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i percorsi

Nord-Sud, il mercato padrone e l'arte di arrangiarsi...
L'omologazione dei modelli di crescita e di povertà è l'unica strada? Forse no
 

di MARCO PONTONI

   In questo articolo mi propongo di porre alcuni semplici interrogativi sulla povertà. Inoltre sosterrò che esiste nelle società industriali avanzate un residuo di nostalgia per quelle preindustriali o “povere” (che si esprime anche attraverso certe forme di turismo).
   Infine, vorrei sottolineare come l’ideologia “sviluppista” accomuni i paesi poveri a quelli ricchi, e come sia difficile ipotizzare oggi per il Terzo mondo percorsi di sviluppo diverso, autonomi rispetto alle imposizioni del mercato (tipo “self reliance”, per intenderci); ma che nell’informalità di certe soluzioni ai problemi posti dallo sviluppo, in certa “arte di arrangiarsi” si nasconda in ultima analisi qualcosa di simile all’autosviluppo..

Povertà sostenibile e benessere insostenibile

In passato, prima che la sinistra scoprisse i diritti civili (che sono per loro natura interclassisti), essere di sinistra voleva dire in primo luogo stare dalla parte dei “poveri”. Dunque, si presume che un tempo le idee riguardo a che cosa sia la povertà fossero, almeno in linee generali, abbastanza chiare. Ma oggi è ancora così? Il relativismo proprio della stagione postmoderna, ma anche della cosiddetta “politically correctness”, unito alla nuova sensibilità ecologista, non hanno in qualche modo modificato le nostre idee riguardo alla povertà? Un contadino di un qualunque paese del Terzo mondo (ma anche delle enclaves povere del primo) con speranza media di vita di cinquant’anni, con accesso limitato a acqua, energia, assistenza sanitaria, può essere definito semplicemente povero? Il suo stile di vita non costituisce piuttosto un esempio di “sostenibilità”, sotto il profilo del suo rapporto con l’ambiente, ma anche con riferimento alla conservazione di alcuni tratti della sua cultura (materiale e non materiale)? Insomma, che cos’è la povertà? Un dato oggettivo, misurabile con i parametri degli organismi internazionali, un problema sociale, a cui porre rimedio con strategie di welfare, o una condizione di vita naturale per molta parte dell’umanità? Mettiamola così: il problema sono i poveri o non piuttosto la pretesa della scienza di farci vivere tutti fino a cento anni, la pretesa del mercato di darci diete alimentari estremamente variate e intrattenimento culturale sofisticato a ogni ora del giorno e della notte, la pretesa dei guru del liberismo di dare a tutti accesso illimitato ad ogni tipo di bene, consumo, risorsa?

   Gli studiosi hanno elaborato numerosi indicatori scientifici per misurare l’impatto sull’ecosistema dello stile di vita del singolo individuo; uno di questi è ad esempio l’impronta ecologica, che in sostanza traduce tale impatto (in termini complessivi, considerando cioè consumi, scorie ecc.) in quantità di terreno utilizzato. Mediante questo indicatore si scopre che l’impronta ecologica dell’abitante di una città anche di piccole dimensioni come Trento è assai maggiore rispetto a quella di un abitante della periferia, e che in sostanza il cittadino usa per mantenere il suo stile di vita anche una quota di terreno che dovrebbe spettare al montanaro. 
Su scala planetaria il discorso ovviamente si fa ancora più evidente. Il che ci porta a riformulare il nostro quesito di base. Sono i poveri a dovere cambiare, a dover essere aiutati a diventare meno poveri, o non sono invece i ricchi a dover essere “riconvertiti”, quantomeno ad uno stile di vita più sobrio? Ma il problema è anche culturale; nel tentativo di sottrarre i poveri alla loro condizione di povertà, i ricchi non modificano irreparabilmente le culture altrui, per giunta facendosi portatori di aspettative assolutamente troppo elevate per poter essere soddisfatte? 

I viaggiatori e la nostalgia della povertà 

   L’articolo di Martina Fardin sul suo viaggio in Egitto (“Egitto, ricchi e poveri”, uscito il 15/5) sottintendeva, credo, questi ed altri interrogativi, ben familiari a tutti coloro che amano viaggiare tenendo gli occhi aperti, pur nella consapevolezza che le impressioni di viaggio sono sempre fugaci, parziali, opinabili. Lascio volentieri a Duccio Canestrini o a qualche altro esperto degli splendori e delle miserie dell’homo turisticus l’onere di dire qualcosa di intelligente su un’esperienza che, comunque sia, resta per la maggior parte di noi un momento fondamentale di incontro con l’altro. 
  Vorrei partire piuttosto da una considerazione di base, che ha qualche attinenza con le domande di cui sopra, e che ricavo dalle mie brevi esperienze di viaggio in paesi poveri: si rinuncia abbastanza facilmente, e a cuor leggero, a ciò che non si conosce, ma diventa molto difficile condurre uno stile di vita sobrio, accettare i vincoli dello sviluppo sostenibile, sopportare la povertà una volta sperimentati gli effetti del benessere.

   Se cresci in un villaggio senza tv e turisti che vengono ad immortalare la tua arretratezza con le loro Nikon, forse riuscirai persino ad essere felice, per quanti limiti quel genere di vita t’imponga. E questa è una consapevolezza a volte riaffiora anche da noi, sotto forma di nostalgia per qualcosa che si è perduto per sempre: gli anziani dicono spesso che una volta “si era più felici”, anche se poveri. Di solito pensiamo che, dicendo così i vecchi stiano semplicemente rimpiangendo la propria giovinezza, ma invece io credo che stiano dando voce ad un dato antropologico reale: la felicità, per noi animali - tale è l’essere umano – ha a che fare soprattutto con l’assenza di complessità. E le società povere sono anche società meno complesse, dove per complessità intendo qui l’attitudine a “variare” (le società complesse sono società in cui tutto varia in tempi brevi, richiedendo continui sforzi di adattamento agli individui). 
   Ciò non significa idealizzare acriticamente le società preidustriali o precapitaliste; incidentalmente si potrebbe osservare ad esempio che quelle società sono anche meno libere, dal momento che l’individuo, in esse, è quasi nulla, ciò che conta realmente è il gruppo, la comunità, solo nel gruppo puoi sopravvivere. Tuttavia c’è nelle società più sviluppate un fondo di nostalgia, una saudade alla rovescia, e se gli anziani riescono spesso a mettere a fuoco le ragioni reali di questa nostalgia, tutti gli altri la lasciano trasparire da comportamenti apparentemente innocenti. La moda dei viaggi esotici, il nudismo, la passione per il camping fanno parte secondo me di questa “nostalgia per la semplicità”, che talvolta diventa addirittura nostalgia per il comunitarismo delle società povere e preindustriali (lo stare nudi elimina i segni esteriori delle differenze di classe, ma anche quelli eventualmente derivanti dalla diversa provenienza geografica. Nudi si è tutti uguali, e Milan Kundera nell’”Insostenibile leggerezza dell’essere” ha colto assai bene questo aspetto “comunitarista-comunista” dello stare nudi e assieme).

Povertà e sviluppo: suggestioni di viaggio fra Zanzibar, Djerba, il Brasile

   Ma quando la seduzione di un bene, un prodotto, una comodità, una forma di divertimento, insomma di uno stile di vita più ricco hanno contagiato una società povera, quest’ultima difficilmente potrà farne a meno. L’eventuale impossibilità a raggiungere o a mantenere quello stile di vita sarà invece fonte di un’infelicità assai maggiore rispetto all’uggia, allo spleen, all’inquietudine, alla depressione e alle infinite altre patologie che pure dominano sovrane nelle società più sviluppate. I sociologi la chiamano “rivoluzione delle aspettative crescenti”. Per me questa è la soglia sulla quale si arrestano le nostre belle utopie sullo sviluppo “diverso”.

Una sera nel 1993, nella costa est di Zanzibar (non c’erano villaggi turistici e i turisti dormiva in capanne molto spartane), mi aggiravo per un villaggio di pescatori cercando qualcosa da mangiare. Un uomo mi invitò ad entrare nella sua capanna, per spartirci la sua cena. Dentro era buio pesto (niente elettricità), e gli unici mobili sembravano essere delle sedie rudimentali, ma l’uomo aveva un fare principesco, non mi sembrava per niente imbarazzato dalla sua evidentissima povertà materiale. Per prima cosa fece uscire le donne, moglie e figlia, poiché a capanna si componeva di un unico vano, e la sua religione non gli consentiva di far mangiare le donne assieme all’ospite (come ho detto, nelle società povere, generalmente assai più bigotte delle società sviluppate, le libertà personali sono tenute in assai scarsa considerazione). Poi mi passò una ciotola con dentro qualcosa che, portata alla bocca con le mani, si rivelò essere della cassava terrosa. Naturalmente il viaggiatore occidentale aveva letto sulle guide che in Africa ci sono un’infinità di parassiti, che il modo migliore per beccarseli è mangiare in luoghi poco puliti ecc. Ma, colpito da quella manifestazione di generosità assolutamente disinteressata (nessuna richiesta di denaro, nessuna richiesta di aiuto per emigrare in Italia) non ci fece caso, e si godette una delle cene più strane della sua vita, in compagnia di un uomo molto povero, che ad onta di ciò sembrava essere discretamente soddisfatto della sua vita. Il “sembrava” è d’obbligo, perché per lo stressato e alienato figlio dell’occidente produttivista è facile confondere l’inedia con la felicità, è facile, maledettamente facile confondere la mancanza di possibilità e di prospettive con l’olimpica saggezza.

Cambiamo scenario, eccoci in un’altra isola, Djerba, in Tunisia. Lì il tassista che mi portava in giro mi raccontò tra uno sbadiglio e l’altro la sua giornata tipo. L’uomo si alzava in piena notte ed iniziava a raccogliere i turisti che uscivano dal casinò o dalle discoteche, per riportarli nei villaggi turistici. Il mattino, poi, si piazzava con il suo taxi davanti all’uscita dei villaggi, ad attendere qualcuno che volesse fare il giro dell’isola. Il giro finiva di solito intorno alle 12.30. Dopodiché l’uomo andava a casa e si riposava un po’, quindi si alzava e andava a lavorare in un posto di telefonia pubblica fino a tarda sera. Rientrava, mangiava qualcosa, dormiva, e alle 3 di notte era di nuovo in pista.
Djerba è un’isola piuttosto ricca; e certamente l’uomo conduceva una vita più agiata rispetto a quello che mi aveva invitato nella sua capanna a Zanzibar. L’altra faccia di tutto ciò era l’autosfruttamento al quale si sottoponeva (autosfruttamento, una parola magica anche nell’immaginario del piccolo imprenditore del Nord-est). 

   Sotto il profilo strettamente economico, comunque, l’atteggiamento dell’uomo era corretto. La ricchezza comporta in genere maggiore lavoro (l’antropologo Marshall Sahlins ha dimostrato che nelle società più arcaiche che si conoscano, quelle di cacciatori-raccoglitori, il tempo impiegato per le attività classificabili come produttive è inferiore a quello richiesto dalle società agricole). Naturalmente a maggiore benessere corrispondeva maggiore stress, ma l’uomo non credo sarebbe stato disposto a “tornare indietro”, ovvero allo stile di vita tipico dei tunisini del sud che si incontrano sulla strada verso il deserto, ad esempio a Tataouine, che trascorrono il tempo giocando a dama. Aggiungerò che, comunque, in questa fase l’uomo si trovava un po’ “a cavallo fra due mondi”; anche se con un piede nel mondo sviluppato, manteneva alcune delle abitudini o dei comportamenti tipici delle società preindustriali: il tenere la moglie a casa anziché consentirle di lavorare fuori, mantenere i figli di un fratello che lavorava all’estero e, a quanto ho capito, rientrava in patria a trovarli raramente ecc. 

Terzo scenario, un paese industrializzato, ma con larghissime fasce di povertà, il Brasile. In Brasile si possono vedere esempi diversi di povertà. C’è innanzitutto la tipica povertà contadina, non molto dissimile da quella africana. Ho visto questa povertà nell’entroterra di Espirito Santo, soprattutto in una frazione chiamata Tirol; che sorpresa, vedere discendenti di emigranti tirolesi vivere in case quasi uguali dalla tipica capanna africana, con l’intelaiatura in legno e i blocchi di fango! La donna, che parlava con spiccato accento tirolese, ci raccontò che da giovane non conosceva quasi la lingua portoghese, il che dà un po’ la misura dell’isolamento in cui vivevano queste piccole comunità montane. Oggi però lo sviluppo sta lentamente arrivando anche lì, sottoforma di strade sterrate e anche qualcuna asfaltata, scuole dove fare studiare i bambini, i primi timidi tentativi di avvio di un’industria turistica. Sviluppo compatibile? Più che altro sviluppo necessario, considerato che secoli di agricoltura dissennata e di improvvide attività per l’export (piantagioni di eucalipto nei pressi dei bacini idrici, e l’eucalipto è una pianta che sfinisce i terreni e apre la strada all’erosione) hanno arrecato ferite profondissime all’ecosistema.

    Nelle città si può vedere però anche un tipo diverso di povertà, la povertà a noi più familiare, quella che convive con lo sviluppo e che talvolta ne è motore. Parlo della povertà legata all’uso di droghe, alla prostituzione e quant’altro. Spesso i bambini di strada sono le prime vittime di questa povertà; sniffano la colla e poi ciondolano attorno a tavoli dei turisti sul lungomare di Bahia, soli o a piccoli gruppi, senza futuro e senza speranza, con camicie lacere che gli pendono dal corpo. 
   Questa povertà è di tutte quella che forse fa più male; ma, insisto, essa è parte integrante dello sviluppo, e dell’atomizzazione sociale che esso crea. In una società di villaggio, arretrata, povera, tradizionalista, dove la metà dei nuovi nati non supera i cinque anni di età, tutte le braccia sono indispensabili e difficilmente si lascerebbe andare un bambino alla deriva così. Nelle società sviluppate, dove la competizione (e la libertà, non dimentichiamo la libertà, a meno di non voler fare del moralismo a buon mercato) regnano sovrane, dove tutti possono in qualche maniera rendersi utili ma pochi sono davvero indispensabili, dove al contrario si può persino essere superflui, è possibile, è concesso morire di droga, aids e fame sul bordo di una strada, non per una carestia, non per una guerra, non per una malattia incurabile.
    Lì, in quel tipo di contesto (che ormai è molto simile al nostro, ma senza il nostro welfare), nessun zio, nonno, parente viene a salvarti se sei un bambino abbandonato. Lì, mi pare, sei davvero solo, e, come canta efficacemente Lou Reed, il poeta del lato oscuro della modernità, “devi saper stare dritto in piedi, altrimenti cadrai, e poi morirai”.

Self reliance, fra utopia e realtà

    Da tempo si discute se i paesi poveri, anziché ostinarsi a percorrere, su scala mondiale, le stesse tappe dei paesi più sviluppati, non farebbero meglio piuttosto a cercare vie autonome allo sviluppo, vie che passano per il soddisfacimento dei bisogni di base, o per una rivalutazione di certi tratti tipici delle culture tradizionali (l’ospitalità, il dono ecc.). Vie comunque ecosostenibili e ecocompatibili. Questo approccio ai temi dello sviluppo andava qualche tempo fa sotto il nome di self reliance, o anche “autosviluppo”, ed è stato, a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, uno dei cavalli di battaglia di tanti governi nati sulle ceneri del colonialismo (ad esempio quello della Tanzania di Julius Nyerere). .

    Ma in realtà nei paesi poveri le persone, soprattutto se giovani (e soprattutto se di sesso maschile) sembrano interessati piuttosto alle stesse cose a cui sono interessati i cittadini del primo mondo: stesso stile di vita, stessi consumi ecc.
Vista da questa prospettiva, l’idea che il Terzo mondo debba svilupparsi autonomamente, badando per prima cosa a soddisfare i proprio bisogni di base, potrebbe sembrare persino un po’ razzista. Come ci saremmo comportati noi italiani nel dopoguerra se gli americani fossero venuti a dirci che non dovevamo aspirare alla televisione, al cinema, alla coca cola, ai concerti rock, alle calze di nylon e ai blue jeans? Cosa avremmo pensato se ci avessero spiegato che comunque non tutti possono raggiungere quei risultati, perché le risorse sono limitate, l’ecosistema fragile, la pressione demografica tremenda, e che comunque l’eventualità che tutti raggiungano un tenore di vita “californiano” equivale a prospettare una catastrofe per l’umanità? 
Mi pare che qui ci sia un problema da risolvere: da un lato, in Occidente si è propensi a dare a “sviluppo sostenibile” un’interpretazione rivolta al futuro (uno sviluppo che sia sostenibile per le nuove generazioni), dall’altro, nei paesi in via di sviluppo, si è invece più inclini a porsi obiettivi immediati di lotta alla povertà, miglioramento delle condizioni di vita adesso, per le generazioni presenti, perché è adesso che si muore di malattie altrove curabilissime o del tutto eliminate come la malaria, è adesso che la gente ha fame (non solo di cibo) ecc.

   D’altro canto, proprio l’impossibilità di bruciare le tappe (non diciamo qui dello sfruttamento vero e proprio realizzato su scala internazionale, non essendo questo l’oggetto del presente articolo) rendono necessaria, nei contesti di povertà e di sottosviluppo, l’adozione di strategie che di fatto all’autosviluppo assomigliano molto, ma che io preferirei chiamare più semplicemente strategie per “tirare avanti”. Ad esempio, a Dar es Salaam, la capitale della Tanzania, ma presumo anche in molte altre città africane o asiatiche, fuori dal perimetro dei ministeri e degli alberghi, si estendono quartieri interminabili di casette (per meglio dire capanne di terra cruda) senza alcun servizio, ma con un fazzoletto di terra sul retro dove coltivare qualcosa. Così, se la metropoli diffonde attorno le sirene dello sviluppo (all’occidentale), nelle periferie sopravvive un’economia informale che ricorda molto quella tradizionale, e che a conti fatti rappresenta la principale fonte di sostentamento della maggioranza dei suoi abitanti.

   Non si pensi a qualche forma idealizzata di comunitarismo (o di comunismo). C’è mutuo scambio, certo, e probabilmente mutua assistenza, ma anche un proliferare di attività commerciali in fin dei conti “di mercato” (per quanto si faccia fatica a vedere il capitalismo dietro una bancarella che vende quattro arance e due uova sode). In ogni modo, è anche così che si sopravvive ai margini del mercato. Inventandosi lavori, modi di curare le malattie, modi di passare il tempo (nel Terzo mondo ci si diverte, magari la luce va e viene, ma ad ogni angolo di strada c’è un registratore con della musica). Insomma, non si rinuncia coscientemente all’ideologia “sviluppista”, tutti desiderano le cose di cui ritengono vi sia abbondanza nei paesi ricchi, soprattutto ora che le ideologie sono cadute e non c’è più nemmeno il marxismo come consolazione, e tutti desiderano emigrare in Europa o in America.
   Al tempo stesso, però, proprio con questo agire informale, con questo aggirarsi nei bassifondi o nei retrobottega del capitalismo o della globalizzazione le persone manifestano l’attitudine a modi di sviluppo “diversi”. Che non diventano teoria, strategia, rifiuto delle regole del gioco del mercato, resistenza. Che rappresentano più semplicemente un adattamento alle mutate condizioni sociali ed economiche, nonché forse un’ancora di salvezza che impedisce di andare alla deriva con le droghe, la colla e quant’altro.


o Povertà, Nord-Sud, ineluttabilità del capitalismo, autosviluppo possibile. 
Parte delle argomentazioni contenute qui accanto sono state esposte anche in un articolo pubblicato recentemente
sul quotidiano “L’Adige”.

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Il dubbio globale
un saggio di
Vittorio Giacopini
 
 
 
 
 

 

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