copertina notizie percorsi interviste libri musica inchieste calendario novità scrivici
inchieste

Un viaggio continuo nell'assurdo della vita e dell'umanità
Il racconto di un giovane che nei campi e fuori è stato insegnante e  "padre di figli d'altri"
 


di ROBERTO CARVELLI

   Sono stato padre anch'io per mesi e figli d'altri. Gennaio è stato inizio di viaggio e maggio è arrivato presto e ha finito le scuole. Sono andato avanti e indietro per corridoi e vetrate a caccia d'aule e maestre. Sono stato padre di bambini di cognome slavo e nomi da piccolo-schermo. Rambo, Geiar, Isaura. Tutti in prima serata e a colori. Mi ha pagato il Comune per garantire istruzione a questo creato che accusa tempo e spazi come ferite. Chi dice in debito, chi in credito della nostra umanità normale-stanziale. 
    Con loro mi sono sentito zingaro anch'io, soprattutto nei momenti - tanti - dell'offesa di tutta quella giovinezza e per solidarietà con l'incolpevolezza del destino che gioca a dama con le vite. Le sposta da un piazzale all'altro a forza di permessi e di "qui non si può stare". Ho avuto anche piccoli orgogli, quando mi sono fatto specchio di maestre contente e bocche piene di denti e occhi a fessura che dicevano che quelli sì erano ragazzini educati non gli italiani (ma erano italiani anche loro), i primi a dire l'aiuto a pulire, posso darle una mano maestra, lasci faccio io.

I luoghi comuni

   Ho amministrato anch'io i luoghi comuni delle persone di cui ho tentato difese perdenti e ho capito la sofferenza di questa guerra di posizioni. Corpo a corpo con le generalizzazioni. Faccia a faccia con una perduranza delle intenzioni. 'Zingari' pronunciato con mano al portafoglio o nasi arricciati per dirne della nausea. Sono partito anch'io da qui ma ho imparato a lasciare le narici aperte per scoprire la pulizia e l'ordine della persona come si diceva un tempo, quando ci si accontentava della pelle e dei capelli, prima che fosse decisiva la firma dei pantaloni e le parole nuove: griffato, marcato, per non dire delle lingue degli altri con cui ci parliamo i vestiti, imbarazzo che sembrerebbe autarchia e non è. Non bastiamo più a noi stessi non ci basta più la nostra storia o non ci appartiene più se mai lo fu, nostra, la nostra storia. La circolazione del denaro ha abbrutito i nostri pensieri che chiamiamo moralismi quando costano pocoperché la vita oggi è così. E così vuol dire che non importa più il cuore delle persone e che prima viene il dio denaro, ma non per attaccamento, per religiosità, si dicesse che non crediamo più a niente. Crediamo, crediamo. E' solo che abbiamo scelto un dio ancora più esigente che chiede donazioni e voti che ci mandano in giro a fare confusione e traffico.
   Dei nomadi diciamo che sono figli d'altri e neghiamo la loro urgenza di sopravvivenza in frasi che mentono sulle cittadinanze italiane delle loro carte di riconoscimento.
E non gli spetta nulla se non un ghetto sempre più distante, fuori dagli occhi e dalle orecchie e fuori dal naso. Feriti dallo spazio: un campo di rete metallica. Non ce le mettiamo le mani alle coscienze, ché non serve questo, né serve metterle al portafoglio, per aiutarli. Basterebbe accettare la loro vicinanza e accettare la comunanza dei quartieri, la coabitazione e le scuole senza subito sproloquiare di categorie e di mestieri per sentito dire. 

I polsi spezzati

    Era il 1996, l'anno di Zaira, la bambina del campo della Vasca navale a cui spezzarono tutti e due i polsi. Lo fece un signore che voleva punirla per quelle questue a cartone e mani veloci che cercano le borsette delle persone anziane, o di chi è lento a capire, turisti che vengono da mondi senza scippi e che si fanno appoggiare il cartone sulla pancia mentre una mano di un bambino di quattro o cinque anni, non visto, cerca dentro il portafogli. Questo è il lavoro che tocca a certi bambini almeno fino ad una certa età poi le bambine sono donne e fanno figli, i bambini fanno i mariti e cercano di forzare le porte delle case. Da vecchi non si ruba più.

   A Zaira andò male: fratture multiple e quaranta giorni. Si discusse molto sulle prime pagine dei giornali e fu esercizio dei fondisti il dire è giusto, è sbagliato, la colpa è dei genitori, la colpa è della società. Zaira faccia nera, labbra grandi e disegnate a parentesi graffa, naso grande e rotondo già dal setto, occhi scuri dal taglio affusolato ma grossi quanto una cento lire, fu guardata e commentata sulle sue due vistose fasciature. Le parole che raccontavano quelle due protesi bianche furono se l'è meritato, le sta bene, poverina, che colpa ne ha. Lo scavo psicologico e le investigazioni del questore aiutarono a trovare discolpe per quel gesto di Zaira. Si scoprì che l'età della bambina era stata mutata all'anagrafe dai genitori che avevano cercato di prolungare quell'attività redditizia dello scippo, mantenerle l'impunità dell'infanzia. Ci furono processi e condanne. Qualcuno ripescò dalla cineteca "Il tempo dei gitani" un film dello slavo Emir Kusturica a suo tempo criticato per un racconto senza censura del difficile crescere di un bambino in una realtà come quella dei villaggi nomadi. Era un film odiato da molti ziganologi perché mostrava il lato insano del vivere ribelle, fuori dagli schemi, senza patria né legge.

Calderai in crisi

    Era il 1996 quelle erano famiglie che non conoscevo. Io mi occupavo del Campo di Testaccio. Un'area di sosta all'interno del'ex-Mattatoio, un ampio slargo di sampietrini e terra in cui campeggiavano cinquanta roulotte lunghe una decina di metri e ben accessoriate. Erano cinquanta famiglie Kalderasha tra parentele incrociate. A dispetto del nome i Rom Kalderasha sono tutti italiani parlanti, fiumani d'origine e in Italia dalla seconda guerra mondiale. Ma per la loro ascendenza balcanica i Rom e Sinti italiani li chiamano bulgari. La loro storia coincide con la storia di Fiume, città che nel 1919 fu terreno del contendere e occasione di rotture internazionali dell'allora Regno d'Italia che non accettava, stante la maggioranza italiana della città, la volontà americana di separarla, forte della più netta marca slava del contado. Da lì le imprese di D'Annunzio, marce, un governo autonomista e poi l'annessione all'Italia, non senza spargimenti di sangue, che durò fino al 1945 quando diventò la serbo-croata Rijeka non senza però nostalgie italiane e una questione sempre aperta.
    Il nome Kalderasha evoca in realtà "i mestieri". Calderai che con la crisi dell'artigianato e dei lavori in rame vuol dire andare in giro a chiedere strumenti ospedalieri da pulire, oggetti sacri da dorare, pentole di ristoranti da lustrare, coltelli da affilare. Non rubare comunque come un comandamento infrangibile per il loro essere cattolici o pentecostali, comunque convinti dal messaggio evangelico e dal pacifismo universale. Ci sono comandamenti che si possono riaggiornare e comunque c'è chi si definisce cattolico e lavora a prezzo di riscatto: ridarà la roba che ha avuto a un prezzo molto alto. Ma questo è anche un trattare e un essere feriti dal perdere, dall'aver ridato indietro paramenti sacri senza averne avuto nulla in cambio - succede anche questo. Insomma è una guerra e va combattuta con la furbizia. "Nessuno è più furbo di noi", scriveva anni fa Semso Advic in una sua poesia e continuava "o pazzo come noi... per una parola di troppo prendiamo le pistole ed uccidiamo". Ed era successo anche questo al pacifismo evangelico dei Rom Kalderasha, un anno prima che io imbucassi l'arco che dà andito al piazzale grande dell'Edificio di Mattanza. Una corte interna in disuso su cui i nomadi sostavano da novembre ad aprile convivendo con il centro sociale, dirimpettai chiassosi ma pacifici, e porta a porta con gli appartamenti occupati abusivamente e ancora non licitati dal Comune dei Napulengre (Rom napoletani) in perenne caccia alla casa come gli abruzzesi e i napoletani, tutti a portata di cavalli e stalle, il loro lavoro. Un anno prima era successo che si fosse arrivati alla pistola con un giovane figlio di un cavallaro gagiò o gagè, come vengono chiamati dai Rom i non-zingari. Una serie di provocazioni e poi lo scontro. Da allora una comunità di altrettante cinquanta-sessanta roulotte se ne andava in giro maledetta come la favola che vuole le peregrinazioni dei nomadi il frutto di un opposizione divina: un'Odissea infinita.

Come in una prateria del West

    Una domenica li andammo anche a trovare, a Monterotondo, un piccolo polo industriale a pochi chilometri da Roma. Erano di quella stessa gente, consanguinei e amici che si spostavano a suon di ingiunzioni. Quella domenica erano alle pendici di una collina sotto la pioggia a ridosso di un piccolo bosco di abeti. C'eravamo arrivati passando strade regolari attorno a capannoni industriali. Non sapevamo l'indirizzo e l'appuntamento che ci eravamo dati era un incontro fittizio come spesso accadde in quell'anno sregolato per armonia con l'imprevedibilità zingara. Girammo a vuoto cercando un campo improvvisato. Pioveva a dirotto e i grandi magazzini colorati erano disabitati. Nessuno a cui chiedere, l'unica informazione quella di un barista che ci aveva consigliato quel giro tra le fabbriche. All'improvviso gira e gira arrivammo a uno zero di strada: un circolo concentrico ad un altro, tutti e due asfaltati, all'interno del più piccolo dei quali riconoscemmo quattro roulotte. Scesi dalla vecchia fiesta verde con cui specchiavo povertà dinanzi alle splendide mercedes dei Kalderasha e che era stata soprannominata da loro "il lucertolone" e chiesi se erano loro quelli che...

    "Solo alcuni gli altri si sono sistemati da quella parte" e seguimmo nuove indicazioni che ci portarono allo splendido accampamento nel verde e tra gli alberi che facevano apparire le roulotte, una modernizzazione delle tende indiane.
    La cornice naturale - una mezza vallatina di verde intenso su cui spiccavano una linea alta di abeti a barriera - sotto cui si stagliavano i profili delle roulotte tra lingue di fumo da fuochi accesi nel mezzo e intanto una pioggia che scendeva fine e un cielo grigio, donavano al quadro il marchio d'origine della prateria americana e degli indiani. Tutto come se fosse il legittimo aggiornamento di una comunità di pellerossa. La qualcosa mi fece tornare alla mente un saggio in cui i Kalderasha - anche questo gruppo di Monterotondo apparteneva a questa comunità di solito assai tradizionale e mal disposta alle assimilazioni sia pure rom come per vantare un pedigree migliore di altri, diciamo così, cugini - venivano fatti partire nella metà anni Quaranta anche per le americhe. Tra i bambini del Campo Testaccio di mia responsabilità ce n'era uno che portava infatti sulla carta d'identità il nome di una città brasiliana. Quella Kalderasha (o Kalderas come preferiscono scrivere altri) è una famiglia all'interno del grande ceppo Rom, per la precisione dei Rom Vlakh (Valacchi) di cui oltre a loro fanno parte i Rom Harvati, i Rom Istriani, i Rom Lovara e i Sinti Sloveni. Dentro la famiglia Kalderasha a loro volta ci sono delle vica ("vitsa" è la pronuncia), cioè dei gruppi di filiazione patrilineare che Liégeois chiama "lignaggio". Così esistono Kalderasha Yonesti (discendenti di Yono), i Banesti, i Midesti, i Doresti, i Cukuresti e i Zurkaja... Sono eccezioni rarissime i matrimoni di donne Kalderasha con altri rom o gagè mentre è più comune che un uomo della comunità sposi rom abruzzesi o cilentane e anche non-rom.

Un corteo nel centro di Roma?

     Stavano lì da qualche giorno ma in settimana dovevano andare via. Elencarono una serie di spostamenti e faticammo ad immaginare roulotte così grandi e così tante in fila a girare tagliando Roma come una torta che non si può mangiare.
Ce ne interessammo un po' di quell'assurdo destino. Maledizione zingara. Certe credenze vogliono le comunità gitane siano vittime di una maledizione, una cacciata che li ha destinati a questa peregrinazione senza sosta. Anche Kusturica, regista di Sarajevo, considerato - lui nonostante - paladino di Serbia durante la guerra di ex-Yugoslavia e per questo odiato a torto da tutta la political correctness intellettuale europea - francese in testa - ha fatto pronunciare in apertura al suo "Il tempo dei gitani" ad uno dei suoi zingari questa leggenda di maledizione. Parla un gitano con un ombrello slabbrato in preda ad un sentire straniato, un povero matto, disperato, che guarda in macchina in un set, quello della prima sequenza del film, che ha una rarissima maestria corale. Dice: "Anche Dio è stato qui, sulla terra, tra la gente, e quando ha incontrato i gitani allora ha preso ed è rivolato sopra un'altra volta". Dice così il matto.

La purezza e la libertà

    Ma la tradizione per quanto frequente trova anche delle dissonanze come una vox difficilior. Per esempio Francois de Vaux de Foletier dopo aver elencato ipotesi genealogiche che vogliono i nomadi discendenti diretti di Cam o di Canaan o ancora di Abramo e Sara riporta una tradizione secondo cui all'unione di Adamo con una prima moglie antecedente Eva sia da imputarsi la nascita del primo rom, nascita senza peccato originale per cui gli zingari "sfuggiti al peccato originale, sarebbero esonerati dalla legge del lavoro, dall'obbligo di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte". Questa purezza primigenia renderebbe così plausibile il sentimento di libertà che muove le peregrinazioni nomadi, come un universo-casa allargato che non si possa rinchiudere nella stanzialità. Lo studioso francese ricorda anche come altre tradizioni siano per radici ebraiche o celtiche. Altri ancora parlano dei Mori. Una leggenda raccolta dalla studiosa americana Diane Tong e proveniente dalla tradizione 
zingara russa ma pubblicata in Scozia nel 1986 parla di uno zingaro che molto tempo fa era in viaggio con la sua famiglia. Viaggiavano su un carro pesantissimo trainato da un cavallo "magro e malfermo sulle gambe". Mano a mano che il viaggio proseguiva il carro si trovava ricolmo di ragazzetti - la famiglia dello zingaro cresceva! - che finirono per essere sballottati e seminati per la strada. "E così, vedete, accadde che gli zingari si sparpagliarono in tutto il mondo".

Dalla leggenda alla storia

    Il passsaggio dalle leggende alla storia non è poi così traumatico. Tanto lo scavo eziologico è ambiguo come buia e la notte dell'origine del mondo tanto è comune asserire che i rom vengano dal Nord-ovest dell'India o comunque dall'India. La loro storia sarebbe così una freccia che passa per l'Iran, l'Armenia, il sud del Caucaso. Da questi passaggi deriverebbero un numero notevole d'imprestiti. Voci medievali li vorrebbero in Grecia, disprezzati, schiavizzati e scacciati. Athinganoi, intoccabili, (da cui l'italiano "zingaro", il francese "tsigane", il tedesco "zigeuner") li avrebbero chiamati i greci trattandoli alla stregua di paria, della classe dei chandala. Il 1400 è presumibilmente il secolo dell'arrivo in Italia. ne sono testimonianza alcune cronache ed editti di scacciata. Qualcuno li fa originari dell'Egitto da cui avrebbero assunto l'inglese gypsy e sempre all'Inghilterra del 1542 - luogo di edizione Londra - risalirebbe il primo frasario di scambio in dialetto romanès o rom
àni: il "Primo libro d'introduzione alla conoscenza". Vi si rinvengono parole e modi d'interpellare che sono validi a tutt'oggi.


o

Roberto Carvelli, giornalista romano, tra i fondatori di Nonluoghi, descrive in questo racconto la sua percezione del mondo zingaro, frutto della frequentazione 
di alcuni campi come insegnante per bambini rom.

(13 aprile 2000)
Vai al sommario
del dossier
Zingari 
aprile 2000

 

copertina
le notizie
 i percorsi
interviste
i libri
la musica
inchieste
calendario
le novità