ile interviste

Marco Paolini: "Non condivido l'Italia d'oggi ma non mi chiamo fuori..."
L'attore veneto racconta la sua libertà: "Il teatro non è un edificio, ma un territorio"
 

di BARBARA GOIO

   Che differenza c’è tra narrare e fare teatro?
 

   «Il narrare fa parte di tutti i linguaggi, appartiene all’oralità semplice, alla trasmissione della sapienza. Il teatro è un’altra cosa, prevede un’azione fisica, del corpo, della voce, in un luogo. Quello che provo a fare - in un tempo dominato dal linguaggio visivo - è portare la narrazione nel teatro, dove riacquista una sua sacralità e permette di farsi ascoltare, dove ritrova una sua immanenza. Il nostro è il tempo dell’informazione scheggia, dell’istantaneità, per cui delle cose raggiungiamo solo la superficie e perdiamo la storia. La possibilità del teatro come lo faccio io è la possibilità di raccontare, e raccontare è come costruire un "arco", di mettere insieme i rapporti di causa ed effetto fra le cose, ridando un disegno a quelle cose di cui, prese nella loro istantaneità, non ci chiediamo più il perché: uso quelle maledette schegge di realtà come le pietre dell’arco. "Qual è il fine della poesia?" si chiede Zanzotto. E risponde: "Restaurare il vuoto che c’ è nel mondo". Io ho fatto mia questa microscopica utopia».

   - Come riesci a proporre, nei tuoi spettacoli, intellettuali così sofisticati come Andrea Zanzotto?

   «Non ero affatto sicuro di saperlo fare. Zanzotto è uno che non si fa afferrare. Io gli chiedo ogni tanto: "Ma questo cosa vuol dire?" E lui mi risponde: Ma cossa te importa, SCOLTA!" Capire è una presunzione. Aver voglia di capire è invece completamente diverso. È come la musica di Schönberg che stavo ascoltando proprio adesso. Non è facile, ma devo passare attraverso Peter Gabriel per capire Schönberg. Non penso che ci siano delle cose riservate ad un numero ristretto di iniziati. Per esempio, ci sono delle canzoni inglesi, di cui non capisco il significato, che mi piacciono moltissimo. E le ascolto.. Mi accompagnano alla confidenza delle voci. E questa confidenza deriva dalla somma di prove ripetute nel tempo, di fiducia. La poesia è la somma ripetuta di confidenze».

   - Come accogli la sorta di devozione con cui ti accolgono gli spettatori a teatro?

    «Sono stupito, ma accade. Non me ne frega niente del marketing. L’attore deve essere un ponte. Il rapporto di fiducia nasce dal rispetto reciproco. Io mi metto in gioco in prima persona, non conduco la partita, non mi metto a fare l’ipnotizzatore, non gioco mai con i poteri. Si potrebbe parlare di sincerità, ma nel teatro, il luogo della finzione per eccellenza, questo è un paradosso. Meglio parlare di onestà. E l’onesta è dare regole chiare, pulite.» 

- Anche in questo tipo di società?

  «Io non voglio fare confusione nei ruoli: ecco perché, per esempio, non faccio pubblicità. Come non dovrebbe farla un uomo politico.»

- Hai iniziato a lavorare nei teatri di base. Cosa ricordi di quegli anni?

   «Il teatro non è un edificio, ma un territorio. Non è un condominio a cui bussare per chiedere un lavoro, uno scheletro rigido, ma un luogo da esplorare. Mi dà claustrofobia pensare al teatro come ad un luogo fisico, con i copioni, le stagioni, i programmi. Quando decido di iniziare una cosa nuova, mi voglio sentire libero, non vincolato nelle mie fonti d’ispirazione.»

   - In uno spettacolo (Aprile 74 e 5) parli di un periodo storico, quello degli anni Settanta, cui ora, tra "cattivi maestri" e nascita delle ideologie si fa spesso riferimento. Cosa ne pensi?

   - «In quel periodo, per fortuna-sfiga, ero un adolescente. È quel periodo della vita in cui fai la prima volta le cose che fai da adulto, ed è entusiasmante. Chiunque, nella sua giovinezza, ha il dovere-diritto di fare ciò in cui crede. Non ho nulla di cui pentirmi, ma è stata la prima volta che avevo un’idea precisa di me e della vita, di potermi mettere in gioco. Vent’anni è l’età in cui si crede di poter morire per un’idea, per una buona idea: io non ho mai rischiato di diventare un terrorista, però negli anni Settanta circolava moltissima aria, aria di pensieri, aria di voglia di fare, non solo aria di piombo. L’anno scorso Claudio Magris ha pubblicato un libro bellissimo, "Utopia e disincanto", ed è proprio nella poesia che si riesce a trovare la sintesi perfetta tra utopia e disincanto. D’altra parte è stato Tolstoj a scrivere che chi non è un anarchico a vent’anni diventerà un imbecille nella vita... E io non voglio assolutamente diventare un cinico.»

   - A questo proposito, cosa ti dà fastidio, ora?

   «Non sopporto gli ex, quelli che si mettono in pensione perchè pensano di aver già fatto la loro parte. È come se il presente fosse già determinato dal pedigree che hai... Gli ex mi danno un fastidio viscerale, anche perché adoro la vecchiaia, ma detesto con tutte le mie forze la vecchiezza. Che vuol dire la difesa ad oltranza dei diritti acquisiti, l’immobiltà, la paura delle pelli di altro colore. Non c’è energia. Per questo apprezzo chi investe nel sociale, chi fa volontariato, chi si mette in gioco, anche fisicamente. Chi si mette in mezzo e dice, no questo non lo faccio passare, i cittadini orgogliosi che combattono quotidianamente. La democrazia non è sempre entusiasmante e noi siamo dei romantici, ma non voglio starmene quieto ad applaudire il miliardario ridens che comanda tutti a forza di telecomando. Ecco, ho orrore del quieto vivere dominato dalla televisione.»

- Perchè hai scelto di raccontare la tragedia del Vajont?

   «Io non ho scelto, non è che ho deciso ecco adesso faccio il Vajont e poi magari mi occupo di Zanzotto, e così via. Io faccio delle imprese, piccole. Ho letto il libro di Tina Merlin e ho sentito che raccontare quella tragedia era ciò che dolevo fare.»

  - Parlando di Vajont, dici che quando hai letto il libro della Merlin ti sei vergognato di non sapere, parlando di Bestiario Veneto, lo consideri una scusa per rimediare alla tua ignoranza. Di cosa ti vergogni ora?

   «La vergogna, è vero, è una costante. Nel perseguire lo scopo di Zanzotto, per esempio, mi vergogno della poca potenza dei miei mezzi. E poi adesso ho due vergogne: di vivere in un Paese di cui non condivido la direzione, e per cui non ho nessuna voglia di chiamarmi fuori (la frase finale del film di Salvatores "dedicato a tutti quelli che vogliono partire" non mi è mai piaciuta). E poi di non riuscire più a fare quello che voglio fare, perchè gli impegni si assommano, e non riesco più a fare, bene, le cose a cui tengo. Per questo, da primavera, prenderò un anno sabbatico.» 

   - E del tuo Veneto, cosa dici? Una terra di democristiani e volontariato, di fabbriche e poeti, di Pietro Maso e Zanzotto?

«Non è eccitante tutto questo? È una terra che, al di là delle apparenze, è ricchissima di pulsioni generose.»

   - Cosa ti piace di Moby Dick?

   «Il Breviario. Il fatto che ogni giorno si ricomincia da capo. È questo il senso della vita. Tornare a casa perchè ci si è dimenticati le chiavi non è un fastidio, ma fa parte dell’esistenza. Perchè è tutto sempre un ricominciare, la polvere che cade dove è stato pulito... Che m’importa dei panni mangiapolvere? È naturale che tutto ritorni all’inizio. Anche pulire la casa è un ’azione fisica, che va fatta con passione. Il lavoro sporco è una cosa straordinaria. E poi in Moby Dick c’è l’acqua. E io adoro l’acqua, impreco di piacere... e divento inascoltabile».
 
 


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Bellunese di nascita e trevigiano di adozione, classe 1956, Paolini è tra le più originali figure di attore, autore, regista della scena italiana.
Dopo le esperienze di teatro politico degli anni Settanta (fondando nel 1976 il Teatro degli Stracci) nel 1981 partecipa all’esperienza dell’ISTA (International School of Theatre Antropology) a Volterra, diretta da Eugenio Barba, dove tra gli altri conosce Gabriele Vacis. Paolini fa quindi parte del Tag Teatro di Venezia (1984-86) e un paio d’anni dopo partecipa all’esperienza di Teatro Settimo diretto da Gabriele Vacis. Si fa conoscere con lo spettacolo «Libera nos a malo», tratto dal romanzo di Meneghello, recita in La storia di Romeo e Giulietta e nella Trilogia della villeggiatura. Dal 1990 fa parte della cooperativa Moby Dick con cui collabora al progetto Teatri della Riviera. Ha partecipato al film Caro Diario di Nanni Moretti e a Il Toro di Carlo Mazzacurati. 
«Adriatico», ispirato a "Le Petit Nicolas" di Goscinny, «Tiri in porta» , «Liberi Tutti» e «Aprile ’74 e 5» sono quattro spettacoli scritti tra l’87 ed il ’95 che intrecciano memoria privata e avvenimenti collettivi permettendo una visione dell’Italia che spazia dalla vita alla colonia «Le navi» di Cattolica alle tensioni politiche in vista del referendum sul divorzio, dalla spensierata e critica vita di parrocchia alle prime prese di coscienza adolescienziali aggrappate tra l’america e la voglia di giustizia sociale. 
Nel 1990 Paolini elabora «Il racconto del Vajont», un lunghissimo monologo che racconta la distruzione di Longarone, il 9 ottobre 1963. «Su in valle, - narra Paolini - sopra la diga, un silenzio feroce: l’ultima bava di ragno che teneva unita la frana al resto della montagna si rompe. Per un momento la frana resta ancora lì, sul piano inclinato, ma non c’è più niente che la tien taccà al resto della montagna. E poi va. Cos’è che la fa andare? Un colpo di tosse? Una ciacola? Un ticchettio? Un motor? 260 metri cubi di roccia, coste di montagna alte 300 metri, con le case sopra, i boschi, con i corsi d’acqua, con lo stagno, con le stalle, coi campi coltivà, coi pascoli, le vallate e le colline. Un mondo intero! Compatto, non sbriciolato a sassi. Un mondo intero con gli alberi ancora dritti, passa tutto insieme da 60 centimetri a 100 chilometri all’ora in meno di un minuto…».
Lo spettacolo teatrale viene trasmesso anche in televisione, e il grande pubblico abbandona per una sera fiction e ballerini e si sintonizza in massa per fare una cosa che non faceva da tempo: ascoltare. Per Paolini è il successo. E «Il racconto del Vajont» riceve il Premio Speciale Ubu 1995, il Premio Idi, e il premio come miglior spettacolo televisivo della
stagione ’97.
La ricerca dell’artista prosegue quindi con «Appunti foresti» (1996), spezzoni di storie veneziane filtrate dall’occhio curioso dell’uomo di terraferma, «Il milione» (1997), un monologo che attraversa tutta la storia di Venezia in un panorama surreale di acqua e terra, per approdare infine ai Bestiari («Non è che ami le bestie più degli uomini, ma di quelle puoi scrivere senza che ti leggano, parlare senza che ti ascoltino, a volte è un bel vantaggio»): Bestiaro veneto in riviera, Bestiario veneto parole mate, Bestiario veneto l’orto (1998), tre spettacoli tra poesia e teatro dedicati a Zanzotto, Meneghello e Marin in cui Paolini spiega: «Bestiario Veneto è un gioco di spostamenti tra prose e poesie, una mappa geografica, un catalogo di creature grandi come il bò o minuscole come il milepiè di Pascutto, a volte selvatiche come la lipàra o la sioramandola, a volte domestiche come LaiKa». 
Infine, nel 1999 scrive «Bestiario italiano» - presentato la settimana scorsa a Rovereto ed in questi giorni in scena a Bolzano - «un esercizio di immaginazione, ballata tra un vuoto d’aria ed un pieno di parole, uno sguardo disincantato alle cose di ogni giorno per riuscire a leggerle». Si dedica quindi a «Stazioni di transito», raccolta di accenni di storie, mentre sta provando in questi giorni un nuovospettacolo che uscirà a brevissima scadenza. Parallelamente verrà pubblicato «Anno passato», un quaderno del Bestiario Veneto che si affiancherà al libro «Parole Mate» per raccontare tutto quello che fa parte dello spettacolo ma poi, per necessità teatrale, non può apparirvi. Sempre di Paolini sono disponibili un cd del «Milione» e la videocassetta di «Vajont», un vero successo editoriale.
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