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Macedonia, protettorati e veti: da dove viene la guerra
L'Occidente ha i suoi interlocutori privilegiati per svolgere un ruolo disastroso nei Balcani
 

di ANDREA FERRARIO

   A prima vista, soprattutto appena dopo l'attentato di Tearce e nei primi giorni della "crisi di Tanusevci", la situazione nel nord della Macedonia poteva sembrare in buona parte una replica di quella in Kosovo tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998. In realtà, pur essendovi alcuni punti in comune tra le due situazioni, le differenze fondamentali sono numerose. Cercheremo qui sotto di individuare quali sono le radici e il contesto dell'attuale situazione e perché quest'ultima non è la stessa del Kosovo di prima della guerra del 1998.

UN PROTETTORATO DI FATTO

   La prima fondamentale differenza è che gli ultimi eventi rientrano nel contesto successivo alla guerra tra NATO e Jugoslavia del 1999. Tra le conseguenze di questa guerra c'è stata quella di un drastico ampliamento, nei Balcani, della formula del protettorato occidentale come misura per conservare lo status quo e la "stabilità" nella regione. Al protettorato ufficiale in Bosnia, che tuttavia convive con strutture di potere locali articolate, e al protettorato semiufficiale in Albania, si sono aggiunti ora il protettorato ufficiale e "totale" in Kosovo (pur sempre sotto la sovranità formale della Jugoslavia) e un protettorato di fatto in Macedonia. In quest'ultimo paese, visto da sempre in Occidente come potenziale polveriera dei Balcani, la formula del protettorato era in realtà già presente in forma strisciante ai tempi della presidenza di Kiro Gligorov in virtù delle pesanti ingerenze occidentali mirate a conservare lo status quo. Gligorov vedeva di buon occhio tali ingerenze, che rinsaldavano il suo controllo su uno stato altrimenti molto fragile, e aveva infatti all'epoca cercato di spingere ulteriormente verso una soluzione di protettorato di fatto con la sua offerta di aprire il paese a basi NATO. La successiva situazione di potenziale destabilizzazione del paese per la caduta di popolarità del governo dei socialdemocratici (ex comunisti) di Crvenkovski e Gligorov, il radicalizzarsi della situazione tra gli albanesi del Kosovo, così come, in un secondo tempo, la trasformazione della Macedonia fin dal 1998 in retrobase della NATO, in serbatoio per i profughi deportati dal regime di Belgrado e, oggi, in territorio di appoggio logistico al protettorato KFOR-UNMIK in Kosovo, sono tutti fattori che hanno progressivamente sancito nei fatti tale soluzione.

   La posizione strategica della Macedonia ha portato l'Occidente a intensificare ulterioremente le proprie ingerenze, bene accolte anche dal nuovo governo Georgievski-Xhaferri per lo stesso motivo per cui erano bene accolte da Gligorov. Quest'ultimo era stato erto dall'Occidente a modello per gli interi Balcani - per fare un solo esempio tra i tanti, il finanziere Soros, grande amico del presidente macedone, affermava allora che la sua fondazione non aveva pressoché alcun compito da svolgere in Macedonia, esempio a suo dire di "società aperta". Gligorov aveva il presunto merito, agli occhi delle grandi potenze e dei grandi media che fanno opinione, di avere conservato la pace etnica e sociale in questo fragile paese. In realtà, grazie anche all'assoluto sostegno occidentale, egli era riuscito a conservare semplicemente lo status quo lasciando intatte, o addirittura aggravando, la segregazione dell'ampia popolazione albanese e la disgregazione sociale del paese. Tutto questo grazie anche al sostegno e al coinvolgimento nel governo degli albanesi moderati del PDP, i quali per svariati anni si sono limitati esclusivamente a fare da "prova" del fatto che in Macedonia i diritti degli albanesi erano rispettati. 

   Che il governo guidato dai socialdemocratici abbia soddisfatto la "comunità internazionale" a tutto detrimento delle popolazioni della Macedonia lo prova la disfatta subita dal governo di Crvenkovski nelle elezioni politiche dell'autunno del 1998, che ha trascinato nella sua caduta anche il PDP. Grazie anche alle pesanti intromissioni occidentali, il vuoto creato dalla sconfitta elettorale di Crvenkosvki è stato sostituito da una coalizione davvero strana tra la VMRO-DPMNE di Georgievski e del DPA di Xhaferri (diventato il maggiore partito degli albanesi), affiancati dalla DA di Tupurkovski, dal ruolo tuttavia inferiore. La VMRO-DPMNE si è trasformata letteralmente nel giro di pochi mesi da formazione radicalmente sciovinista e antialbanese in partito moderato e, a parole, disponibile al dialogo con gli albanesi per la risoluzione delle loro richieste più pressanti. Il DPA, da parte sua, è mutato anch'esso nel giro di pochi mesi da partito nazionalista "radicale" a partito moderato e tutore della "pace etnica", intesa da Xhaferri come il mantenimento dell'inattività politica della popolazione albanese e del prevalere degli interessi della "comunità internazionale", nonché della ristretta oligarchia del suo partito, sulla promozione dei diritti democratici.

   Il DA, forza creata all'ultimo momento prima delle elezioni, aveva la funzione di stabilire un collegamento sui generis con il passato della federazione socialista jugoslava attraverso la personalità del leader Tupurkovski, che di tale federazione è stato uno dei più alti funzionari. Il risultato è stato che la VMRO-DPMNE ha perso rapidamente i suoi consensi, visto che il nucleo principale del suo elettorato è fortemente ostile agli albanesi e non le ha dato quindi un mandato per governare il paese con un partito di questi ultimi; inoltre, la situazione sociale del paese è andata ulteriormente degradandosi. Alle ultime amministrative il partito del premier Georgievski ha subito un secco ridimensionamento e alle presidenziali è riuscito a fare eleggere il proprio candidato, Boris Trajkovski, unicamente grazie al sostegno massiccio degli albanesi, sostegno organizzato dal DPA, tra le altre cose, con brogli e violenze contro le forze albanesi rivali. Oggi, la principale argomentazione politica di Georgievski è quella di avere il sostegno della "comunità internazionale", cosa che non cessa di rivendicare in ogni dibattito politico. Il DPA di Xhaferri, invece, è riuscito nonostante tutto a rafforzare per un certo tempo le proprie posizioni.

   La funzione di ago della bilancia nella politica interna e di tutore, agli occhi dell'Occidente, della "pace etnica" nel paese anche nel periodo delicatissimo della guerra nel vicino Kosovo, gli hanno consentito di emarginare ogni dissenso interno e di costruire, insieme al suo vice Menduh Thaqi, un vero e proprio feudo politico-economico nelle zone nord-occidentali della Macedonia (a maggioranza albanese) e nel campo dei media in lingua albanese. Il PDP, secondo partito degli albanesi, guidato da Imeri, ha cercato di occupare lo spazio "radicale" lasciato libero dalla svolta moderata del DPA, ma le sue credenziali sono molto scarse agli occhi degli albanesi, che non hanno dimenticato i suoi anni di ligio servilismo nel governo di Crvenkovski. Il DA di Tupurkovski, formazione artificiale e scarsamente coesa, si è ridotto al lumicino ed è uscito dalla coalizione. Da parte sua, la SDSM di Crvenkovski, ora all'opposizione, si sta da tempo preparando alla rivincita facendo propri i toni più sciovinisti che un tempo utilizzava la VMRO-DPMNE e cercando di presentarsi come partito patriottico degli elettori di nazionalità macedone. L'interscambiabilità dei ruoli, che risulta evidente dalle traiettorie politiche seguite dai vari partiti macedoni in questi anni, è un sintomo di come queste forze, tutte fortemente verticistiche e quindi poco vincolate ai mandati ottenuti dagli elettori, usino come metro del proprio agire il candidarsi a fare da garanti degli interessi della "comunità internazionale".

UN ESEMPIO: L'UNIVERSITA' DI TETOVO

   L'esempio forse più chiaro di come governo macedone, partiti albanesi e organismi occidentali abbiano cercato di creare in Macedonia una falsa immagine di "pace etnica", mantenendo al contempo la segregazione di fatto della popolazione albanese, è dato dalla vicenda dell'Università "parallela" di Tetovo.
   Tale università è stata fondata nel 1994 sulla base di un'esigenza reale: fino alla fine degli anni '80 i giovani albanesi di Macedonia studiavano all'Università di Pristina, i cui diplomi venivano riconosciuti anche in Macedonia. Con l'indipendenza di quest'ultima, e mentre nel frattempo l'Università di Pristina era stata trasformata d'autorità, sotto Milosevic, in un'università serba per soli studenti serbi, gli albanesi di Macedonia si sono ritrovati senza la possibilità di effettuare studi universitari nella loro lingua, visto anche che il governo di Skopje rifiutava a priori di discutere una tale eventualità, nonostante le ripetute richieste pacifiche in tal senso da parte degli albanesi. 

   La creazione dell'Università di Tetovo è stata subito criminalizzata dal regime di Gligorov, che ne ha rifiutato qualsiasi forma di riconoscimento e al dialogo ha sempre preferito i manganelli della polizia (fin dal momento dell'apertura del primo anno accademico, brutalmente repressa dalle forze del ministero degli interni macedone). Preoccupate tuttavia di mantere l'apparenza di "oasi di pace" della Macedonia, le autorità di Skopje hanno a loro modo tollerato l'esistenza dell'università, lasciandola sopravvivere come ghetto "illegale" per una popolazione marginalizzata e abbandonando i giovani albanesi di Macedonia (e di riflesso le loro famiglie) al problema di come trovare un lavoro con un diploma non riconosciuto ufficialmente. Con l'arrivo al potere della coppia Georgievski-Xhaferri l'Univeristà di Tetovo è diventata oggetto delle principali promesse di apertura alle rivendicazioni degli albanesi. Dopo che la risoluzione del problema è stata rimandata di un anno a causa dell'emergenza della guerra in Kosovo, la questione è tornata pian piano alla ribalta, con le usuali intromissioni occidentali.

   Così, l'anno scorso, l'Alto commissario dell'OSCE per le minoranze, Max van der Stoel, ha messo a punto, di comune accordo con il governo di Skopje (partito di Xhaferri compreso), un piano che meriterebbe un oscar per l'ipocrisia con cui aggira il problema senza affrontarlo e risolverlo. Il progetto approvato, e già entrato in fase operativa, prevede la creazione di un'istituto di studi superiori privato, gestito da un fondo finanziato dalla "comunità internazionale" e da donatori esteri, nel quale verranno insegnati esclusivamente l'arte del management privato e pubblico, e verranno preparati i quadri per l'insegnamento post-diploma e medio - punto e basta. Niente studi di medicina, ingegneria, materie umanistiche o altro ancora.
Il tutto in tre lingue: albanese, macedone e inglese. I posti disponibili per chi si vuole iscrivere saranno solo 3.000, cioè di gran lunga inferiori al numero degli studenti che attualmente studiano all'università parallela di Tetovo, pari a circa 10.000: la maggior parte di questi ultimi, quindi, viene lasciata alla propria sorte. Inoltre, i posti saranno riservati in misura dei due terzi a studenti con borse di studio assegnate dai finanziatori esteri e la piccola quota "libera", un terzo, sarà riservata a chi potrà pagare una tassa di iscrizione che si aggirerà sui due milioni all'anno, un costo proibitivo per i livelli di reddito locali. Insomma, l'istituto privato creato da Stoel, Georgievski e Xhaferri sancisce il non riconoscimento della legittimità in Macedonia degli studi universitari in albanese, visto che l'istituto non è un'università ed è finanziato con fondi esteri, invece che dallo stato macedone. Inoltre, esso ha una chiara funzione di controllo: il numero già limitato di studenti verrà scelto dai finanziatori esteri che assegneranno le borse di studio, mentre i pochi posti liberi potranno essere occupati solo da membri della élite più ricca. 
   L'esclusione di ogni insegnamento che non sia la preparazione di quadri amministrativi ed educativi è un ulteriore indice dell'intenzione di creare null'altro che una burocrazia albanese fidata e controllata che si inserisca docilmente nello stato macedone. E' d'altronde proprio questo il modello che la "comunità internazionale" ha sempre adottato riguardo alla Macedonia. Xhaferri, da parte sua, è stato entusiasta promotore del progetto, entusiasmo con il quale ha cercato di guadagnare nuovi spazi presso gli occidentali, probabilmente anche con la speranza di fare dell'istituto privato un nuovo feudo del suo partito (il coordinatore del progetto, Zamir Dika, è membro del DPA). Nonostante questi chiari fatti, ancora in questi giorni si leggono di frequente corrispondenze dalla Macedonia in cui si afferma, contro ogni evidenza, che il problema dell'Università di Tetovo è stato ormai risolto con la creazione di un'Università privata.

LO SPAZIO POLITICO ALBANESE

   Ma mano che passano i giorni si fa sempre più chiaro che i gruppi armati che operano in Macedonia (in particolare il "nuovo" UCK), e i loro dirigenti, come per esempio Fazli Veliu, sono autoctoni e non invasori provenienti dal Kosovo. Quest'ultima tesi viene invece sostenuta dalle autorità di Skopje come foglia di fico per coprire i lunghi anni delle proprie politiche di segregazione nei confronti degli albanesi. Per lo stesso motivo tale tesi viene fatta propria anche da alcuni circoli occidentali, politici e mediatici, che tale segregazione hanno sempre cercato di fare passare come modello di convivenza multietnica. E' tuttavia indubbio che quanto sta avvenendo in Macedonia sia strettamente legato alla situazione del Kosovo e agli sviluppi politici al suo interno.

   L'attuale movimento di liberazione nazionale albanese trova infatti le proprie origini nella Jugoslavia socialista e di esso hanno sempre fatto indistintamente parte albanesi del Kosovo, della Macedonia e della Serbia meridionale. Il veto finora posto dalla "comunità internazionale" all'indipendenza del Kosovo è stato avallato dalle principali forze politiche albanesi di quest'ultimo, vale a dire dalla LDK di Rugova e dal PDK di Hashim Thaqi. Quest'ultimo in particolare, insieme all'ex comandante in capo dell'UCK Agim Ceku, ha accettato esplicitamente di rimandare a tempi anche lontanissimi un'eventuale indipendenza e si è dichiarato pronto ad accettare che la parola definitiva in merito la abbia una conferenza presieduta dai paesi occidentali, senza referendum. Così come Xhaferri in Macedonia, Rugova, Thaqi e Ceku basano le loro fortune politiche (e i loro feudi politici) esclusivamente sui rispettivi ruoli di garanti dello status quo. Quanto sta accadendo in Serbia meridionale e in Macedonia è semplicemente ciò che in Kosovo non può avvenire a causa della presenza delle forze di occupazione NATO e dell'amministrazione UNMIK, da una parte e, dall'altra, del controllo politico esercitato tra gli albanesi da Rugova e Thaqi, in sintonia con gli organismi internazionali. I leader del "nuovo" UCK, così come quelli dell'UCPMB nella Serbia meridionale, hanno a quanto risulta in massima parte come proprio riferimento politico il LPK "residuo", cioè il partito fondato da coloro che non hanno accettato lo scioglimento del LPK originale (il movimento ex marxista-leninista che è stato il nucleo politico dell'UCK del Kosovo) nella formula moderata del PDK di Thaqi.

   L'eredità del LPK, e quindi anche dell'Esercito di Liberazione del Kosovo, è chiaramente distinguibile nelle azioni condotte da gruppi piccoli o medi contro stazioni di polizia o unità dell'esercito macedone - una tattica che ricalca pari passo quella dell'UCK del Kosovo prima del 1998. 
   Molto diversi sono tuttavia il contesto politico e quello internazionale. Innanzitutto, a differenza del Kosovo degli anni '90, totalmente egemonizzato dalla LDK di Rugova, lo spazio politico albanese in Macedonia e nella Serbia meridionale è molto più articolato e flessibile. Nella valle di Presevo, Halimi e il suo partito (che, va notato, è legale a differenza della LDK negli anni '90) non hanno liquidato l'UCPMB, come aveva fatto Rugova con l'UCK, bollandolo di essere una creazione dei servizi segreti serbi, ma hanno invece aperto un dialogo con le formazioni armate e hanno prontamente risposto con loro al piano di pace di Covic (che in realtà è per metà una minaccia di intervento militare contro i "terroristi") con un contropiano in cui si formulano precise richieste politiche. Si tratta di una differenza notevole: infatti l'UCK è stata sempre più che reticente sui propri programmi e ha tardato molto a creare delle strutture politiche articolate. Lo stesso vale in gran parte per la Macedonia, dove esistono svariati partiti politici, presenti anche nelle istituzioni, sebbene la figura di Xhaferri e il ruolo del suo partito ricordino per molti versi Rugova e la LDK fino al 1998. La comparsa del "nuovo" UCK è stata seguita quasi immediatamente dalla formazione di un partito, il NDP, che è chiaramente un suo referente politico e che ha subito formulato delle richieste politiche. La formazione armata, inoltre, ha già nominato un proprio rappresentante per eventuali trattative con il governo di Skopje. 

   Gli spazi per una soluzione pacifica e politica del conflitto apertosi sono quindi larghi, a patto di non partire dalla posizione preconcetta che di alcune cose non bisogna nemmeno discutere. Ciò che allontenerebbe obiettivamente la possibilità di una soluzione politica sarebbe la scelta, da parte macedone, di scegliere l'opzione militare e il rifiuto di ogni dialogo con i "terroristi" e quella, da parte albanese, di avviare un'azione armata di attacco mirata alla conquista di territori. Il governo macedone purtroppo in queste ultime ore ha optato proprio per la via militare, come ha già fatto a Tanusevci in coordinazione con le truppe USA della KFOR. 

   Sia il governo macedone, che quello serbo per quanto riguarda la Valle di Presevo, riducono la situazione a una "esportazione" del conflitto dal Kosovo e chiedono la collaborazione della NATO per reprimere (o meglio "distruggere", come ha detto il premier macedone Georgievski) i gruppi armati - collaborazione che hanno già largamente ottenuto. Da parte loro, i gruppi armati degli albanesi, e in particolare quelli della valle di Presevo, chiedono una mediazione o addirittura una presenza, anche armata, della "comunità internazionale" sul terreno. Le esperienze di Dayton e Rambouillet, così come la decennale "tutela" occidentale sulla Macedonia o il protettorato ONU in Kosovo oggi, sono chiari esempi di come le mediazioni e gli interventi occidentali, a ogni livello, siano solo forieri di nuove guerre e catastrofi umanitarie.

   Per quanto difficile, la via delle trattative dirette su basi eque è l'unica che possa aprire uno spiraglio per soluzioni pacifiche. Scriviamo spiraglio, perché una pace a lungo termine è possibile solo con un lavoro politico e una massiccia mobilitazione dal basso che in questo momento, come in passato, mancano. La Macedonia di Georgievski e Xhaferri, senza darne alcun merito a questi ultimi, non è certo la Serbia di Milosevic, né in termini politici né in termini militari: gli spazi per un'azione politica dal basso sono decisamente maggiori. I piccoli gruppi armati degli albanesi di Macedonia hanno la responsabilità di avere ignorato questo fatto, così come quella di non tenere conto dell'interesse dell'Occidente a sostenere in maniera esplicita i governi che opprimono gli albanesi (ivi incluso quello di Tirana, non a caso schierato "dall'altra parte") e a trovare nelle azioni armate della guerriglia albanese il pretesto ideale per ufficializzare questo sostegno. Pur con le sue coordinate diverse, l'esempio di cosa è oggi il protettorato del Kosovo rappresenta un ammonimento concreto dei risultati cui porta il tentativo di gruppi ristretti di coinvolgere la "comunità internazionale": nessun diritto democratico, nessuna giustizia, minoranze ghettizzate e oggetto di violenze, economia lasciata volutamente andare alla disgregazione totale da un'amministrazione coloniale.

ALCUNE CONSIDERAZIONI

   Il bilancio di questi dieci anni di intensi interventi occidentali nei Balcani a tutti i livelli (politico, economico, umanitario e militare) è assolutamente disastroso: paesi devastati da guerre che i diplomatici utilizzano unicamente come trampolino per le loro carriere, popolazioni ridotte in miseria i cui autoritari leader politici vengono foraggiati da banche e aziende occidentali, protettorati che negano a interi paesi i più fondamentali diritti democratici, burocrazie locali che vivono del ruolo di "broker" degli interessi occidentali nel totale disprezzo dei destini dei loro popoli, profughi e vittime della guerra ridotti al ruolo di materia prima per la produzione del giro d'affari miliardario gestito dalle grandi ONG. 

   Il ritiro totale di tutta questa macchina da guerra e di sfruttamento sarebbe una delle migliori garanzie per la pace nei Balcani e ogni suo disimpegno, anche parziale, costituirebbe comunque un passo avanti in tale direzione.
   Il veto posto dall'Occidente alle richieste di emancipazione delle popolazioni albanesi in Kosovo, Serbia e Macedonia, avanzate in maniera pacifica per lunghi anni senza ottenere risultati, è oggi tra le principali cause dei conflitti in atto. Negli ultimi mesi è tornata a farsi esplicita una politica occidentale che vede la Serbia come pilastro della politica balcanica, linea che, come abbiamo rilevato in passato, era già operativa prima della caduta di Milosevic e che ha una lunga tradizione che va dalla Jugoslavia di Tito negli anni '70 e '80 fino agli accordi di Dayton. I veri referenti dei militari, degli uomini di stato e dei banchieri occidentali sono infatti, per ovvi motivi, i loro colleghi che operano in un contesto statualmente strutturato, piuttosto che i guerriglieri, i partiti illegali o semilegali e le masse di disoccupati e contadini che li sostengono, utili tutt'al più i primi come obbedienti firmatari di copioni già scritti da cima a fondo (Rambouillet) e gli altri come carne da macello per le proprie guerre. Con i Tudjman e i Milosevic si può anche litigare e magari fare la guerra, ma sono gli unici con i quali si possono firmare contratti miliardari, condurre trattative tra alti gradi militari (da Belgrado nel 1998, a Kumanovo nel 1999 fino alla valle di Presevo oggi), o ancora concordare piani di "riforme" economiche con la garanzia che vi sia una polizia bene addestrata a proteggerli. 

   Un'eventuale indipendenza del Kosovo viene vista come un fattore che rischierebbe di minacciare proprio questi legami dell'Occidente, frutto della politica di connivenza naturale tra le burocrazie locali e quelle delle grandi potenze, anche perché aprirebbe contemporaneamente la questione delle rivendicazioni degli albanesi della Serbia meridionale e della Macedonia. 
   Tali rivendicazioni vengono percepite dalle grandi potenze come pericolose proprio perché sono legittime e basate su motivi reali, e non semplicemente frutto della fantasia di gruppi ristretti: essendo tali, esse, indipendentemente dal fatto che i gruppi ristretti di cui sopra il più delle volte utilizzino metodi inaccettabili, sono in grado di mobilitare grandi masse scarsamente controllate, il vero motivo per cui vengono temute. Non è un caso che con l'apertura della crisi in Macedonia si sia creato un fronte compatto e unanime contrario alle rivendicazioni degli albanesi, che va dai paesi della NATO all'ONU, alla Jugoslavia, alla Bulgaria, alla Grecia e, in buona misura, addirittura anche all'Albania e ai leader albanesi "fidati" in Kosovo. 

   Oltre al caso specifico dei dieci anni della politica condotta in Macedonia, che   abbiamo riassunto sopra, l'Occidente e gli stati balcanici hanno inviato negli ultimi mesi, con il riavvicinamento alla Serbia fino ad avviare una collaborazione con l'esercito jugoslavo, e con la firma dell'accordo sui confini tra Macedonia e Jugoslavia, un chiaro messaggio agli albanesi della regione: l'unico modo per fare sentire la vostra voce è ricorrere alle armi. 
  Con il sostegno occidentale all'uso dell'esercito da parte di Skopje e con le posizioni interventiste degli amici balcanici, vecchi o nuovi, dell'Occidente è stato inoltre inviato un altro chiaro messaggio: che le grandi potenze, se non devono pagare il prezzo di impegnarsi in prima persona in una guerra di guerriglia dagli esiti imprevedibili, prediligono di fronte alle "crisi esplosive" la via militare, appaltata a stati "clienti" o messa direttamente in atto.

   La guerra non è figlia delle richieste di indipendenza, di federalizzazione o di autonomia, ma di chi, in Occidente o nei Balcani, è favorevole all'impiego delle armi per difendere uno status quo che preservi il proprio sistema di oppressione e di sfruttamento.
 



 
 
o Pubblichiamo un commento "a caldo" sulla 
crisi in Macedonia scritto per Notizie Est da Andrea Ferrario, curatore della mailing list sui Balcani che nei prossimi giorni presenterà altri approfondimenti sull'argomento.

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