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Shimada Masahiko, sognando fra periferia e cosmopolitismo
Lo scrittore giapponese: "Con Pinocchio e l'orsetto Pooh la saggezza del futuro"
 

di FRANCA ELLER

   «La periferia è un posto dove la storia cessa e il tempo e lo spazio perdono il loro significato. Per questo noia e alienazione sono le principali caratteristiche della periferia. Esistono solo due strade per uscirne: l'una è quella del suicidio, l'altra quella della scrittura. Io ho scelto la seconda. Avevo 14 anni, la stessa età di Anna Frank, quando ho cominciato a occuparmi di letteratura, a tenere un diario, ad annotare e guidare i miei sogni, cioé a combattere l'istinto suicida. La periferia di Tokyo in cui sono nato e vissuto era la mia camera a gas».

   Comincia così la nostra conversazione con Shimada Masahiko, il giovane scrittore giapponese, uno dei maggiori esponenti della nuova generazione di intellettuali nipponici, provocatorio e dissacratore al massimo, scrittore, giornalista, regista e sceneggiatore per cinema, teatro e televisione, pubblica nell'83 "Divertimento per la sinistra gentile", da noi esce nel '95 per Marsilio "Mi farò mummia", una serie di racconti, e sta per essere pubblicato il romanzo "Il messaggero dei sogni", la rivista "Linea d'ombra" ospita sempre nel '95 il suo racconto "Le orecchie del cielo". La sua letteratura, capace di penetrare in mondi allucinati e psichedelici, al limite dell'insostenibile - scrivono i suoi critici - è un'affermazione di individualismo anarchico, condotta sul filo dell'estremismo e del paradosso.

   Lei ama definirsi un'anomalia del Giappone, ma nella sua scrittura convivono in egual misura un forte legame con la tradizione nipponica e la tensione verso un nuovo cosmopolitismo, verso la demolizione di patrie e confini: come riesce a conciliare queste posizioni estreme?

   Per me tutto comincia dalla periferia. La periferia, a partire dagli anni '60, è un posto che simboleggia lo status e gli interessi economici della classe media giapponese, costruito in maniera artificiale per farne una copia dello stile di vita americano; un luogo senza alcuna storia, dove l'età della pietra sembra collegarsi direttamente all'età moderna. La gente che l'abita, per avere il senso della realtà della vita, cerca di adattare a se stessa l'immagine dei mass-media come la televisione, il cinema di Hollywood, la musica pop e i cartoni animati. E il tempo è immobile come in un deserto. Lì anche l'ikebana, o l'haiku, o il giardinaggio, o la cerimonia del tè, tutti riti ormai svuotati della loro spiritualità, in una società virtuale e senz'anima, non sono che forme un po' snob di consumare il tempo, questo tedio mortale; come le sale di pachinko piene di casalinghe isteriche, o i telephone-club che alimentano le fantasie perverse e le violenze sessuali dei ragazzini.

   Quindi lei esce da una dimensione fittizia di realtà per entrare nella dimensione del sogno, che le appare come più reale?

   Nelle mie opere do corpo ai miei sogni, che occupano gran parte della mia giornata, e che sono la mia memoria storica, il tempo reale che mi è stato tolto, il legame con la tradizione, come lei lo ha chiamato. Dormo anche per 10 ore filate per poter guidare i miei sogni, e sono capace di interromperli e di riprenderli a piacere. Del resto non dimentichiamo la nostra tradizione millenaria di interpretazione dei sogni, nata ben prima di Freud. In essi tutto accade, diviene, è in fieri, è vivo, mentre intorno a me, nella periferia in cui vivo, tutto è statico, immobile, già divenuto, e quindi irrimediabilmente morto, falso. Nel mio onanismo trovo la forza di sottrarmi alla schizofrenia e all'istinto suicida che alberga in buona parte dei miei coabitanti.

  Scontato chiederle che differenza c'è fra il descrivere un sogno e descrivere la realtà?

    Personalmente ritengo che sia la stessa cosa. Non sono forse entrambi un modo abile per dire bugie? Perché le parole e i fatti non corrispondono mai.

   E così torniamo ai surrealisti, ai suoi collezionisti di sogni... 

   Appunto. Possiamo conciliare parole e fatti solo nel gioco, nella dimensione ludica. Mi pare l'unico modo possibile di intervenire nell'ambiguo e difficile rapporto che si è creato negli anni tra individuo e società. Ed è anche in questo mio tentativo di conciliare tradizione e cosmopolitismo, spirito e materia, realtà e finzione, che cerco di indicare una nuova strada per uscire da questa trappola in cui siamo precipitati, dai problemi che ci affliggono.

   Problemi universali, non solo giapponesi, direi...

   Certo. Com'è un problema globale quello della periferia, che nasce come risultato della distruzione dell'ambiente e dell'escalation del capitalismo, e oggi espande la sua superficie sulla terra come il deserto. In questo deserto è nata una filosofia, una religione del tutto particolare...

   La periferia quindi come omologazione, come villaggio globale contro cui combattere con l'arma del gioco, del sogno, delle proprie tradizioni e insieme dell'abbattimento delle frontiere, siano esse fisiche, geografiche o mentali: è un concetto interessante. Salman Rushdie sostiene che a Oriente ci si occupa della costruzione di sé, mentre a Occidente della decostituzione. E' d'accordo con questa tesi?

   No, direi che non sono d'accordo, e non dividerei il mondo secondo i 4 punti cardinali, queste possono essere purtroppo solo divisioni economiche. Io penso che ogni parte del mondo non potrebbe esistere senza l'altra parte; che ognuno nasce e cresce anche grazie alla storia dell'altro, ma in ognuno c'è la totalità della storia, la costruzione e la decostruzione insieme. E poi, per me il contrario della distruzione non è la creazione ma il nulla e la contemplazione.

   Lei è autore di un saggio molto singolare, in cui fa incontrare Pinocchio e l'orsetto Pooh. Ce ne vuole spiegare il messaggio?

   E' semplice. Il Pinocchio che è in ognuno di noi - il proprio io - ha assoluto bisogno per sopravvivere di un super-io. Pinocchio è sempre consapevole delle sue azioni, ad ognuna di esse deve dare uno scopo e un significato, ma quando cerca di combattere il mondo, viene sempre ferito, è un «io sconfitto».
   Pooh invece, l'immagine stessa della pigrizia, non conoscendo il significato della parola «sconfitta», gioca da solo con il mondo, in maniera innocente. Ed è capace di mostrare al suo amico Pinocchio l'assurdità di certi stereotipi e la funzione dei sogni. Credo anch'io, come Pooh che nei sogni si trovi la saggezza per vivere nel futuro. E credo che solo l'unione dei due, Pinocchio e Pooh, possa suggerirci quello che davvero ci serve: un'idea di uomo aperto, plurimo, libero da pregiudizi e da violenze; un'idea che può ben nascere dalla nostra terra, a patto che ce la lascino com'era.


o Shimada Masahiko (Tokyo, 1961) oggi è uno dei principali giovani scrittori giapponesi. Ha scritto una trentina di romanzi e racconti.

In Italia il suo esordio è stato
il volume
"Mi farò mummia"
(traduzione di Maria Roberta Novielli,
Venezia: Marsilio, 1995,
pp. 123, L. 16.000), raccolta di quattro racconti (Mi farò mummia, Beata adolescenza, Il discepolo, Il delfino del deserto) sul tema della morte
e di Dio.
In patria Shimada Masahiko deve la sua popolarità anche alle frequenti apparizioni al cinema e in tv.

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