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Raccontare allunga la vita...
Parla il sociologo Paolo Jedlowski, autore di "Storie comuni"
 

di GINO DATO

  Raccontare salva la vita. Farci avvolgere dalle impreviste e sinuose volute della narrazione quotidiana, le chiacchiere in casa, al letto, al bar, in ufficio, tra amici, tra partner, con i figli, i colleghi di lavoro, distende e affina antiche capacità dell’uomo: non solo quella di articolare il linguaggio, di rendere conto di ciò che esiste, ma soprattutto di accrescere, reinventare la realtà e noi stessi con forme nuove, trame sconosciute, schiudendo dei mondi alla fantasia.
Perché quel che ci manca, talvolta, è "una casa di parole in cui abitare insieme", potremmo dire con la protagonista di Mezzanotte d’amore. In questo suo romanzo, Michel Tournier racconta di una coppia in crisi. A salvarla è la decisione di invitare a una cena tutti gli amici di un tempo. "Nell’intreccio di frasi e di racconti si genera una casa di parole che raddoppia la casa fisica di mattoni e stanze, aprendo spazi in cui transitare, conoscere, comunicare", commenta il sociologo Paolo Jedlowski. "D’altra parte il racconto, se è testimonianza, raddoppia la vita e la conserva. In effetti, nel racconto comprendo meglio la vita stessa, perché, a posteriori, le attribuisco una trama. La trama è la prestazione specifica del racconto, la capacità di porre dei nessi tra gli eventi".
Professore di Sociologia presso l’Università della Calabria, Paolo Jedlowski ha pubblicato con Bruno Mondadori il volume "Storie comuni", analisi accurata delle funzioni che nella vita ha la narrazione, non quella artistica, codificata nella letteratura e nelle arti, bensì quella praticata da tutti noi.

D. Una forma di comunicazione così trascurata nell’età dei massmedia. Oggi che non c’è più il cortile e il focolare, è cambiata la narrazione quotidiana rispetto al passato?

R. Sono partito dalla constatazione che oggi si racconta meno di una volta. In realtà, provando a guardare nel tessuto sociale e nella mia stessa esperienza, ho scoperto che, al di là delle osservazioni comuni, non si può fare a meno di raccontare. Tutti i giorni, in ogni momento, con moltissime persone, noi raccontiamo, ripetiamo eventi, a volte entrando anche nello spazio della fantasia. 

D. E s’è chiesto a cosa serve…

R. Sì, e ho scoperto che il racconto svolge moltissime funzioni. Tanto per cominciare, crea un legame, una relazione tra narratore e destinatario, poi ci porta a condividere la conoscenza di certe vicende, e le emozioni conseguenti. Narrare vuol dire anche sentire in comune. E potremmo ancora parlare di altre funzioni: da quella di ammaestramento, offrirci una morale, a quella cognitiva, aiutarci a conoscere delle realtà, a quella ludica, farci scoprire la dimensione del divertimento.

D. A chi raccontiamo?

R. A persone diverse. Non le stesse cose che diciamo a un amico, porgiamo a un collega. Non quelle che bisbigliamo alla persona amata, confidiamo a un altro. La narrazione appare come una forma di comunicazione che si situa entro relazioni concrete, subisce l’influenza delle stesse e, nello stesso tempo, dà loro forma.

D. La caratteristica principale?

R. In genere quelli di oggi sono racconti più veloci, possiamo narrarci fatti ed eventi senza guardarci faccia a faccia, per telefono, per lettera, per e-mail, si sono ampliati i mezzi. 

D. Ma questa narrazione diretta è fagocitata dalle forme di comunicazione massmediale e, soprattutto, dalle forme letterarie e artistiche di narrazione?

R. In realtà sembra di no. Noi disponiamo di un’enorme quantità di racconti cui possiamo accedere al cinema, aprendo un libro, la tv. I media appaiono tanto potenti e capillari da poter soddisfare la nostra fame di storie. In questo senso, allora, certo fagociterebbero il racconto quotidiano. A guardar bene, invece, si scopre che non è così. Perché quello che vediamo in tv può capitare di commentarlo ad altre persone, il romanzo diventa argomento di altre narrazioni. In realtà, i messaggi dei media entrano nel tessuto sociale, nella conversazione.

D. L’agorà, la piazza telematica, favorisce il tamtam interpersonale?

R. Non so se lo favorisce, di certo vi interagisce e non lo distrugge

D. Ma chi sono oggi i maggior cantastorie del quotidiano?

R. Probabilmente le donne, che raccontano un po’ più degli uomini. D’altra parte, non dimentichiamo che i ragazzi tra loro si raccontano molto, forse in maniera più frammentaria. L’adolescenza e la gioventù sono momenti in cui ci si vuol rendere conto di quello che accade intorno a noi. Raccontano di sicuro le persone anziane, ma non sempre trovano chi li ascolti.

D. E quali sono i luoghi deputati per il racconto?

R. Tanti, nonostante la nostra vita frenetica. La tavola, quando si pranza insieme, il letto, quando si va a dormire. Il pettegolezzo fiorisce nel treno come nei salotti, in una passeggiata tra casa e scuola, casa e ufficio. E poi non dimentichiamo i luoghi della modernità: in automobile, in treno tra persone sconosciute. Ogni luogo permette certe narrazioni e non altre.

D. E gli argomenti?

R. Se pensiamo al raccontare quotidiano, non dobbiamo immaginare argomenti aulici o difficili. Il figlio, al quale, tornato da scuola, chiediamo come è andata, apre un mondo di notizie, sensazioni, conoscenze. Gli argomenti dipendono dalla relazione in gioco e della cerchia sociale in cui ci si trova. Si possono raccontare gli aneddoti, il successo e l’insuccesso, fra amici una storia amorosa, fra ragazzi qualche avventura. Si può scivolare verso la dimensione del controllo sociale - ma pensa cosa ha fatto quel tale! - o verso l’esaltazione - sai che è proprio bravo!

D. Nel racconto quotidiano lei apre spiragli di luce su un’età in cui si è troppo parlato di incomunicabilità, o di comunicazione informale.

R. Il discorso pubblico spesso si concentra sulle cose più vistose. Però il tessuto sociale è fatto per lo più di fatti, situazioni, eventi che si trasformano più lentamente e che non sono così eclatanti, visibili. Credo che faccia bene ripensare ogni tanto a queste dimensioni quotidiane, apparentemente banali, ma in realtà ricche, della nostra esistenza.


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