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DOPO GENOVA, RIFLESSIONI SUL MOVIMENTO
Il dibattito su contenuti e prassi noglobal: alcune lettere ricevute da Nonluoghi
by FreeFind
Pubblichiamo alcune lettere che abbiamo ricevuto dopo la pubblicazione del nostro editoriale "Attenti ai fanfaroni noglobal".

Gli interventi:
Edi Rabini
Gary Brackett
Giorgio Boratto
Giovanni Giacopuzzi
Vincenzo Andraous

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Edi Rabini

L'ambiguo gioco con la violenza
Dove non c'è convivenza, l'ecologia è un lusso

Ora si incomincia a riconoscere che le parole hanno un peso, che tutto ha (sempre) inizio da un cattivo uso delle parole, che possono essere imbracciate come manganelli o per creare relazioni e dialogo. Le parole usate da alcuni dirigenti del Genova Global Forum, dal rappresentante delle tute bianche Casarini in primo luogo, hanno convocato anche un gruppo numeroso di giovani conseguenti, che sono stati accolti e difesi prima come interni al movimento e scaricati poi troppo rapidamente come se fossero state schegge impazzite. Invece non sono giovani peggiori di quelli che hanno manifestato con le mani alzate. Solo più coerenti, radicali, determinati a non farsi inglobare da strutture organizzative che ritengono troppo moderate e inadeguate. Ci sono stati anche alcuni esponenti Verdi, e me ne sento particolarmente responsabile, tra gli apprendisti stregoni che hanno acceso pericolosi fuochi, come fanno certi pastori sardi a beneficio del loro gregge o certi disoccupati che vogliono farsi passare come i più abili dei pompieri. Eppure il copione era stato già scritto e recitato a Seattle quando iniziò l'ambiguo gioco della violenza, o della minaccia di violenza, come spettacolo mediatico. Distruggere l'impero del male, è stato detto parodiando i cartoni animati giapponesi. Fermare l'Anticristo, aggiungevano alcuni settori del mondo cattolico dimenticando i massacri compiuti sventolando quella bandiera. Eccolo lì riunito a Genova quell'impero assoluto del male. Se al posto di Busch e di Berlusconi ci fossero stati i Clinton e i Rutelli il giudizio non sarebbe cambiato, come testimonia il precedente di Nizza che riuniva con Prodi i capi di stato europei. 

Le parole come pietre

Anche se è stato senza dubbio per merito di quell'annuncio di violenza che si è creata una così grande attenzione da parte di un sistema informativo sempre a caccia di emozioni forti, che sono arrivati a Genova così tanti giovani, fino ad esserne influenzato realmente l'ordine del giorno dei capi di stato e di governo del G8, il prezzo pagato è stato altissimo: con quel povero giovane morto, le centinaia di feriti e arrestati, una lacerazione drammatica tra società civile e istituzioni, la messa in ombra di tutte le proposte positive che pure c'erano.
Il governo di centro-destra ha risposto rispolverando un'idea di stato ottocentesca, incapace di confrontarsi con la complessità di un movimento in gran parte disponibile al dialogo. Ha mostrato i muscoli in modo coerente alla promessa d'ordine esibita durante la campagna elettorale. Forse per questo i capi e i singoli membri delle forze dell'ordine si sono sentiti sollevati dalla loro personale e irrinunciabile responsabilità nell'obbligo di rispettare per primi le leggi e dimostrare così una  superiorità morale nei confronti di chi le stava così apertamente violando. Di questo si parlerà a lungo mentre la magistratura prova ad accertare una difficile verità. Spero però che la violenza sproporzionata della repressione non diventi per noi un comodo alibi per rinunciare ad un profonda autocritica senza la quale quel movimento rischia di sciogliersi come neve al sole e anche qualche fuga terroristica. 

Non basta la nonviolenza

Ora quasi tutti parlano di non violenza, di prendere le distanze dalla violenza. Credo che si debba andare oltre a quest'affermazione di principio. E' necessario riconoscere senza ambiguità che spetta alle istituzioni democratiche, nazionali e internazionali, il monopolio dell'uso (legittimo e proporzionato) della forza, chiudendo una volta per sempre con i gruppi e le bande private che hanno insanguinato gli anni tremendi della guerra fredda (ma c'è a sinistra ancora chi ne ha nostalgia), quando si era affermata una diplomazia internazionale che si proibiva ogni ingerenza negli affari interni dei singoli paesi, anche se dittatoriali, salvo tollerare il finanziamento e l'addestramento di guerriglie di ogni genere e rendere difficile poi, come succede nei territori palestinesi e in Israele,  le pur presenti volontà di pace. 
Ma rinunciare all'organizzazione privata della violenza non vuol dire sottovalutare quanto di rischioso c'è in questa delega. Quanto sia necessario un impegno costante di controllo tra i vari poteri, in nessuno dei quali può mantenersi una sorta di extraterritorialità delle regole di legalità, trasparenza e democrazia.

La domanda di autorità

Non possiamo dimenticare che proprio dall'assedio di Sarajevo, le stragi di Tuzla e Srebrenica, il genocidio in Rwanda, le crisi in Somalia, Kosovo e Timor Est, le istituzioni internazionali, con l'Unione Europea in prima fila, hanno deciso di lasciare alle spalle un mondo governato dall'equilibrio del terrore e hanno avviato la costruzione di nuove regole, ancora imperfette, per la prevenzione e la repressione dei conflitti: sostegno attivo alla società civile e all'informazione indipendente, ingerenza umanitaria, esercito europeo con funzioni di polizia internazionale, corpi civili di pace, tribunale penale permanente, controllo del commercio delle armi. Anche i vertici del G8 hanno dovuto mettere sempre più spesso questi temi nella loro agenda sempre più fitta e megalomane. 
Proprio dai luoghi di crisi più acuta è insomma emersa una richiesta forte di autorità, giustizia, libertà, legalità, resa desiderabile da alcuni dei simboli della globalizzazione, come internet e la tv satellitare, che non abbandonasse minoranze inermi in balia di poteri autoritari, coloniali e dittatoriali, non ancora sconfitti. "Voi sudtirolesi - mi ha detto un giorno un amico napoletano - vi lamentate di un eccesso di presenza della mano pubblica, ma non sapete cosa vuol dire vivere come da noi senza regole e senza stato di diritto". Se oggi si possono riprendere i grandi temi dello squilibrio tra paesi ricchi e poveri, dello sperpero energetico, del governo lungimirante di economia e ambiente, affrontati all'assemblea di Rio nel 1992, è perché sono stati avviati a soluzione, o almeno sono stati circoscritti, alcuni laceranti conflitti che hanno insanguinato l'ultimo decennio. Dove non c'è convivenza, l'ecologia e la giustizia sociale sembra proprio un lusso.

Dov'è di casa la radicalità

Noi in Sudtirolo lo sappiamo, perché siamo stati cavie più o meno volontarie. Il superamento degli stati nazionali comporta la cessioni di pezzi di sovranità ad istituzioni sovranazionali e all'Unione Europea in primo luogo, ma anche il trasferimento di poteri sostanziali ad ambiti territoriali minori, riconosciuti come propri dai cittadini. Costruire qui da noi un potere sovrano, ma solidale e aperto al grande mondo, è la premessa per ogni progetto di rifondazione di una politica, oggi considerata da molti giovani astratta o addirittura nemica, se consentirà partecipazione, slanci ideali, utopie concrete. Non è questo in fondo la sfida che ci lanciano i molti che sono scesi a Genova o hanno con loro così convintamente simpatizzato?
Qui in Alto Adige vivono centinaia di persone, che per le loro esperienze dirette e le relazioni internazionali che hanno saputo costruire, ci consentono di rendere attuali e a noi vicini i grandi temi che determinano davvero il nostro futuro. Basti pensare alle numerose associazioni di cooperazione, al dipartimento minoranze etniche e autonomie regionali dell'Accademia Europea, al IV Corpo d'Armata alpino che è stato protagonista di diverse missioni umanitarie, ai progetti di cooperazione e di interazione curate dalla nostra provincia e dalla stessa chiesa locale. E' nato nella nostra provincia il ramo italiano del commercio equo solidale, il movimento per un risparmio e un consumo critico, un'idea di cooperazione basato sui gemellaggi, le adozioni a distanza, gli scambi concreti tra comunità, il rispetto di chi viene da lontano a cercare lavoro e nuove ragioni di vita.
Sono tutte azioni modeste, che devono essere considerate senza orgoglio come delle gocce nel mare del dolore e della povertà che colpisce ancora la gran parte delle ragioni del mondo. Eppure proprio nella loro consapevole modestia si esprime una radicalità concreta alla quale può solo nuocere ogni forma di esibizione di potenza o di astrazione estremista, perché parte dalla convinzione che questo mondo complesso non lo cambiano da soli noi "donatori nordici", motivati dal senso di colpa o dalle buone intenzioni, ma prima di tutto i miliardi di persone che in ogni paese cercano come noi faticosamente il modo migliore per costruire, attraverso regole e istituzioni che devono farsi autorevoli, un futuro degno di vita.
"Gli stati nazionali, i governi, i partiti e i sindacati - ha detto sul G8 l'ex presidente Giuliano Amato - contano sempre meno. Il potere è diffuso. Le gerarchie del passato sono saltate. Le responsabilità di tutti ne esce rafforzata". 

Edi Rabini  (per rivista FF - 9-8-2001)
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Gary Brackett

Dure lezioni da Genova e una proposta alle Tute bianche

C'è stata un'eloquente scena venerdì 20 luglio (Il Giorno dell'Azione) a piazza Dante, a Genova, al confine della Zona Rossa (una zona chiusa da uno sbarramento di sicurezza per il G8). Questa piazza, sebbene designata come non-violenta, è stata nondimeno testimone dell'uso di idranti e gas lacrimogeno contro manifestanti pacifici. Qui le azioni di protesta andavano da quelle creative di canzoni, musica e lancio di palloni a quelle meno pacifiche di battere sulle barriere di acciaio, lanciare bottiglie d'acqua e insultare la polizia. A un certo punto gli organizzatori, sentendo che la tensione stava crescendo troppo, ritennero fosse il momento giusto per presentare lo spettacolo del Living Theatre "Resist Now". Appena lo spettacolo cominciò, occhi e orecchie si focalizzarono sulla performance e ci fu un silenzio attento e profondo. Il contrasto con il rumore, la confusione e il potenziale di violenza immediatamente precedenti era singolarmente drammatico per i manifestanti e forse anche per la polizia. (Da vari punti della città giungeva notizia di scontri, cassonetti bruciati e cariche della polizia.)

Sfortunatamente un errore nell'organizzazione interruppe questo cambio di atmosfera quando un gruppo di comunisti vecchio stile, gli Socialist Worker's Party, arrivò improvvisamente scandendo slogan, battendo ritmicamente e gridando, con il generale clima di ostilità verso la polizia che ne seguì. (Lo spettacolo del Living continuò, sebbene la pienezza e la potenzialità del nuovo stato fisico e mentale che solo il teatro può dare fossero state compromesse.) Così, dove lo spettacolo del Living avrebbe potuto aprire a nuove forme di partecipazione e comunicazione fra i manifestanti ( e magari i poliziotti), seguì invece, come in molte altre piazze di Genova quel giorno, l'attacco delle forze dell'ordine con idranti, gas lacrimogeno e qualche manganello. Stavamo per assistere agli adesso famosi scontri, al sangue, ancora una volta alla morte, che tutt'ora continuano a monopolizzare la discussione del movimento anti-globalizzazione; cioè il tema della violenza, sia essa lo stato organizzato o le autonome tattiche di guerriglia del "colpisci e fuggi" (il cosiddetto Black Bloc), o infine le azioni "difensive" delle Tute Bianche.

Adesso le importanti questioni dell'antiG8, la cancellazione del debito, l'ambiente, la capitalizzazione globale, lo sviluppo del terzo mondo ecc. sbiadiscono fra la pubblicità, le distorsioni e le esagerazioni dei media (di destra e di sinistra), fra le dichiarazioni ufficiali, le inchieste e le indagini del governo, e fra la tristezza, la rabbia e il desiderio di voler riparare i torti fra i manifestanti e alcune persone della polizia.

Abbiamo cominciato con il quadro dei contrastanti, stili e strategie di protesta per far luce sulla questione di base di quanto è accaduto a Genova: in che modo gli obiettivi e i desideri del 90% dei manifestanti - lavoratori, vecchi e nuovi hippies, femministe, punk, cattolici, comunisti, pacifisti-, tutti professanti l'azione non-violenta, hanno potuto essere fermati, deviate e monopolizzati dall'azione del rimanente 10% di "anarchici" violenti, elementi di centri sociali, infiltrati della polizia, nazi-fascisti e hooligans, in questo confronto con le forze di polizia del governo Berlusconi, ben organizzate, ben armate e con una chiara strategia? Prima del summit, si è discusso moltissimo sulla paura, sulla violenza e su come evitarle. Dopo, possiamo parlare dell'inevitabilità da parte delle forze dell'ordine dell'uso eccessivo di violenza. (Dopotutto, le tecniche della violenza costituiscono il loro training. Perché ci meravigliamo tanto quando fanno così bene ciò per cui sono addestrati?) Né è nostra intenzione a addossare le responsabilità al movimento anti-G8, o semplicemente biasimare il governo. Queste lezioni devono essere utili per il lavoro e le strategie futuri e dobbiamo guardare in modo spassionato a quanto è venuto fuori da Seattle a Praga, a Gothenburg, a Nizza, a Napoli e adesso Genova.

E’ chiaro che il movimento anti-globalizzazione ha spesso tentato di volgere a proprio vantaggio eventi orchestrati da un'organizzazione di potere. E' come un party privato ed esclusivo rovinato da "indesiderabili". Dopo Seattle "gli organizzatori di party" non volevano la ripetizione di questi eventi, così l'arsenale, il talento e la capacità degli 8 hanno potuto ( e potranno) reprimere ogni tentativo di disturbo. Così sono state preparate, per esempio a Genova, diverse strategie difensive: zona rossa, manipolazione e rottura di accordi, mistificazione e trattenimento delle informazione. Sono stati utilizzati tutti i modi possibili per rendere la protesta inefficace. Come abbiamo visto a Genova ( e come diciamo nel football americano) la miglior difesa è l'attacco. Così è stato che le forze dell'ordine hanno spesso attaccato per prime i manifestanti, giocando sull'anticipo, come nella rottura dell'imponente marcia dei 200.000. Il fatto che la polizia usi una forza eccessiva, come alla scuola Diaz, è una reazione punitiva e un'estensione logica di ciò che la polizia fa meglio. Specialmente se alcuni tra i manifestanti distruggono la proprietà e rimangono violentemente ribelli e provocatori. Il clima generale di odio e di disprezzo verso la polizia di larga parte (la maggioranza?) dei manifestanti, insieme con la mancanza di ordine e obbedienza assoluti, facevano sì che venissero fuori i tratti più sadici da parte di individui della polizia. Noi crediamo che quando si stabilisce un contesto di scontri di strada la polizia vede tutti i manifestanti come fossero uno solo, cosicché diventa difficile o strategicamente non necessario separare i Black Bloc dagli anarchici grigi, dalle Tute Bianche (che non erano in bianco come d'abitudine), dai pacifisti. E quando da entrambe le parti vengono usati maschere, caschi, fazzoletti sul viso, scudi, imbottiture di difesa- creando così un senso di generale anonimità- il comportamento disumanizzato e spersonalizzato di tutti si capisce ancora meglio.

Dopo aver guardato la situazione di un governo che vede a tutti i costi la necessità di neutralizzare i disordini e che ha a disposizione una larga forza di polizia addestrata, obbediente e preparata alla battaglia, volgiamoci alla strategia del Genova Social Forum (GSF) come rappresentativa del più largo blocco di dimostranti e delle Tute Bianche, che potrebbero essere descritte come l'avanguardia del movimento attivo giovanile. ( Ci sono naturalmente altri altrettanto importanti, come i pacifisti della rete di Lilliput, i più militanti COBAS, e un vastissimo contingente di comunisti.) In verità sembra che il GSF abbia fatto ogni sforzo per presentare un gruppo di protesta unito, producendo forse così un tono, una strategia e delle tattiche piuttosto militanti, che farebbero appello a elementi del movimento più militanti. Presentando una grande forza che comprendesse gruppi diversi in opposizione al G8, si realizzava la strategia di varie piazze a tema, ciascuna con il proprio livello di militanza. Ciò rendeva molto più facile alla polizia identificare, separare e neutralizzare i gruppi più violenti il Giorno dell'Azione. Tale strategia venne replicata nella grande marcia del giorno seguente quando la polizia separò agevolmente le diverse tendenze presenti nel corteo. 

Le Tute bianche, come pure il GSF e altri fuori da questo blocco avevano il proposito di attaccare la Zona Rossa, per esercitare il proprio diritto a una città libera. In una lettera precedente (vedi appendice) abbiamo esposto i possibili problemi e limiti di questa e di altre tattiche di interrompere il G8. Bisogna dire che sembra più del 90% delle organizzazioni pacifiste abbiamo chiuso un occhio perfino sul contingente apertamente violento - il cosiddetto Black Bloc - che aveva espresso questa tattica. Non c'era da aspettarsi che altre forze oscure di provocatori della polizia, fascisti, hooligans e altri ai margini della società avrebbero colto l'opportunità di esprimere la propria rabbia e il proprio malcontento verso la società? così è stato deludente che le Tute Bianche abbiano deciso di non essere identificati dalla loro "uniforme" bianca. Dobbiamo dire che il loro discorso sulla "protezione difensiva" non è chiaro, è vago e non nel vero spirito della resistenza non-violenta, e che l'uso di caschi, scudi, volti coperti, maschere antigas - sembrano gli specchi del poliziotto/soldato - sembrava essere l'attesa (l'invito) alla violenza, e che quest'aspetto veniva assunto come stile da parte dei più violenti tra i manifestanti - e tutto ciò rendeva minima l'efficacia delle Tute Bianche. (Vedi oltre altri suggerimenti e strategie che speriamo le Tute Bianche vorranno considerare).

Mettiamo insieme una presenza di protesta parzialmente unificata, specialmente sulla questione di violenza e non- violenza, (la strategia di dividere i vari gruppi in campi d’azione separati, la presenza conosciuta di cosiddetti "anarchici" pro-violenza, la strategia dichiarata di entrare nella zona rossa da parte di alcuni, un largo contingente di comunisti "rossi" e di altri non del tutto pacifisti, i quali non escludono di ricorrere all’insurrezione violenta per prendere il potere, la possibilità conosciuta della presenza di hooligan, nichilisti e di portatori di violenza gratuita)- e il leader, egualmente militante, dell’attuale governo italiano: credo che sia merito del GSF e della gran parte dei manifestanti che amano la pace, che i feriti e i morti non siano stati di più. Sebbene il movimento anti-globalizzazione sia già d’accordo sulla maggior parte degli obiettivi, sembra che la questione saliente sia la strategia da adottare per neutralizzare la violenza all’interno del movimento e quali ambiti, quali campi d’azione scegliere.

Non è nelle intenzioni di questo scritto sviluppare una strategia di un movimento anti-globalizzazione, anche se è possibile accennare ad alcune tendenze e idee di base che possono essere utili. E’ prioritario il bisogno di una forza unita che vada oltre ogni connotazione religiosa, politica, tattica, filosofica, razziale ed etnica. E ciò che può essere alla base di questa unità è solo l’impegno a una resistenza non-violenta. 

Nel calore e nella passione dell’ultima domenica del G8 di Genova, dopo il brutale raid della polizia alla scuola Diaz, perfino dai più convinti giovani pacifisti si levava un giustificato grido di rabbia e di appello ad un azione di rivalsa. Quale azione? per capire che genere di azione, per scoprire davvero il principio della non-violenza, dobbiamo capire l’infallibilità di quest’idea: affrontare l’odio (violenza) con l’odio (violenza) può solo portar fuori un odio (violenza) ancora maggiore. Naturalmente dobbiamo e condanniamo con forza le azioni di brutalità e gli eccessi della polizia. Possiamo perfino provare odio e rabbia verso queste azioni. Ma trovare una soluzione ad azioni violente condannando e odiando il singolo poliziotto non è una soluzione. Non puoi aiutare con l’odio. Come disse Gandhi: "Non è non-violenza amare solo chi ci ama. E’non-violenza solo quando amiamo quelli che ci odiano". 

Chi siamo noi per giudicare un altro essere umano che non conosciamo, i milioni e i miliardi di cause che hanno condotto il destino di una persona che deve decidere per se stesso, per esempio, di essere un poliziotto? se la misura di giudizio della vita di una persona dev’essere il grado di servizio all’umanità, allora servire coloro i quali siamo contro, alle cui azioni ci opponiamo risolutamente, dovrebbe essere il nostro primo imperativo. Così l’odio non avrebbe parte in questo servizio.

Noi crediamo non ci sia nessun problema nel mondo che non possa essere risolto con un attiva resistenza non-violenta. Dalla Palestina all’Africa, all’ambiente, allo sviluppo del terzo mondo. Semplicemente è la "forza dell’anima" (satya graha) degli individui del passato e del presente che ha creato il mondo nel quale viviamo oggi. Non la forza del denaro e delle banche, della guerra e del potere, dello sfruttamento e della violenza, ma piuttosto la semplice cooperazione pacifica e immaginazione, innate nella nostra specie, costruiscono ospedali e case, inventano medicine, adattano la tecnologia, creano metodi nuovi di organizzazione e sopravvivenza. Come un lavoratore può, anche a costo di morire (il sacrificio estremo), rifiutarsi di obbedire, di lavorare, fino a quando le sue richieste non vengano accolte, così un popolo o una minoranza risolutamente preparati a soffrire le conseguenze di non-sottomissione possono mettere in ginocchio qualunque governo, polizia o economia, per quanto potenti possano essere: il nostro potere di produttori e di consumatori di rifiutare e di resistere è invincibile. Finché il momento della violenza si incontra con altra violenza, tutta la solidarietà con coloro che sostengono e amano la pace (per esempio i cittadini di Genova) viene compromessa, e la possibilità di vincere i cuori dei nostri oppositori (nemici?) è perduta. 

Riferendoci a noi, se a Genova ci fosse stata una forza veramente unita di attivisti di satya graha preparati a fare l’estremo sacrificio come pacifisti; se decine di miliardi di artisti, infermieri, lavoratori, poeti, attivisti, madri avessero creato una zona pacifica di rispetto, amore e non violenza, in mezzo alle forze potenzialmente violente; se queste intenzioni fossero state rese note al governo, alla polizia, ai manifestanti e ai media, allora la storia avrebbe potuto prendere una direzione più positiva. 

Nello stesso spirito sfidiamo le Tute Bianche a mettere da parte le loro bandane, gli scudi, i caschi e le protezioni per diventare una reale forza di verità di resistenza non-violenta, a frapporsi tra le parti in lotta nell’interesse di entrambe, a mettere in gioco per la pace i loro corpi senza difesa, e a lasciar cadere i sentimenti di odio e di vendetta contro la polizia. Così, potrebbero ispirare un movimento di giovani, e l’intensità e l’impegno che abbiamo visto nei guerrieri di strada a Genova potrebbero essere trasformati in una forza che, usando l’immaginazione, creerebbe nuove forme di protesta. Ecco il modello di un nuovo attivismo: un’alternativa alla spesa governativa di bilioni di dollari per bombe, soldati, carri armati, per risolvere i conflitti interni, sarebbe che gli attivisti della pace andassero nei punti caldi per insegnare, guarire, rappresentare, parlare, condividere.

Noi del movimento anti-globalizzazione e GSF, dobbiamo determinare noi stessi i nostri campi d’azione e non aspettare un altro summit in cui potremmo correre il rischio di trovarci in un altra situazione di assedio. Noi dobbiamo prendere l’iniziativa, organizzare il nostro summit globale, sviluppare le nostre forme e le nostre tattiche, rendere chiaro che cerchiamo ogni alternativa alla violenza, rendere semplicemente ovvio che la violenza non avrà alcun ruolo in tali eventi. Magari forse fra un anno potremo ritrovarci a Genova il 20 di luglio per un summit di pace a ricordo della prima vittima del popolo di Seattle, sottolineando il desiderio che egli sia l’ultimo sacrificio alla violenza, ma forse non l’ultimo sacrificio per la pace. Il sentiero verso un mondo più giusto ed egualitario non si può creare con la separazione insita nel paradigma "noi e loro". La questione è: vogliamo creare nemici negli inevitabili confronti con i nostri oppositori, o vogliamo in modi pacifici e con l’immaginazione, vincere i cuori e le menti delle masse in cui le forze dell’ordine reclutano i loro soldati? Una strada può portare alla guerra civile, l’altra a nuove possibilità.
 

Non c'è una sola scelta! (8 luglio, 2001)

"Solamente un’alternativa più efficace della violenza può compiere quello che la rivoluzione significa veramente." Julian Beck

Qual'è la forza dietro quest'alternativa?

Da Seattle a Praga a Gothenburg il problema della violenza ha spesso quasi completamente dominato tutta discussione dei meriti del movimento contro la globalizzazione. Dagli scontri per strada, in quest'epoca di sound-bytes ed immagini, i protestanti sembrano di giocare la parte degli emittenti, dei redattori e degli ufficiali che trovano facile deflettere l'attenzione del pubblico dagli argomenti più significativi. Ed a Genova, la più grande parte del dibattito sembra concentrata, quasi esclusivamente, sugli imminenti conflitti tra i diversi gruppi di antagonisti.

Quindi la più importante questione per il movimento contro la globalizzazione sarebbe come entrare nelle strade di Genova senza di perdere di nuovo la nostra voce tra le nube di gas lacrimogeno oppure, come a Gothenburg, rischiare anche il sangue e possibilmente la morte. Quali sono le strategie, dunque, che ci possono servire meglio? Quali sono che possono rispondere all'urgenza e alla sincerità dei giovani ed degli altri giustamenti oltreggiati e desiderando esprimere il loro impegno di protesta.

Il Genova Social Forum, le Tutte Bianche ed anche altri hanno dichiarato pubblicamente una strategia che punta sull'entrata nella Zona Rossa. Molte sono le voci che esigono l'interruzione totale della riunione dei G8. Però, malgrado tutta l'enfasi che si mette sulla nonviolenza, data la natura esplosiva della situazione - la divisione in due grandi campi oppositori di manifestanti, molti dei quali sono convinti della necessità di azione dura, e le forze dell'ordine della polizia, l'esercito ed il governo di Berlusconi - il tutto suggerisce una certa inevitabilità di scontri violenti che daneggiano il movimento.

Così si evita di chiedere, quale strategia può garantire una protesta completamente pacifica per avanzare nel modo migliore i desideri, le idee ed i sogni del movimento? Come evitare la violenza?

Una soluzione proviene da una voce del passato, incarnata nel corpo fragile e spesso isolato di Mahatma Gandhi. Come lui propose, se ci indirizziamo alla psicologia, i bisogni e le paure dei nostri oppositori (mai "nemici" - Gandhi mantenne sempre un rispetto reciproco nelle sue lotte), potremmo arrivare ad una strategia che funziona.

Da Berlusconi in poi, quelli dei G8 credono veramente che stanno percorrendo la strada giusta, e sono anche convinti della necessità di garantire che la riunione dei G8 vada avanti e che il (suo) governo mantiene il (suo) ordine.

Per quanto riguarda la polizia ed i soldati, loro vogliono sopratutto seguire gli ordini (è quello il loro lavoro), non dimostrare la paura o la disubbedienza verso i loro colleghi/compagni, e neppure verso i manifestanti. Crediamo che preferiscono evitare gli scontri, se non vengono provocati.

Lontano dalla Zona Rossa e dagli attivisti militanti, la paura di noi pacifisti sarà marginalizzata. Ci verrà tolto il diritto di esprimere il nostro scontento con un sistema che causa sofferenza e distruzione, ed verrà rafforzata invece la paura, anche di restare passivo e senz'effetto.

Se questa sia una valutazione valida dei giocatori e della situazione, per ridurre tutte le paure e per realizzare i desideri di tutti i partecipanti, la soluzione logica è di evitare ad ogni costo la violenza. Sembra che il Genova Social Forum, le Tutte Bianche e gli altri hanno bisogno di una strategia più potente ed efficace che è entrare nella Zona Rossa. E devono mitigare le tendenze violente dei manifestanti in generale, anche se vuol dire interpolare i nostri corpi fra la polizia e la violenza che può venir fuori dal movimento. Quale forza può sostenere una tale strategia?

Dietro la filosofia della nonviolenza gandhiana è il principio di auto-sacrificio. Siccome noi dell'Occidente (il Primo Mondo) sono quelli che godono i frutti del sistema dei G8 - abbiamo i telefonini, i computer, il petrolio, ecc., siamo ricchi anche se scegliamo la povertà, perchè sfruttiamo sempre delle risorse ed i prodotti creati alla spesa del Terzo Mondo. Qundi lo strumento più potente che abbiamo a disposizione è il nostro potere di non partecipare nel sistema. Gandhi disse, "... un corpo che non riceve il nutrimento di cui ha bisogno muore... dal momento in cui non sosteniamo il governo (capitalismo) muore da cause naturali." Quindi, per esempio, se noi decidiamo che dalle ore 19 alle ore 22 non useremo nè elettricità, nè benzina, nè televisione, nè telefono - di non comprare o consumare - le scosse di un tale gesto incredibile risuonerebbero da Madison Avenue a Wall Street e a Palestina. Si suoterebbe il sistema e si sentirebbe la nostra voce! Ci vuole però quell'auto-sacrificio...

Per tornare a Genova, in questo stesso spirito di auto-sacrificio e rifiuto di integrarsi al sistema, si può indicare una strategia efficace:

1. Formare una Zona di Pace, un sit-in a 24 ore al giorno lungo il confine della Zona Rossa - un buffer tra le forze che minacciano la violenza.

2. Si invita i partecipanti del sit-in di fare un digiuno di tre giorni, per sacrificare il nostro nutrimento per entrare in un'altra "zona mentale" di resistenza, riflessione e meditazione sia sulla nostra propria violenza, sia su quella degli altri, e del sistema. Che modo migliore per dimostrare solidarietà nel confronto con un sistema di distribuzione di cibo che causa ogni 3.25 secondi la morte di qualcuno per fame?

3. Un'Università delle strade al limite della Zona Rossa, e nei parchi, le strade e le piazze, per aprire il dialogo, per i teach-in, per usufruire del meglio che il movimento ci può offrire - la poesia, la musica, la danza, il teatro, ecc. - per impegnarci (ed anche i mass-media) nell'atmosfera festiva di uno scambio di idee. (Ci sono già in programma vari incontri di questo genere.)

Questo è un programma che può funzionare. Certo se risulta che ci impediscano ad eseguirlo, essere arrestati pacificamente ed imprigionati potrebbe essere di più impatto di uno scontro per strada. Il nostro messaggio centrale è sempre che il movimento contro la globalizzazione è ispirato dall'immaginazione e che la resistenza nonviolenta è una forza potente (amore) capace di ispirare la gente e darle la speranza che cambiare pacificamente è possibile. L'altra alternativa, quella della violenza e degli scontri, non può dimostrare questo. Dobbiamo domandarci - quali sound-bytes, quali immagini nei mass-media, aiuteranno a noi ed al movimento?

                                                      Gary Brackett
(The Living Theater)
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Giorgio Boratto

Chi crede nell'uomo e nella libertà continua
a combattere contro questo liberismo.

A vedere come va il mondo sembra che il liberalismo abbia vinto. A distanza di 225 anni dalla pubblicazione di " Le ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni" di Adam Smith e il fallimento delle teorie comuniste, pare che il mondo sia governato da quelle idee. L'ideologia liberale attribuisce il merito del successo, come il demerito dell'insuccesso, alle virtù e ai vizi individuali che poi si ripropongono nella società con le diseguaglianze sociali. Nello stato liberale lo svantaggio sociale viene così attribuito alla carenza di mobilitazione morale e degenerazione della volontà. 
E' sempre e davvero così? C'è in questo una parte di verità poiché le doti umane si affinano o degenerano anche a seconda delle tradizioni famigliari e dell'ambiente sociale, fortemente condizionanti; ma io ho i miei dubbi: le doti morali che accompagnano i potenti e il successo non esistono, esistono soldi che chiamano soldi. Le " difference of talents", che richiama sempre A. Smith, sono sì la definizione di una identità ma nel rapporto con il mercato non rappresentano solo un valore, sempre tradotto in soldoni, ma la filosofia del più furbo che non vuol dire intelligente. 
Tutto questo è causa di guerre, odio, poiché le doti morali vantate, sono l'imbellettamento del "lupo famelico" che per "grazia" o "elezione" diventa dispensatore di ricchezze e beni materiali. Questa ideologia persiste e avanza come "legge naturale"... Ma lo è?

Chi crede nell'uomo e nella libertà continua a combattere contro questo liberismo.

                                                                       Giorgio Boratto
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Giovanni Giacopuzzi

Ma piano con le scomuniche!
 

Sono tra quelli che pensava e che pensa che a Genova è stato giusto andarci. Per difendere il diritto a manifestare quando l'idea di blindare una città lo negava. Per affermare, anche a Genova, che esiste un movimento, questo si democratico, dove diverse opzioni percorsi pratiche delineano un altro mondo possibile. Perché Genova è stato un momento di un' attività quotidiana costante di trasformazione sociale e culturale rispetto ai modelli dominanti (e imposti in diversi modi). Per avere la possibilità d'incontrare diverse esperienze, per scambiare opinioni, per consolidare rapporti, per sentire parlare vedere altre persone che hanno deciso di vivere la vita per se e per gli altri. Per riaffrmare, quindi, una costruzione sociale che vuole articolarsi nel rapporto diretto tra le persone e non solo con gli strumenti ( che spesso, vedi televisione, sono unidirezionali e presentano il mondo di chi si arroga il ruolo di padroni del mondo). Prima e dopo Genova questo movimento variegato continua a lavorare.

 La nostra pratica è rivolta ai bambini di strada in Nicaragua, il progetto Los Quinchos, ma non solo. I gruppi che in Italia fanno parte di questo movimento abbiamo anche consapevolezza che se non si articola una lotta qui nel nostro ricco Nord per cambiare la cultura e soprattutto il modello di sviluppo la "solidarietà" rischia di diventare soltanto elemosina. Per questo sia in Nicaragua che in Italia, nelle città dove operano i comitati, si cerca di aprire vertenze con le amministrazioni comunali affinché svolgano il ruolo di rappresentanti del bene pubblico; affinché si contrasti la logica della privatizazione dei servizi; affinché favoriscano la partecipazione e non la sussidiarietà. In Nicaragua i ragazzi e ragazze del progetto hanno già dato dimostrazione del loro impegno a favore di chi non ha avuto, come loro una possibilità di vivere, per lo meno in modo dignitoso, l'infanzia. Quindi, i più grandi lavorano come educatori di strada, sono intervenuti a Posoltega dopo l'uragano Mitch per aiutare i sopravvisuti della frana del Vulcano Casita contribuendo alla realizzazione del Centro sociale per bambini/e che il movimento Los Quinchos ha realizzato. 

Come mille altri percorsi noi continuiamo. Ascoltando le altre esperienze, facendone tesoro, contribuendo con la nostra alla crescita dei diversi percorsi possibili. Certo, è importante trovare una strategia comune che sia sintesi ma che allo stesso tempo salvaguardi la ricchezza di questo per fortuna, grande laboratorio. Se questa strategia sarà scientifica spero solo che non  sia come in passato dove scentifico era il modo per escludere chi, pur praticando un'alternativa al modello capitalista, veniva tacciato di piccolo borghese o amenità del genere (molti di questi guru poi sono andati armi e bagagli a sguazzare nelle sale dei bottoni dell'odiato sistema capitalista). Per questo piano con le scomuniche, presenti sia nel vostro editoriale che in contributi come quello di Mao Valpiana.
Gli attacchi contro il GSF e, per esempio, le tute bianche mi puzzano molto di cose già viste e sentite. Con che diritto ci si arroga il ruolo di garanti del luminoso cammino della giustizia? Se questo è un movimento cosi variegato ci manca solo che adesso venga qualcuno a criminalizzare scelte condivise da centiania di migliaia di persone? 
Per essere chiari Agnoletto è stato nominato portavoce del Genova Social Forum da 700 organizzazioni Casarin è portavoce delle Tute bianche. Tutto qui. Le tute bianche hanno dato il loro contributo come lo da Azione Non violenta come lo danno i cattolici i comunisti gli anarchici o semplicemente quelle migliaia di persone che senza una sigla ideologica  vogliono costruire un'altro mondo possibile. Certo questo non è un movimento come quello del 1968 o del 1977. Ci mancherebbe. Intanto non ha leader carismatici che ordinano e la massa obbedisce come spesso avveniva in qui tempi (o no?). Questi attacchi verso espressioni di questo movimento mi sembrano pericolosi, quando, basta guardare la strategia delle bombe, il tentativo sia del governo che di gran parte dell'opposizione (?) è quello di criminalizzare e addomesticare il movimento.
Del resto in un paese dove destra e sinistra istituzionale hanno lasciato impuniti i mandanti delle innumerevoli stragi di stato, non ce da stupirsi che trovino unità sull'ennesima bomba, che ha come unico obiettivo attaccare il movimento per un'altro mondo possibile. 

                                                              Giovanni Giacopuzzi (Bolzano)

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Vincenzo Andraous
Uscita di emergenza

Mi sono chiesto tante volte cos’è la libertà, questa condizione di grazia che rincorriamo e quasi mai raggiungiamo. Mi sono chiesto se esistono davvero uomini liberi.
Osservo l’intorno, le strade dove i ragazzi stazionano perché non sanno cosa fare: per molti il tempo è una comoda convenzione, una tabella di marcia da espletare ed ogni sur-plus di tempo è da riempire in qualche modo, e la strada diventa il prosieguo per dare un contenuto al proprio essere. Per non parlare degli altri ragazzi, quelli che ancora non sono uomini, e che non si riconoscono nei più grandi, per i quali in strada c’è la scoperta del contesto di forza, dove il legame cresce e si rafforza nella trasgressione e….. autoghettizzazione. 
Osservo ancora più in là, e vedo gli adulti tutti in corsa, tutti presi e affannati dalle mete da afferrare, dai rimpianti che premono alle porte, dai rimorsi che sono zittiti dal benessere da agguantare a tutti i costi.
E osservando ancora a questi giorni, alle masse in piazza, ai giovani ed ai meno giovani in cammino, agli slogans e agli ordini impartiti, alle grida di gioia, alle urla di dolore, ai morti ed ai feriti, ai giusti ed agli ingiusti, mi chiedo dove sta la libertà  degli uomini liberi, liberi di governare e di decidere per tutti. 
Degli uomini liberi di non condividere né accettare deleghe in bianco, dove sta la libertà di dissentire, di sottrarsi dall’effetto di mille politiche confutate o che potranno esserlo in futuro.
Dalla mia cella, dalla mia testa ignorante, osservo senza il peso di una bandiera, da reietto, da colpevole e detenuto, osservo e rifletto sulle libertà che non hanno colore nè facili entusiasmi, le libertà che sono di tutti, e conoscono la paura, e non mi rimane resto nelle tasche, solo somme da pagare.
Libertà di manifestare, libertà di protestare, libertà di non accettare, libertà di parola, libertà di prenderle e di darle, libertà di morire in nome dei più alti ideali, eppure in loro nome sono state commesse le nefandezze più inenarrabili.
Questa non è la trama di un film già visto altre volte, come qualcuno si ostina a raccontare.
E’ un film nuovo di zecca, dell’era digitale, e sebbene nulla del passato potrà mai ritornare, qui non c’è la possibilità di gridare: “ehi regista fammi uscire dalla trama del film, mi sono stancato. voglio ritornarmene a casa”.
Con la mente ripercorro uno sceneggiato di tanti anni addietro, dove utopie e romanticismi sociali, sconvolsero drammaticamente il paese, finchè si perse il conto dei morti e dei feriti.
Quella fu una degenerazione sociale fisiologica al sistema di allora, il 68 reclamava il giusto cambiamento, ma pochi uomini condussero alla eliminazione non solo di tante persone, ma addirittura di una intera generazione.
Oggi lo scenario investe una libertà  che non è quella invocata ieri, perché  coinvolge confini, terre, mondi, uomini e politiche; non ci sono più  quegli slogans né quei compartimenti stagni.
Non ci si ammazza più per concetti quali: colpire al cuore dello stato, o per fronteggiare gli strumenti di annichilimento statuali.
In questo presente ciò che più colpisce è il canto di gioia che si innalza nelle marce, nei raduni, parole come “solidarietà, amore, giustizia, debito dei paesi più poveri, ambiente, organismi geneticamente modificati”. 
Parole che non sono slogans, né bollettini o comunicati di alcuna nuova e scellerata brigata, né frutto di qualche eredità inconsapevole. 
Parole e stili di vita che di per sé, sono, o dovrebbero essere, diga insormontabile per qualunque ritorno al passato, che non posseggono propri colori e brevetti, ma sono comportamenti alti di tutti e per tutti, per te, per me, fino al Papa.
Genova ha comunque insegnato qualcosa a ognuno di noi.  Le botte fanno male, ma passano, mentre i segni che non si vedono lasciano tracce indelebili. So per certo che alla violenza non è possibile guarire con altra violenza.
Tanti uomini grandi per autorevolezza hanno ribadito di non cadere nella trappola della violenza, di non riesumare pagine di un libro ingiallito dal tempo. 
Io so per esperienza che non è un’arma a fare di un uomo un rivoluzionario, so che una pistola fa di un uomo un futuro assassino, e quando questo accade, non ci sono giustificazioni né attenuanti: c’è il baratro, da cui risalire è assai difficile.
Non faccio parte di alcun movimento per la pace, ma comprendo che essa rappresenta il mondo umano senza bisogno di tessere o bandiere, è una canzone che ha note di evidenza reale che appartengono a tutti, potenti e non.
Non è con il bastone, con le bottiglie incendiarie, o peggio con il fucile, che  le richieste di giustizia, di solidarietà, di democrazia possono transitare da una istanza politica a una scelta morale, ma con la fede della ragione, della mia, della tua, dell’altro: questo può avvicinare a un’idea di imparzialità e giustizia.

                                                                               Vincenzo Andraous
(Carcere di Pavia e Tutor Casa del Giovane di Pavia)
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Paolo Barnard: l'errore strategico del Genova Social Forum
 

      Pubblichiamo l'intervento diffuso dal giornalista di Report Raitre Paolo Barnard poco dopo la notizia della morte di Carlo Giuliani a Genova. 

 

      Come giornalista ho lavorato per anni ai temi cari al popolo di Seattle e devo dire che c'è stato un disastroso errore, storico e politico, nello 
      slogan "Voi G8, noi sei miliardi", e in tutta l'impostazione data alla 
      protesta dal Genoa Social Forum. I veri nemici dei poveri del mondo non stavano arroccati all'interno della zona rossa di Genova, ma all'esterno, per un'estensione pari a quella di Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Canada, Giappone e Stati Uniti, e non sono otto politici potenti, ma 660 milioni di persone che pretendono uno standard di vita e risorse materiali che non permetteranno mai ai miliardi di poveri di riscattarsi.
      L'idea di sfondare la zona rossa come tana dei "responsabili" delle ingiustizie globali è stata perciò demagogica, e soprattutto ha creato una tensione micidiale da cui sono scaturiti i tragici fatti di venerdì scorso, su cui sicuramente gravano le responsabilità fascistoidi delle forze dell'ordine, ma anche quelle dei leader italiani del popolo di Seattle, Vittorio Agnoletto e Luca Casarini in testa. Potevano e dovevano rettificare quella inutile demagogia. Non l'hanno fatto e per questo il Gsf ha fatto naufragare un movimento meraviglioso e meravigliosamente ben avviato offrendogli come mezzo d'espressione lo strumento perdente e sepolto dalla storia del grande corteo antagonista alla '77. Oggi, dopo la manifestazione di Genova, cosa avremo in mano? L'attenzione dei media  per alcuni giorni? Qualche cittadino indignato che si mobiliterà? Un po' di agitazione in parlamento? E sono questi i risultati con cui ottenere un consenso fra quei 660 milioni di benestanti occidentali, che, lo ripeto, sono la vera chiave per dar speranza al Sud del mondo?
      Ma vi chiedo: quante manifestazioni abbiamo fatto negli scorsi 30 anni e quanti dibattiti si sono accesi all'indomani degli scontri di piazza? Quanta indignazione abbiamo suscitato? E infine cosa abbiamo ottenuto con quei metodi? Il Terzo Mondo è ancora più affamato, le multinazionali sono ancora più libere, la polizia è sempre orrendamente repressiva. E noi siamo sempre poche migliaia senza quell'ampio consenso popolare che ci occorre per fermare l'agonia dei popoli.
      Sì, perché se il Gsf avesse rinunciato a un po' di emozione e di protagonismo in favore di un poco di pazienza e di umiltà, avrebbe abbandonato l'insignificante zona rossa a se stessa e si sarebbe rivolto ai veri nemici della
povertà globale, e cioé a noi cittadini benestanti, casa per casa, ipermercato per ipermercato, discoteca per discoteca, scuola per scuola, in tutta Italia per spiegare e convincere che il neoliberismo ci danneggia tutti, dal Mali al Canada, CHE NON CI CONVIENE.
      Questo lavoro paziente era ed è la prima strada per ottenere quel consenso che è l'unica cosa, oggi, che ancora sposta le montagne.

      A Genova noi abbiamo perduto un'occasione, il giovane ucciso ha perduto tutto. Chi continuerà a perdere saranno i poveri del mondo.

     Paolo Barnard
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"Attenti ai fanfaroni del G8"

Nonluoghi aborrisce il clima socialmente insidioso nel quale pare essere precipitata l'Italia, sotto la spinta dei gravissimi episodi di Genova. L'ombra del delirio che è calata sull'intera gestione del controvertice ha favorito l'azione liberticida, violenta e anticostituzionale del governo neoliberista e tendenzialmente autoritario, capitanato dal leader carismatico Berlusconi, e delle forze dell'ordine. 

Riteniamo che siano state colpevolmente dettate da una gestione emotiva e irrazionale delle manifestazioni anti-G8 (dalla decisione di andare comunque a Genova al lungo dialogo surreale con il governo sui modi di questa calata) le scelte e le azioni di quanti (Agnoletto nel caso del Gsf, Casarini nel caso delle insipientemente bellicose tute bianche), senza una vera investitura democratica, si sono impadroniti delle molteplici, ancora vagamente definite e spesso contraddittorie istanze degli antiglobalisti di cui con strumentale rapidità anche qualche forza politica - come Rifondazione - sembra volersi accaparrare il copyright e la rappresentanza.

In tal modo si ostacola la difficile ricerca di una coerente azione di proposta alternativa credibile e praticabile. Una proposta da elaborare in un percorso di vasta condivisione sociale, oltre i facili slogan, per tenere sempre presente la complessità maligna del quadro degli ordinamenti esistenti e dei ricatti istituzionalizzati che tendono a limitare il cambiamento "umanizzante" a livello mondiale e a rendere confusi non solo i contorni di una meta ideale cui tendere ma gli stessi primi metri del cammino.

Nell'assenza di un discorso critico chiaro e comprensibile all'opinione pubblica, un discorso comprendente concrete linee di politica economica e sociale per la riduzione della sofferenza umana qui e ora, si è favorito invece il clamore del dibattito sugli scontri e sulle colpe degli attori in campo, con tanto di eroi e di fanfaroni di piazza. 

Nella convinzione che il terreno più fertile per l'istituzionalizzazione di un clima totalitario su base tecnocratica è venuto maturando con aumentata
intensità negli ultimi vent'anni e pare essere decisamente alimentato dal fenomeno della progressiva deregolamentazione, privatizzazione e
finanziarizzazione della sfera economica, la redazione di Nonluoghi, non dimentica delle lezioni della storia, invita a indagare il legame esistente tra
l'evoluzione del sistema capitalistico e i fenomeni ciclici di abbruttimento sociale ed istituzionale che esso comporta. 
Un contesto del genere, peraltro attivamente favorito dalla deriva liberista delle
stesse rappresentanze socialdemocratiche dei principali paesi avanzati, deve ed avrebbe già da tempo dovuto preoccupare tutti. 
Per questo invitiamo gli organi di informazione di stampo ecologista ed
umanista a sollevare finalmente al proprio interno un serio dibattito sul fondamentale legame esistente tra economia di mercato e derive autoritarie degli ordinamenti e delle istituzioni formalmente democratiche delle società capitaliste avanzate.

Agitare sentimenti come la rabbia o lo spirito di vendetta, riducendo  la base razionale delle istanze di giustizia sociale provenienti da differenti sezioni
della società alla semplificazione tra bene (anti-G8) e male (G8), oltre a non aiutarci a capire (come e perché ad esempio le cose tendano ad andare sempre
peggio) può solo condurre l'organismo sociale dalla febbre al delirio del terrore armato e della sospensione violenta (anche solo temporanea e circoscritta, ciò
non di meno inaccettabile) delle libertà costituzionalmente disposte. 
Occorre diffidare di tutti quanti - riproducendo tra l'altro le dinamiche di un protagonismo gerarchico/ideologico tendente all'eterodirezione delle masse - rinunciano al ricorso alla persuasione razionale e su base scientifica di contrasto delle politiche economiche neoliberiste; occorre interrogarsi innanzitutto sui limiti e sulle possibilità reali di un percorso di umanizzazione dell'economia "criminale ed assassina" (Perroux, 1969) istituzionalizzata su scala planetaria.
Le violenze verbali e il simbolismo guerresco di avanguardie, autoproclamatesi tali nei fatti, assecondano in realtà il gioco del sistema di dominio e favoriscono indirettamente l'annientamento delle varie forme possibili di antagonismo nonviolento, concreto e con maggiori possibilità di passaggio dall'idea al fatto. 

 


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