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Roma cos'è?
Un racconto dentro la capitale e lungo il suo fiume...
 

di ROBERTO CARVELLI

   Intanto Roma com’è. Una struttura quasi perfettamente circolare con un sistema di mura a quattro corsie per senso di marcia. GRA. Grande Raccordo Anulare. Un anello che tiene macchine in perenne arrembaggio al Centro. Che Roma sarebbe quella che guarda questo carosello d’auto attorno a sé ? Roba da far girare la testa a chiunque . Come a chiunque la farebbe girare l’avanti e indietro dei treni della Stazione Termini, quasi 30 binari mozzi con un ritmo di avanti e indietro senza posa. A tutti ma non a me perché a me invece quel su e giù concilia la pace. Quello della Stazione, dico. Una pace interiore, la perdita di un Centro di dentro che si ritrova nel perenne fluire delle cose. Il modo di trovare un punto di vista stabile al cospetto di tanto vortice. Un vortice interno che riconosciuto un vortice esterno si acquieta. Ora che il progetto di riqualificazione della Stazione Termini ha raggiunto una forma quasi completa è diventato persino piacevole sedersi in cima alla balconata e mangiare con gusto un’insalata guardando dall’alto il brulichio delle sagome che s’indirizzano verso le possibilità di fuga o che arrivano disperdendosi nei mille rivoli della città. E’ un regalo e uno se lo deve fare violentando la corsa senza posa del tempo, non uno spuntino di fretta o frutto di calcolo occasionale. Il Tempo va fregato ma quando non se lo aspetta.

   Persino prendere un treno di primo mattino nel verso contrario a quello dell’arrivo a Roma - esperienza che mi ricorda un anno intero –  è provare un brivido, consumare un rapporto innaturale salendo uno tra pochi su un treno prima stracolmo di persone e ora semideserto e maleodorante.
Grande Raccordo Anulare e Stazione Termini: due termini tra cui Roma si riproduce mettendo al mondo altri milioni di romani per un giorno. Luoghi di un coito che porta la città da 2.640.454 di abitanti (ma con un potenziale di 1.161.495 vampirizzati nei comuni circostanti) qualcuno dice al doppio di sé. Questa è l’immagine di Federico Fellini: Roma come una Grande Meretrice, mammelle da succhiare (sin dall’origine una lupa e Romolo e Remo a prenderne il latte: immagine della ferinità), una grande torta in una festa piena di imbucati (è la parola con cui si qualifica a Roma chi va ai party senza invito) con coltello portato da casa e piatto di carta. Roma e attorno i suoi allupati avventori valigetta in mano (chissà quanta burocrazia e fogli da timbrare e pratiche in attesa da anni e disattese ogni giorno) il telefonino in una mano e l’uniforme per assalire gli uffici: giacca e cravatta, tagli classici, profumi da barbieri. 

   Ecco Roma com’è se ci si arriva da fuori, mani al volante o seduti in scompartimento. La differenza è solo nel luogo in cui ci si trova proiettati: sagome umane sperse nelle sagome d’auto o corpi in movimento nel pieno Centro della città. La differenza è nelle armi: chi entra con la macchina entra con un Cavallo di Troia con cui spera di forzare le mura di adesso, il GRA con tutte le vie consolari che tagliano a spicchi i quartieri, e quelle di allora, fortificazioni di laterizi rossi (ecco Roma com’era). Spera che i vigili siano distratti o abbiano dimenticato un varco nella chiusura al traffico, nella difesa della guerra delle auto al Centro. Spera di poter esibire fantomatici permessi, tessere, certificati per fendere le domande delle divise bianche che ostruiscono il transito.
Chi entra col treno o in pullman entra disarmato: forse non sferrerà attacchi o forse li ha già sferrati e vinti e ora domina le sue vittime. Oppure non combatte o anche medita altre guerre e altre arguzie più sottili.
Ecco Roma com’è se ci si arriva da fuori senza guide turistiche in mano, segno di conoscenza e quindi di buoni rapporti, quasi sempre bene accolti a parte qualche ridicola presunzione di possesso che affligge il turista con cifre più esose e cattiva alimentazione. Sarebbe più utile essere guidati da un romano malizioso? Forse per godere bisogna disprezzare, dubitare, temere inganni?

   Poi c’è il Tevere, fiume disprezzato, imputato di sporco e di altre nequizie. Troppo esposto per essere amato e quindi tradito dalle lamentele dei coniugi con occhi solo per i difetti. Tutti i romani sono coniugi lamentosi del fiume Tevere che invece è “biondo” come lo dicevano i latini e di mille altre sfumature tra il verde oliva e il giallo, il verde più scuro e il grigio in ragione di una varietà che sanno solo gli amanti di lungo corso, capaci di tenere vivi i sensi dell’amato con le maschere della passione. Ora che per esempio è domenica e piove a dirotto (è la prima grande pioggia della stagione d’autunno e segue cinque giorni di temperature di 30°, cosa rara a metà ottobre anche a Roma) sarei curioso di vedere il colore che ha preso, il suo nuovo prodigio per un nuovo stupore. E invidio le tante finestre che lo guardano dagli argini delle strade che lo fiancheggiano, i lungotevere.  E rimpiango i pochi giorni trascorsi in ospedale – per fortuna senza dolori e preoccupazioni – al Fatebenefratelli che mi affacciavo e lo vedevo dalle due parti dell’Isola Tiberina, una specie di nave di terra incagliata al centro del fiume, nel cuore di Roma con l’ospedale, una chiesa ex-tempio romano e poco altro. Se si scende lungo i fianchi di questa nave e si va a prua o a poppa le onde del fiume gridano contro la pietra e per parlarti devi gridare più forte o stai zitto per la scoperta di un fragore così insolito e tale da coprire macchine e clacson. Fragore prodotto da un elemento naturalmente così silente.
   Il resto è odore salmastro come tutti i fiumi e una corrente che ti porta via e ti piacerebbe che Roma come Venezia avesse i suoi autobus d’acqua (esperimenti tentati e boicottati dai romani). Anche questo è un posto da meditare, luogo per imparare il passare della vita, come insegnava Ricardo Reis del polimorfo Fernando Pessoa: un regalo per Roma. Non goduto, non apprezzato.

   E invece chi viene per una notte, per poche notti apprezza e ama tutti questi regali, ama le rughe della città, i sui rovinosi segni del tempo ma anche tutte le sue forme intatte, i segni di una bellezza che conosce chi  come me ama da fresco trentenne le donne cinquantenni, i loro corpi con il ricordo di mille altri amori trasformati in Classici, libri senza tempo e colmi di insegnamenti sempre nuovi e sempre quelli. Corpi fatti da giorni da prendere al volo come ci dice Orazio come tante prime (o ultime?) volte che ciechi non sappiamo vedere e chiamiamo monotonia.
 


o Questo racconto sarà pubblicato anche su Op.a.
rivista che esce in Slovenia, Croazia
e Bosnia
Erzegovina
 

I racconti
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(18 ottobre 2000)

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