza di dimensioni ridotte: 50 risultano infatti censiti ufficialmente per meno di 15 posti letto, di questi, 20 nel Comune di Bologna sono miniappartamenti con 2 o 4 posti letto, distribuiti in 2 condomini; solo nel Comune di Bologna sono presenti 5 strutture sovradimensionate rispetto alle recenti normative regionali, che fissano in 32 unità il numero massimo delle persone che è possibile ospitare in ciascun CPA. Si tratta di 2 CPA con una capienza che va dai 31 ai 50 posti, 1 CPA con 51- 80 posti letto, altri 2 CPA con addirittura 81-120 posti letto.
Questi CPA, ospitano circa 1000 persone su un totale di 21380 (al 31.12.’98) immigrati residenti, ma dalle osservazioni del Quarto rapporto ISMU sulle immigrazioni, il 47% di questi abita comunque in sistemazioni precarie o non può disporre autonomamente dello spazio in cui vive (strutture di accoglienza, casa del datore di lavoro, amici ospitanti, alloggi impropri). Anche nei CPA i tempi di permanenza si protraggono per tempi che certamente non sono quelli di “prima” accoglienza, tanto che dal ’90 ad oggi la maggior parte della popolazione al loro interno è rimasta la stessa. 

   Quanto ai percorsi di inserimento sociale, la maggior parte della popolazione immigrata in età lavorativa occupa gli spazi del mercato del lavoro non coperti dalla domanda dei residenti a causa delle faticose o particolarmente disagiate condizioni lavorative e delle retribuzioni più modeste. I dati sugli avviamenti al lavoro, reperiti solo fino al 1998, mostrano infatti che il 72,22% (su un totale di 3.593 avviamenti) riguardano contratti per operai generici. Le donne trovano occupazione nel terziario, per lo più come domestiche, collaboratrici familiari, addette alle pulizie, ecc. o in agricoltura per lavori stagionali; gli uomini sono occupati soprattutto nell’industria nei settori edile e metalmeccanico (fonderia, trattamenti termici e galvanici, ecc.), nel terziario (pulizie, servizi di ristorazione e facchinaggio), in agricoltura.
Le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro per gli immigrati, sono per lo più legate alla crescente richiesta di manodopera operaia specializzata: circa il 92% tra gli stranieri iscritti al collocamento (4974  al 31.12.’99) risulta senza alcun titolo di studio, ma su questo dato incide sia la difficoltà ad ottenere il riconoscimento in Italia di titoli di studio acquisiti in paesi stranieri sia l’assenza di procedure per l’accertamento delle competenze professionali, utile ad una migliore collocazione degli immigrati nel mercato del lavoro.
L’inserimento dei bambini stranieri nelle scuole del territorio provinciale riguarda la quasi totalità dei presenti, anche a prescindere dalla regolarizzazione giuridica di tale presenza, e può considerarsi soddisfacente a livello qualitativo per gli aspetti dell’accoglienza, ma non per quanto riguarda la loro permanenza. 
Sul totale degli alunni iscritti al settembre ’99 nelle scuole della provincia di Bologna (108692) il 3,2% sono stranieri (3.472). Significativo l’abbandono scolastico che si registra dopo il ciclo dell’obbligo: la percentuale di stranieri sul totale degli alunni si abbassa dal 9,1% (823) nelle scuole medie inferiori, al 2,2% (302) negli istituti di II grado. 
Gli immigrati possono accedere ai percorsi formativi previsti dalla programmazione regionale e provinciale, ma non sono previsti percorsi mirati che considerino complessivamente e adeguatamente i loro bisogni culturali e sociali, tant’è vero che solo timidamente abbiamo registrato la presenza di progetti impostati sulla formazione in situazione o che prevedano la mediazione culturale. 
Questo tipo di presenza alloggiativa, lavorativa, formativa e scolastica evidenzia una forte staticità che include anche la seconda generazione di immigrati.
Il terzo paradigma dell’accoglienza strutturata si riferisce alla sistemazione dei cittadini profughi della ex-Jugoslavia, prevista dalla legge n. 390/’92. In Italia questa legge si applica in modo organico esclusivamente nella provincia di Bologna, seppure solo nel ‘94, cioè a due anni di distanza dalla sua approvazione, e ne usufruiscono al 90% rom della Serbia e del Kossovo già presenti “abusivamente” sul territorio,  accampati in condizioni di estremo disagio lungo le rive del fiume Reno. Dai due censimenti effettuati dal CIR nel 1993 e nel 1995 risultano presenti 1099 persone. Di questi, solo la metà (498 persone distribuite in 120 nuclei familiari) hanno trovato una sistemazione nei 22 centri di prima accoglienza aperti dal ‘94 al ’98 in 14 comuni dell’area metropolitana di Bologna, con progetti che miravano all’integrazione e autonomia dei profughi e che hanno consentito a 80 di queste famiglie di vivere con redditi da lavoro regolare. Questi successi si limitano e si annullano per l’abitare nei campi-CPA, cioè in strutture isolate rispetto al contesto urbano e sociale, anche con vere e proprie recinzioni, che crea condizioni di chiusura e ghettizzazione, e rende più difficile, anziché facilitare, il percorso di integrazione. Strutture queste che si configurano sempre di più come unidimensionali e altamente istituzionalizzate, dove si preclude all’individuo e alla comunità ogni forma di mobilità sociale.
A sei anni di distanza, non si hanno notizie delle 600 persone che non hanno trovato alcuna forma di accoglienza, e sono incerte anche le notizie intorno alle 120 persone che, alla data del febbraio ‘98, non risultano più presenti nei CPA. 
E’ probabile che una parte di loro siano rientrati in patria o abbiano trovato un’altra sistemazione sul territorio, ma è pur vero che sono state effettuate diverse espulsioni dai centri di accoglienza, rispetto alle quali non si hanno informazioni più precise sulle motivazioni che sottostanno a questa drastica scelta istituzionale.
Un quarto paradigma è l’accoglienza che si sta strutturando adesso, riguarda soprattutto i profughi kossovari e balcanici che, a partire dal maggio 1999, usufruiscono in Italia di misure di protezione temporanea a fini umanitari. I decreti approvati dopo “l’ingerenza umanitaria” nella ex-Jugoslavia, consentivano l’attivazione di un sistema di accoglienza analogo a quello realizzato a Bologna con l’applicazione della L. 390/92, ma rimangono nei fatti inattuati, se si esclude la possibilità per i profughi di permanere nei centri governativi creati nei territori di confine. 

   Se con la legge 390/92 si era realizzato un doppio sistema di accoglienza che prevedeva o il “ricovero” delle persone nei centri governativi (dove si resta in attesa del rimpatrio) oppure, almeno a Bologna, la sistemazione in Centri realizzati dagli Enti Locali che consentivano e sostenevano un percorso di integrazione e autonomia sul territorio, con questi nuovi decreti, nei fatti, si offre alle persone solo la prima di queste opportunità . 
Non si attivano più interventi di accoglienza strutturata e finalizzata all’integrazione, né si utilizzano le strutture già esistenti e realizzate con la L. 390/92 per i nuovi arrivati. E’ paradossale che un Decreto governativo prenda atto della cessazione del conflitto in Kossovo, ma non del fatto che le persone continuano ad arrivare, costrette da nuove pulizie etniche e atti di terrorismo ancora in corso nel loro paese.
E questo paradosso arriva all’assurdità quando crea un considerevole aumento dei richiedenti asilo sul territorio e il mercato dell’accoglienza privatizzata, dove l’intervento pubblico si limita all’erogazione di fondi senza possibilità di controllo sui percorsi di integrazione possibile. Emblematiche di questa accoglienza privatizzata sia le vicende legate alla “missione arcobaleno” o all’affaire Gabbiano, sia l’erogazione dei fondi statali dell’8 per mille a enti caritativi (che a causa della loro appartenenza religiosa già usufruiscono di questo beneficio) per la gestione di centri destinati all’accoglienza dei rifugiati. 

Sgomberi ed espulsioni, sistemi di accoglienza che non promuovono mobilità sociale, l’applicazione o meno delle leggi, la mancanza di dialogo e mediazione sociale, la presunzione autoreferenziale delle istituzioni, i rapporti istituzionali impostati quasi esclusivamente a partire dall’assistenzialismo, la settorializzazione e il mancato coordinamento degli interventi pubblici, tutti questi fattori rafforzano i meccanismi istituzionali di clandestinizzazione e attivano i meccanismi permanenti dell’esclusione e dell’emergenza istituzionale, funzionale solo a se stessa.
L’espulsione è la strategia primaria dell’esclusione, per non includere nel sistema.
Sgomberi, fogli di via, provvedimenti amministrativi di allontanamento, provvedimenti di ordine pubblico, rimpatri forzati, mancata presa in carico, non applicazione delle leggi, impedimenti burocratici e non alla concessione dei permessi di soggiorno. Metodi questi largamente praticati per non avvicinare le distanze con l’altro, per giustificare le proprie ragioni, per non permettere considerazione, dignità e presa in carico. Metodi questi che consentono, con la forza e gli atti amministrativi di allontanare e/o di scoraggiare gli immigrati, i profughi e le minoranze a permanere sul territorio. 
L’ eternizzazione degli interventi è la strategia lenta, sistematica e giustificata dalla logica del “meno peggio” per continuare ad escludere. 
Quando non si può fare altrimenti si interviene, quando emerge l’emergenza, quando non si può attuare l’espulsione, allora si interviene. Chi è stato accolto, chi ha superato le barriere del sistema, chi non è stato espulso, chi ha resistito, incontra l’intervento pubblico e con esso deve misurarsi.
Ma è un intervento pubblico esiguo, parziale, settorializzato, privo di prospettive e di progettualità che imposta e nutre le dinamiche dell’esclusione, prolungando all’infinito i tempi della sua azione, annullando ogni finalità di integrazione, annullando nel sistema campo/CPA le persone. E’ un intervento pubblico che assistenzializza, ricatta, penalizza, quasi a volersi vendicare dell’ ”accoglienza”. 
I centri di prima accoglienza diventano i centri perversi e distorti dell’eterna accoglienza dai quali non si esce mai. I processi di “integrazione” e i loro tempi non hanno fine, gli esami per  l’integrazione li superi solo se riesci a omologarti, a diventare “normale”, “uguale”. Gli interventi si eternizzano sempre a partire da logiche istituzionali “neutre” e “obiettive”.
Gli insuccessi di questi interventi avviano la descrizione negativa dell’altro, “ufficializzandola” a livello istituzionale e rafforzandola a livello sociale.
False informazioni, corrispondenti alla propria percezione e non basate sul sapere ascoltato, notizie di ogni genere attribuite alla natura non corretta e non correggibile del richiedente l’aiuto istituzionale, permettono di giustificare l’insuccesso degli interventi e la messa in opera di altri interventi per correggere questi insuccessi. Nasce e si rafforza il bisogno di sicurezza che ovviamente guarda qualsiasi cosa meno che la sicurezza dello zingaro, dell’immigrato, dell’altro. 
La securitizzazione degli interventi è il meccanismo ultimo dell’esclusione. 
Chiamando continuamente in causa la legalità/illegalità, dentro la quale possono trovarsi o meno gli zingari, legittima l’impostazione di interventi basati sul controllo, dove è il Vigile che fa l’operatore e l’operatività sociale si riduce al lavoro di portineria e vigilanza. Giustificano i controlli di massa che colpiscono le comunità e non i responsabili di possibili reati, la mancanza di proposte per il lavoro e la discriminazione dei redditi informali, giustificano tutto ciò che può impedire la mobilità sociale. 
C’è una disattenzione intenzionale sui diritti, che non considera:
- tutte le questioni attinenti al ricongiungimento familiare e ai flussi delle parentele che non sono considerate con attenzione o addirittura sono disattese in fase di applicazione delle leggi che pure prevedono queste possibilità. 
- l’espulsione “amministrativa” dal campo/CPA che si traduce in una espulsione di fatto dal territorio nazionale, per l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. 
 - la condizione “kafkiana” dei richiedenti asilo che aspettano per anni una risposta e che non possono lavorare. 
- le persone che non hanno potuto rinnovare il permesso di soggiorno ma che comunque non possono ritornare nel paese di provenienza. 
- la “disattenzione” rispetto all’applicazione delle leggi, come per le persone che pur in possesso di permesso di soggiorno, non hanno usufruito di alcuna forma di accoglienza istituzionale.
Queste condizioni fanno sì che il numero degli irregolari e dei non autorizzati in attesa di sistemazione, accampati un po’ ovunque e sempre in condizioni di estrema precarietà, a volte anche nei centri di prima accoglienza o in “centri di fortuna”, sia sempre in aumento, ma tutto ciò è considerato solo per giustificare interventi repressivi.
Questa strategia dell’esclusione globale è stata messa a punto dalle nostre istituzioni in tutti questi anni dell’immigrazione “fenomeno nuovo” e si è inasprita nell’ultimo periodo, diventando solamente più esplicita. 
Un’amalgama di eternizzazione e securitizzazione attribuita esclusivamente all’altro, allo zingaro, allo straniero immigrato e profugo. 
Considerare la complessità cercando futuro, per riflettere insieme sulle chiusure/aperture e sulla soddisfazione/continuità del progetto migratorio, per strutturare accoglienze che non cristallizzano l’altro ma che ci portino a nuove forme di convivenza, è la scommessa di adesso.
Occorre recuperare la solidarietà, sia come valore che nell’azione sociale, occorre concepire l’integrazione come reciprocità, come riconoscimento/valorizzazione della differenza individuale e della differenza etnico-culturale, come ricerca di possibili equilibri, basati sull’incontro/scontro, che possano permettere la convivenza interculturale.
Un individuo può essere una persona, intendendo come persona i ruoli e le maschere della sua quotidianità. Un individuo può essere caratterizzato dalle differenze proprie del genere o dell’etnicità, della cultura o dell’età, ma non c’è contraddizione in questa identità al plurale. 
Si tratta non solo di accettare la fondamentale interdipendenza della gente e delle culture, ma di pensare con chiarezza a nuove relazioni tra individui e istituzioni. 
Ciò, “… implica il riconoscimento delle storie, la ricerca di un tempo comune -che molte volte incontra la difficoltà di tempi diversi, di sensibilità al tempo molto diversa- implica la ricostruzione dei depositi per l’accumulo, la riorganizzazione di un sistema di distribuzione ”. 
In questa collocazione, la difficoltà può anche essere positiva, perché può consentire -proprio perché l’operazione progettuale è più difficile- di rapportarsi non alla mia forza ma alla mia debolezza, e quindi di fare spazio a quella forza dell’altro che sembrava non esistere perché appariva tutta consumata dalla debolezza.”   Ciò implica sforzi comuni per cercare le possibilità e le prospettive. Implica conversazione. Con/vers(o)/azione. R/esistenza.
Non abbiamo finito / di incrinare / a forza di colpi / la tenebra (J. Salomon Franco).
 

Per il Centro Multietnico Navile
Dimitris Argiropoulos

o Pubblichiamo i testi introdutivi alle recenti giornate seminariali di Bologna sul tema Zingari e città, confrontarsi con l'in-differenza

Accoglienza 
e immigrazione
a Bologna

Proposta per l'assistenza sanitaria
in Emilia Romagna

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di Nonluoghi
 

(7 dicembre 2000)

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