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Dopo Napoli: il movimento non sia ricerca dell'evento e dello scontro
Le prospettive dopo le botte in piazza al Global Forum e in attesa del G8 di Genova
 

    La manifestazione di sabato 17 marzo a Napoli contro la tre giorni del Global forum (terzo incontro mondiale, dopo quelli  di Meobourne e di Brasilia, che ha visto incontrarsi ministri e delegati di ben 140 paesi per discutere del ruolo dell’informatica  nella new economy e, soprattutto, nello sviluppo dei paesi del sud del mondo) e, più in generale, contro la volontà dei paesi ricchi di decidere dell’economia e della politica, dello sviluppo e della vita dei paesi poveri è un punto importante per ripensare quel movimento anti-globalizzazione che, forse, si sta formando sulla scia di Seattle e delle manifestazioni e appuntamenti che sono seguiti all’evento americano. 

   Quella di Napoli è stata la prima grande manifestazione italiana contro la globalizzazione. C’erano oltre ventimila persone, non solo napoletane, e per la gran maggioranza al di fuori dei partiti (tranne Rifondazione comunista e qualche verde), dei sindacati (tranne i Cobas) e delle grosse Ong. C’era un’età media abbastanza bassa, c’era un clima nuovo, per certi versi insolito, seppur tra slogan autonomi e vetero-marxisti. 

   Certo, a organizzare la manifestazione e anche gli appuntamenti dei giorni precedenti sono stati fondamentalmente i centri sociali campani gravitanti nell’area dell’autonomia operaia. Questi hanno costruito, nei mesi precedenti l’evento una rete (a dire il vero non molto ampia) di gruppi e di associazioni, tra i quali figurava anche Rifondazione. Hanno offerto una buona anticipazione mediatica del contro-forum e hanno garantito l’organizzazione del contro-vertice (dall’ospitare i manifestanti non napoletani al convocare le conferenze stampa, all’aggiornare costantemente il sito-web indymedia che ha svolto un ruolo di contro-informazione in tempo reale), ma poi la macchina è andata da sé. La maggioranza di chi, la mattina di sabato 17 marzo, ha partecipato al corteo stenterebbe a riconoscersi in questa militanza. I più sono scesi in strada spontaneamente: chi non appartiene a nessun gruppo costituito, chi da tempo più non partecipava a dimostrazioni di questo genere, chi - i più giovani - non aveva mai visto manifestazioni così grandi a Napoli. Era dal tempo della guerra del Golfo, che non si assisteva a qualcosa del genere. Questa area nuova, confusa, forse anche un po’ ingenua, ha rappresentato un elemento costante della tre giorni napoletana: prima della manifestazione del sabato, già si era affacciata sulla piazza nella grande manifestazione in maschera di due sere prima. 

   Alla vigilia della manifestazione, quindi, la scena napoletana mostrava due facce: da una parte un movimento spontaneo di ragazzi e ragazze che avevano voglia di mettersi insieme, di mostrarsi e di manifestare, avendo i più fra questi idee non molto chiare riguardo alla globalizzazione - d’altronde non è facile farsi un’idea precisa! -; dall’altra i gruppi politici dalla militanza storica che hanno saputo organizzare con mesi d’anticipo l’antiglobal. Un antiglobal che probabilmente non ci sarebbe mai stato se non fosse stato da questi preparato. Questo è sicuramente un merito che va loro riconosciuto. Ma tale riconoscimento non esclude la possibilità di avanzare più di una critica, spostando su altri piani la riflessione riguardo a un movimento che forse sta nascendo proprio in questi mesi. Il problema ci sembra essere questo: capire su quali basi e in che modo possa compattarsi un movimento. In che modo far sì che quella spontaneità dei più, forse ancora ingenua, non venga dispersa.

   Nei giorni precedenti al corteo era già chiaro a tutti il ragionamento svolto da buona parte degli organizzatori: creare movimento alzando la conflittualità, riappropriandosi della strada attraverso lo scontro. Ma a cosa ha portato questo modo di pensare? 
Quanto è successo sabato mattina è andato al di là di ogni immaginazione. La piazza si è trasformata subito in una vera e propria arena. Mentre c’era chi tentava di sfondare i cordoni di polizia e arrivare a Palazzo Reale (sede ufficiale del Forum) e chi, dalle retrovie, faceva esplodere una lotta del tutto insensata contro tutto e tutti, tirando pietre e quant’altro capitasse loro fra le mani, la maggioranza dei manifestanti è stata ripetutamente caricata dentro una piazza serrata con una morsa di tre cordoni di forze dell’ordine. La polizia, i carabinieri, la guardia di finanza hanno inseguito, in una selvaggia caccia all’uomo, e picchiato chiunque dentro e fuori la piazza, nelle strade e nei vicoli adiacenti. 

   La repressione è stata brutale, le responsabilità delle forze dell’ordine sono gravissime, così come testimoniano e denunciano i numerosi video, foto, interviste raccolti subito dopo. Ciò che è successo sabato mattina è inaccettabile, e su questo siamo tutti d’accordo. Ma la riflessione, adesso, dopo quello che è accaduto deve svolgersi su un altro piano: quanto le decisioni adottate da una parte dei manifestanti possano essere condivise e portate avanti da un intero movimento.
 Non sono stati gruppi non meglio identificati, o definiti come anarcoidi, i soli responsabili della violenza all’interno del movimento. C’è stata una strategia di lotta ben precisa da parte dell’organizzazione centrale della manifestazione. La tre giorni napoletana che ha preceduto il corteo è stata caratterizzata dalla penuria di assemblee, spazi di riflessione e di dibattito interno, elaborazione di strategie e riflessioni alternative. L’idea portante sembrava essere quella di “alzare il livello della conflittualità”. Logica vecchia e miope: era importante creare un evento mass-mediatico, come poi è stata la manifestazione di sabato 17 marzo. 

   I più hanno subito la fascinazione di pochi per la violenza. Certo, la fascinazione dello scontro è qualcosa di sottile, che attira più che respinge: tutti siamo stati (diciamolo autocriticamente) un po’ vittime di questo, ma questa è una logica che non può essere accettata. La logica dello “sfondamento” tradisce un convincimento antiquato, premoderno riguardo alle relazioni sociali e politiche: che il potere risieda in determinati palazzi e non in un sistema capillare e pervasivo. Se il sistema in cui viviamo diventa sempre più complesso e inclusivo, in una parola “post-moderno”, sbriciolando e confondendo i luoghi e le manifestazioni del potere e richiedendo, da parte di chi lo critica, una maggiore capacità di destrutturazione, il tentativo di trasformazione o, quello più limitato, di creazione di luoghi di opposizione, non può avvenire mediante la ricerca dello scontro che mutui (astoricamente) l’assalto al Palazzo d’Inverno. In questo caso, l’arrivo a Palazzo Reale, anche qualora questo fosse andato in porto (cosa che a tutti, però, è apparsa subito improbabile) avrebbe lasciato i manifestanti con un guscio vuoto in mano: avremmo trovato davanti a noi ministri e burocrati in vacanza per pochi giorni, pronti a lasciare Napoli per altri, tanti, luoghi in cui più concretamente e nefastamente svolgono il loro ruolo. Abbiamo davvero scalfito il potere ragionando in questo modo?
La logica secondo cui lo scontro, una volta scatenatosi, alza il livello della conflittualità, creando l’evento, è ipocrita e fallimentare: contro i presunti padroni del mondo non serve lo scontro di piazza, ma la creazione e il rafforzarsi di un modo di vedere le cose che possa darsi come efficacemente alternativo al pensiero dominante. Negli slogan della manifestazione, assolutamente privi di contenuto se non di scorie vetero-marxiste, niente di tutto questo. Un simile modo di pensare (ai limiti del terroristico) e di agire (troppo inconcludente e succube di pericolose suggestioni simil-casseur, simil-guerrigliere) ha prodotto solo effetti controproducenti: il prevalere della contestazione sulla riflessione, anteponendo lo sfogo di rabbia alla proposizione razionale di una piattaforma alternativa, il prevalere della fascinazione della violenza sul chiedersi se esiste o meno un movimento, quali possano essere le sue potenzialità e finalità, da quale parte, e attraverso quale spiraglio, è davvero efficace controbattere il sistema dell’occidentalizzazione imperante. Ci si è davvero affannati a discutere del digital divide e di che cosa questo voglia significare nella creazione delle nuove gerarchie mondiali? Di quali influenze abbia sulla nuova geopolitica? Si è parlato davvero del trionfo della tecnica sulla politica, della sopraffazione dell’economia finanziaria sull’economia produttiva? Ma soprattutto: abbiamo davvero provato a pensare quale altro mondo è possibile dato tutto questo?

   Concretamente, come sempre, la logica del cercar lo scontro, lascia in primo piano chi alza le mani e le mazze, e annulla, quale codardo, chi vorrebbe riflettere. Dov’è allora la risposta alla colonizzazione dell’immaginario? Non basta, insomma, il ricercare l’opposizione pura come è avvenuto a Praga e a Napoli. Ritualizzando gli scontri si entra nella routine, facendo un bel servizio ai signori del Global. La risposta perversa alla routine sarebbe allora quella di continuare a aumentare la conflittualità, ma fino a quando? Davvero contribuire a fare 150 feriti, trasformando una manifestazione autorizzata in una arena da gladiatori, è la forma di opposizione più consona al potere sottile della globalizzazione?
Nei giorni che hanno preceduto la manifestazione, ciò che più ha colpito sono state la scarsezza dei contenuti e l’incapacità di riflettere anche sulle questioni più “ovvie” del post-Seattle: Tobin tax, organismi geneticamente modificati, il peso delle multinazionali, il ruolo dell’Onu, la legislazione internazionale, quale strategie di lotta, quali idee alternative, quali autori leggere, su quali maestri riflettere, quali esperienze riproporre...Era importante creare un evento massmediatico, e in questo ci si è riusciti bene. Ma dopo qualche giorno, chi lo ricorda? “Creare eventi” vuol dire solo prendersi i due minuti di popolarità nei tg della sera, accanto a altri eventi? È davvero alternativo creare eventi di questo tipo? E qui le responsabilità della stampa, della televisioni sono enormi. Sono venuti in massa a Napoli a cercare la violenza, lo scontro, il sangue, per poi riproporre nei giorni seguenti, la violenza bruta da una parte e dall’altra. La ricerca del sensazionale ha sicuramente contribuito a creare l’arena di Piazza Municipio, alla quale poi è stato dato un “opportuno” rilievo nazionale. Ma anche questo deve far riflettere: l’uso distorto dell’informazione è ormai una delle armi più affinate nelle mani di chi si vorrebbe contrastare. Come perseguire allora una disobbedienza civile che sia tale, evitando la criminalizzazione televisiva? Da quali comportamenti partire? Quali strategie, meno rozze, far emergere?

   Più in generale, la manifestazione di Napoli, per alcuni una vittoria, per altri un fallimento, deve farci riflettere sullo stato di cose del movimento post-Seattle. Innanzitutto deve farci riflettere sul provincialismo italiano. Del fitto dibattito internazionale sul tema “another world is possible” a noi arrivano solo le briciole, e quelle poche briciole sono intrise di un ideologismo in forte ritardo. Il contro-vertice di Porto Alegre ha indicato una svolta possibile, è stato il segnale che è possibile, anche come arcipelago di gruppi sovranazionali, andare al di là del fenomeno contestativo e mass-mediatico e proponendo idee riguardo una diversa globalizzazione, una democrazia più reale e partecipata, una giustizia sociale meno astratta. Che è possibile definire il nostro another world, pensandosi all’interno di un dialogo crescente che evita le frasi fatte. (Non tutto ovviamente a Porto Alegre è filato liscio, e la società civile globale è più un’idea regolativa che un fatto concreto, ma passi avanti sono stati fatti).

   Per questo riteniamo opportuno operare da subito una critica interna al nascente movimento. Se certi comportamenti verranno a sclerotizzarsi sarà il suicidio di quanto di nuovo e alternativo poteva esserci nel fiacco e omologato panorama italiano (e poi anche europeo) di questi anni. Se si pongono da subito idee nuove, un nuovo sistema di valori, che ripudi non solo il globale dominante ma anche l’antiglobale che si nutre di vecchi pregiudizi  e di vecchie analisi e di vecchie forme - e questo è evidente in Italia più che altrove - si potrà costituire davvero qualcosa di nuovo. Altrimenti, saremo schiacciati tra i soliti due poli: da una parte il terzo settore e le Ong istituzionalizzate che fanno poca critica alternativa e molta gestione dello status quo, dicendosi però, a parole, diversi; dall’altra l’inefficacia vetero-marxista, da piccolo-borghesi che si sfogano per tornare funzionali al sistema.

   Dobbiamo cominciare da subito a provare a percorrere una strada intermedia, radicale ma nuova, realmente alternativa e realmente critica, dicendoci, fra l’altro, che qui siamo nella parte ricca del mondo: e che la giustizia che si cerca non è nell’aumentare i diritti e i consumi ma nel ridurre questi ultimi e nel definire i doveri. E, soprattutto, dicendoci che bisogna evitare a tutti i costi di voler essere avanguardia “anti-global” occidentale rispetto ai popoli del sud del mondo. Il nostro compito è un altro: cercare da qui, dall’interno, di stravolgere la nostra società opulenta che produce iniquità intorno a sé, ma un forte consenso al suo interno. Come destrutturarla?

   Non sappiamo dire quanto sia reale il vento di Seattle, non sappiamo dire se non sia anche questa un’invenzione mass-mediatica, ma una cosa ci sembra chiara. Quanto è successo a Seattle ci ha sorpreso per la capacità di alcuni gruppi (all’interno di una maggioranza simile alla nostra) di saper offrire esempi nuovi di resistenza passiva, esempi davvero creativi di come è possibile fermare un vertice che decide del collasso economico di una parte del mondo e non semplicemente di come è possibile sfogarsi con la polizia. Come fare riflessione e assemblea, anche attraverso le nuove tecnologie, provando a gettare le basi di un nuovo mondo. Le riedizioni europee ci sono sembrate antiquate, perché, da una parte, in mano ai soliti gruppi contestativi che non vanno al di là dello sterile scontro o di analisi volgari e semplificate; dall’altra, in mano alle pacifiche grosse Ong  che troppo flirtano con i nostri governi e che continuano a parlare di voler proporre un mondo nuovo, quando già in termini di cooperazione internazionale e di gestione dell’esistente sociale all’interno dei nostri Stati hanno le loro pecche e colpe filo-governative, sempre e comunque “all’interno delle logiche del mercato”. Crediamo che provare a percorrere quella via di mezzo sia l’unico modo per fare davvero movimento in Europa, l’unico modo per appropriarsi di quegli aspetti minoritari e positivi di Seattle. Il linguaggio di questa protesta dobbiamo ancora inventarlo, in Italia molto più che altrove.

   Altrimenti saremmo costretti a ricadere nel solito aut aut: opposizione violenta o accondiscendenza moderata, cosa che già fanno i gruppi esistenti, i loro ideologi e la loro stampa di riferimento.

   Quale movimento? Al di là della barbarie della polizia e degli errori degli organizzatori? La maggior parte della gente che era in piazza a Napoli ha lasciato intravedere la possibilità di un movimento nuovo, che non si riconosce in una lotta alla globalizzazione che passi attraverso lo scontro e la ricerca della violenza. Saremo capaci di costruire qualcosa di diverso, non solo in vista del prossimo grande appuntamento: il contro-G8 di Genova in luglio?
 
 

Renata Pepicelli, AlessandroLeogrande
Lea Nocera, Emanuele Valenti


*** *** Per sottoscrivere questo documento
o per intervenire nel dibattito mandaci un e-mail!
 



 
o A Napoli 
Renata Pepicelli, Alessandro Leogrande
Lea Nocera, ed Emanuele Valenti hanno scritto, sulla scia del NoGlobal, questo documento critico per contribuire 
al dibattito sulle prospettive 
del movimento contro la globalizzazione neoliberista.

(28 marzo  2001)


Il dibattito

L'intervento di Gianni Scotto, ricercatore
sulla pace

(30 marzo  2001)

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