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Tunisia, il miraggio occidentale e il pugno forte del potere
La storia della giovane Hafaf in un paese dominato da un duro regime utile all'Europa
 

di RENATA PEPICELLI

  Due anni fa Hafaf è venuta con la sua famiglia a Tunisi da Le Kef, una bella e storica città dell’interno, a Nord della Tunisia. Una città che cresce verso l’alto, si è formata su una collina, sulla cui cima sorge un’imponente casbah, da poco restaurata, con lo scopo di farne un elegante complesso turistico. A destra partono le montagne di Ain Draham verdi, innevate d’inverno, con le case dai tetti spioventi. Qualcuno le vorrebbe paragonare a quelle della Svizzera. Li vi passano le vacanze, d’inverno soprattutto, le famiglie bene tunisine, come dimostrano abitazioni ed alberghi. Sotto la kasbah si snoda la città. Da qui sopra si vede chiaramente che è cresciuta a dismisura, senza nessun piano regolatore. Ma la struttura araba, il dedalo di viuzze rimane facilmente riconoscibile nella parte che sale su, fino a questo punto d’avvistamento utilizzato per secoli. Qui al tramonto si raccolgono coppiette, gruppi di amici, famigliole, qualche sporadico turista. Gli stranieri da queste parti non ci passano, hanno i loro percorsi ben tracciati dai viaggi organizzati. Irreggimentati in convenientissimi pacchetti viaggio, vanno a farsi i bagni ad Hammamet,  a Sousse, devastate dal cemento e dal turismo di investitori e vacanzieri, stranieri entrambi. Vengono poi portati nelle oasi a godersi un pizzico di esotismo costruito a bella posta per loro e al massimo a visitare qualche sito romano e cartaginese. I viaggi turistici, incrementatisi negli ultimi anni per la crisi dei Balcani, assicurano alla Tunisia il 6% del PIL. Il turismo è una risorsa fondamentale per il più piccolo paese del Maghreb, che povero di risorse naturali, addirittura importatore di petrolio da qualche anno, cerca di vendersi al miglior acquirente turista, investitore che sia. 

   “A Le kef si sta meglio che a Tunisi - ripete continuamente Mabrouka, la mamma di Hafaf, che porta ancora legato in testa un fazzoletto colorato alla maniera delle contadine delle sue parti - è più fresca, più tranquilla, meno cara, le nostre feste sono bellissime…è la mia città, vorrei vivere lì”. Hafaf fa eco ai suoi discorsi nostalgici su Le kef ma preferirebbe vivere in Europa, magari in Francia o in Italia. Raiuno si prende bene per via terrestra, non c’è bisogno della parabolica, e manda immagini di un’Italia bella e ricca. Quando ci siaemo conosciute, una delle prime cose che Hafaf mi ha chiesto è stata se anche io, come gli altri italiani, come il padrone della fabbrica dove lei allora lavorava, anche lui italiano, vivevo in una villetta a due piani, con il giardinetto e il cane. 
   Hafaf e la sua famiglia sono partite senza nessuna prospettiva particolare, l’importante era andare via, fuggire da Le kef, dove erano strozzati dalla disoccupazione, dalla fame. A Le kef  le cifre del 15% di disoccupazione e del 6 % di povertà che il governo tunisino dichiara con la compiacenza di FMI e BM, sono sicuramente fasulle. Eppure non è certo una delle città dove si vive peggio, le “zone d’ombra”, definizione che usa il regime per riferirsi alle aree ad alta disoccupazione e povertà sono molte e diffuse su tutto il paese. I moti contro il regime dello scorso febbraio, i primi così grandi dopo il 1984, l’anno delle rivolta del pane che fece vacillare il regime di Bourghiba, sono partiti dal Sud, ma si sono rapidamente estesi al resto del paese. Il regime ha avuto del filo da torcere con migliaia di giovani che dimostravano che la ricetta di quello che FMI e BM considerano il “miglior allievo” nell’area non sta funzionando, come invece vorrebbero far credere.

   A Tunisi Hafaf abita in una sperdutissima periferia, nella zona nuova e povera di Ariana, le strade non hanno illuminazione, gli animali, pecore, galline, asini e ovviamente cani, gatti, topi camminano liberi tra il cemento delle case e la terra delle strade non asfaltate e senza fogne. Quando piove tutt’attorno diventa una palude, e per uscire di casa si deve buttar via l’acqua con le bagnarole. Tutti quelli che abitano da queste parti vi sono arrivati da poco e chi aveva un minimo di capitale ha incominciato a costruire case, chi non, a prenderne in affitto. La famiglia di Hafaf è tra le più povere.Vivono in una casa che è una sorta di colata di cemento, non vi è alcuna pavimentazione né alcun tipo d’intonaco alle pareti. All’interno vi sono tre ambienti utilizzati durante tutto il giorno per usi diversi. All’esterno vi è un piccolo cortile l’unico posto dove si può trovare un po’ di pace nelle sere d’estate. In casa l’acqua c’è, ma non vi sono canali di scolo e quindi l’acqua utilizzata va raccolta in grosse bacinelle e poi gettata fuori. Dalla parte settentrionale di Ariana ci vuole più di un’ora, un’ora e mezza per arrivare in città, si deve camminare prima per un bel pezzo, poi si prende un pullman e infine la metropolitana. Ma tanto in città ci si va di rado, si lavora tutta la settimana, solo la domenica è libera e ci si riposa. Quando è estate, di domenica, si va al mare. Ed è su una spiaggia che ho conosciuto Hafaf e sua sorella. Una di quelle spiagge affollatissime di Tunisi, che ricordano molto i nostri semplici litorali degli anni '50-'60. Una spiaggia dove donne in bikini fanno il bagno accanto a donne completamente velate. Hafaf, quel giorno indossava un vecchio costume intero con sopra un pantaloncino. Sua sorella più piccola, Miriam, un castigato due pezzi. “Vedi noi tunisine siamo libere, possiamo fare quello che vogliamo, non proprio come voi, ma tra qualche anno saremo uguali”, mi facevano notare guardandosi attorno, forse intuendo una certa mia sorpresa, per una situazione che non mi aspettavo di vedere, essendo stata in altri paesi arabi, dove le donne seguono usi tradizionali.

   Hafaf e la sua famiglia le potevo incontrare solo il weekend, quando andavo da loro. Hafaf e Mabrouka, lavorano tutta la settimana, sono solo loro due a mantenere la famiglia. I due uomini non fanno niente, ora dicono che il padre ha dei disturbi, ma anche prima lavorava solo sporadicamente. Passa tutta la giornata a casa, davanti alla televisione, l’unico bene della famiglia, continuamente acceso anche se a volte la frequenza è così disturbata che è quasi impossibile capire di cosa si tratti. Il fratello passa le sue giornate in giro con gli amici, nei bar, nelle strade a ripetersi che primo o poi riusciranno ad arrivare in Italia, e da lì in Europa e se tutto va bene in Canada. Qualche lontano cugino ce l’ha fatta ad arrivare a Vancouver. Sherazade, la sorella più grande, la più bella, si occupa della casa, tra poco finalmente si sposa e ci sarà una bocca in meno da sfamare e forse il futuro marito potrà in qualche modo aiutare un po’ anche loro. Miriam, la più piccola, anche lei molto bella e cosciente di esserlo, fa le scuole superiori, ma con scarsi risultati. Ad Hafaf, invece piaceva studiare, avrebbe potuto continuare, se non avesse incominciato a lavorare. Sono anni oramai che passa da una fabbrica tessile ad un'altra, di proprietà per lo più straniera. Quando sono arrivata a Tunisi da poco faceva l’operaia in una fabbrica italiana. Di imprese italiane ce ne sono oltre 300 nel paese. Un numero, sicuramente, destinato ad aumentare. Impiantare un’impresa è molto conveniente per gli stranieri, il governo tunisino offre una serie di agevolazioni: sgravi fiscali, linee di credito agevolate, manodopera a basso costo, flessibilità dei lavoratori… Hafaf guadagnava, da operaia non specializzata qual è, circa 250000 lire al mese. Diceva di trovarsi bene, anche se il lavoro era molto duro e soprattutto ci voleva un’ora e mezza per arrivarci. Dopo un paio di mesi senza nessuna ragione in particolare è stata licenziata, ci sono voluti molti sforzi per trovare un altro lavoro e sempre per la stessa misera paga. Hafaf non ha nessuna specializzazione, nessuna formazione, per quanto a lungo potrà lavorare non se ne farà, non ci sono investimenti nella formazione, non ci sono transfert di tecnologie. Ciò che più mi sorprendeva parlando con Hafaf era che per lei era normale essere licenziata, non era la prima volta d’altronde. 

   Di sindacati, battaglie sindacali neanche a parlarne. In Tunisia esiste un solo sindacato l’UGTT, totalmente in mano al partito-stato, l’RCD, erede del partito neodesturiano PSD, che capeggiato da Bourghiba aveva portato il paese all’indipendenza nel ’56. Spazi indipendenti dal regime non esistono. In Tunisia non esiste nessuno spazio di democrazia, di confronto. La repressione, la paura del carcere, delle torture, della perdita del posto di lavoro imbavagliano la società. Il partito del presidente Ben Ali, rieletto il 24 ottobre scorso con il 99,44% dei voti, domina il paese, attraverso un capillare apparato poliziesco che riesce a controllare tutti gli aspetti della vita degli individui. Corrispondenza, posta elettronica, riunioni, grado di libertà durante le lezioni universitarie: tutto è controllato dal regime coadiuvato in quest’opera dalle cellule del partito. Si può ottenere l’autorizzazione a comprare un’antenna parabolica, che vuol dire uscire dalla cappa di silenzio, di propaganda in cui il regime costringe a vivere la popolazione, solo se si ha l’autorizzazione di un responsabile del partito che vive nella zona e che può assicurare sulla fedeltà al regime del richiedente. I giornali stranieri come Le Monde, Liberation, e diversi altri, che nel periodo delle scorse elezioni presidenziali avevano denunciato la situazione dei diritti umani in Tunisia, non sono da allora più venduti, e così per le stesse ragioni è stato oscurato il canale francese France2, captato via terra e assai visto in Tunisia. 

  Chi non è con Ben Ali “ è un nemico della Tunisia e del suo sviluppo”, quindi va ridotto al silenzio. Le carceri sono piene di oppositori politici, molti altri sono in esilio, in Francia soprattutto. È anche questa situazione di paura e imbavagliamento che spinge molti ad emigrare. I primi nemici di Ben Ali sono stati gli islamisti, tra il '90 e il '91, secondo dei dati di Amnesty International, 2000-3000 di loro sono stati gettati in prigione, e molti ancora vi marciscono. Negli ultimi anni la repressione si è rivolta ai difensori dei diritti umani, oggi considerati i veri nemici di Ben Ali. I paesi europei non intervengono per quanto ne abbiano la possibilità (una clausola degli ultimi accordi d’associazione) e siano molto ben informati di ciò che succede all’interno della Tunisia da documenti prodotti da commissioni delle Nazioni Unite, da Amnesty International, da varie ONG. Ciò che interessa all’Unione e ai finanziatori internazionali è che Ben Ali sia un partner affidabile, come fino ad ora si è dimostrato, nella creazione di una Zona di libero scambio (Zls) e nel controllo degli islamisti all’interno del paese e dei clandestini alle frontiere. Entro il 2010 nel Mediterraneo dovrà infatti completarsi la Zls tra l’Unione Europea e 13 paesi della riva sud. Un blocco economico da opporre ai due grandi poli economici quello statunitense e quello giapponese. Il libero scambio si farà sui prodotti manufatti, e i prodotti europei sono di gran lunga migliori per qualità, quantità e prezzi. L’agricoltura, invece, grande risorsa dei paesi mediterranei, è ovviamente del tutto esclusa da questi accordi. Le produzioni della Tunisia incontreranno molte difficoltà a reggere il confronto, la sua economia, già fragile, rischia di sfracellarsi. Un solo esempio di quello che comporterà l’ingresso nella Zls: un terzo delle imprese oggi presenti dovrà chiudere, perché inidonea a reggere la libera concorrenza, mentre le importazioni dall’Europa già crescono vertiginosamente.

   La prima volta che uscii con Hafaf, le chiesi di portarmi a vedere un luogo dove andavano i tunisini, un posto dove a lei piaceva andare. Quel giorno eravamo fortunate, potevamo andare dove volevamo, avevamo una macchina, era riuscita a convincere un suo amico che fa l’autista ad accompagnarci. Dopo aver scartato rapidamente l’antica e turistica medina di Tunisi che già conoscevo, e la ricca collina di Sidi Bou Said buona per l’elite e i turisti, decidemmo di andare un po’ fuori città, vicino ad un lago, dove sorgono una lunga serie di bar i cui nomi suonano tipo Miami beach. Bevuto un tè lì, siamo andati finalmente, ad un paio di minuti di macchina da lì, in  quel misterioso luogo, che “sicuramente mi sarebbe piaciuto”, dove mi voleva portare: era una città dei divertimenti, se non sbaglio in arabo si chiama, madina al-lahab, città del gioco. Era questo luogo, pieno di insegne luminose, questa piccola disney che mi si voleva far vedere. I giochi erano cari, non potevamo salirci, ma se volevamo potevamo entrare e vederle più da vicino quelle meravigliose giostre, ascoltare quella musica americana assordante, per entrare non si pagava. Quella era la nuova Tunisi, la Tunisi, che meglio rappresentava i desideri di questa gente drogata da immagini dell’Occidente, zittita e assopita dalla corsa ai consumi e che per almeno un po’ cerca di dimenticare i propri problemi.


o Con questo reportage si apre un'inchiesta sulla Tunisia e sui rapporti fra l'Europa e il Nordafrica curata da
Renata Pepicelli.

(31 agosto 2000)
 

 

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