ii percorsi

Kosovo 1999: le atrocità senza fine e la faticosa via nonviolenta
Riflessioni pacifiste sotto le bombe, costruire il dialogo o fare guerre umanitarie?
 


   Caro Edi,

     comprendo il tuo tormentato sì all'uso della violenza (e che violenza!) in Jugoslavia contro la barbarie di Milosevic. Credo di poter capire il travaglio tuo, che è anche il mio. Non credo, invece, di capire abbastanza - non vivendola personalmente - la sofferenza di chi ha vissuto e vive la tragedia del Kosovo sulla sua pelle, né di chi sente cadere le bombe sulla sua terra e morire parenti e amici dentro esplosioni "di pace". E questo sarà un limite invalicabile della mia analisi. 

I ritardi di noi tutti

    Saremo tutti d'accordo che ciò che si doveva fare andava fatto prima, molto prima. Insinuare germi di cosmopolitismo - o di coscienza di specie - negli oscuri territori del nazionalismo etnico e religioso era un'operazione faticosa ma non impossibile. Molteplici gli strumenti utilizzabili, cultura, incontro, dialogo, economia, politica per agganciare quelle terre al percorso del resto d'Europa. Una prospettiva altra sul piano dell'economia e del benessere materiale (certo, con tutti i dubbi e le critiche del percorso nelle società dei consumi ma questo è un discorso diverso). Ma anche un orizzonte nuovo sul piano dei rapporti interetnici, un piccolo passo - come quello che forse stiamo a fatica facendo noi, altri europei - dalla microcoscienza esclusiva di gruppo nazionale (con tutti i rischi, le manipolazioni, le aberrazioni derivanti da questi meccanismi collettivi gestiti da poteri che si nutrono della contrapposizione "noi-loro" e la enfatizzano usando la plumbea ragnatela dello Stato). Quella strada potevamo indicare, noi tutti, a "loro", in una logica diversa dai tradizionali rapporti fra i gruppi. Si poteva almeno tentare di incamminarsi; l'Europa delle unioni monetarie e delle quote del latte poteva aprire le sue porte e mandare inviti politici difficilmente resistibili, poteva spalancare le sue porte e magari anche chiedere una mano agli americani, bastava, forse, una parte dei 30 mila miliardi di lire che si bruceranno in tre mesi di bombe in Jugoslavia.

Governanti invasati e ubriacature nazionali

   Ma non serve parlare dell'altroieri e del non fatto: credo che tutti e due, io te, abbiamo presente quanto era possibile "inventare" per risparmiare il peggio a quei popoli (che in quanto uomini e donne dotati ognuno di cervello e midollo spinale vanno considerati prima di tutto vittime ma poi anche complici dei loro governanti invasati).
Poi la Bosnia e l'orrore - passando per le panciute Slovenia e Croazia e forse proprio ad esse sacrificata. L'altroieri è passato così. Il sangue è tornato a scorrere sui fiumi sotto macerie di ponti e di vite e di tante babele, come tutti sapevamo e non volevamo.
Adesso toccherà al Kosovo, abbiamo sentito ripetere per anni mentre in Bosnia si tentava di ricomporre quel mosaico come se fosse possibile riunire le tessere se le hai sbriciolate. Guardare e non toccare, però, è stata la parola d'ordine per troppo tempo. Quasi un lascia stare il can che dorme. Poi il vortice si faceva sempre più violento e rumoroso ma lo stesso non abbiamo camminato molte strade verso un'idea di convivenza da imporre - al limite - con la forza dei ricatti commerciali e non solo. Era l'ieri.

La spirale violenta

Poi tutto degenera, poi nasce l'Uck, i diritti civili sono esiliati, le persecuzioni, il pugno di ferro di un regime fuori del tempo, i tentativi quasi svogliati di far accordare due parti che prima si sono lasciate colpevolmente allontanare covando l'odio più odio. Il vuoto della fantasia, la rigidità della diplomazia e la miopia della politica. Poi, le bombe per porre fine a una tragedia e costruire un futuro di pace e convivenza civile.

Le sinistre transoceaniche

    Non avevo la pretesa che la politica, questa politica delle "sinistre" (ma quali?) transoceaniche, sapesse percorrere altre strade. Non pretendevo che i Clinton e i Blair come novelli Capitini o Gandhi, che i D'Alema e gli Schroeder come novelli Russell o Balducci, avessero la forza di mostrare al mondo altre strade, di chiedere a tutti uno sforzo di fantasia, di immaginazione della pace e della libertà. Di questo parlerò tra poco. Avevo la sola pretesa che ci si fosse interrogati sulle conseguenze indirette (e non) di quel cedere la parola alle armi. Ora, credo sia ragionevole sostenere che un mese di bombe ha scatenato una "carneficina" in Kosovo, una reazione inaudita (eppure prevedibile) delle milizie federali e dei criminali del macellaio Arkan, un "salto di qualità" della guerriglia albanese, un colpo di spugna sulla moderazione delle bozze di accordo diplomatico. Il Kosovo da provincia violentata a territorio di guerra violentato due volte e la sua gente in fuga dall'orrore, nell'orrore verso l'orrore che vediamo tutti i giorni negli occhi dei bambini che allungano il braccio per strappare un pezzo di pane. Che disperazione. E che rabbia. Per favore, spiegatemi perché tutto questo non l'avevano previsto i grandi strateghi: non servivano gli sguardi elettronici della Cia e della Nasa, bastava chiedere a un qualunque vecchio contadino che sa pensare il suo futuro secondo il corso delle stagioni e la previsione degli eventi naturali.

Le dinamiche impazzite dell'azione militare

   Possibile, poi, che non avessero previsto i rischi di finire nelle sabbie mobili dell'azione militare, le dinamiche impazzite dell'allargamento di un conflitto che corre sul filo del rasoio: il Montenegro, la Macedonia, l'Albania... Possibile che la politica non avesse previsto il rischio di vedersi costretta, oggi, a sessant'anni dal '39 e dal "morire per Danzica?", ad affidarsi alle logiche militari con le loro conseguenze. Ai doppiopetti con stellette che senza esitazioni e fors'anche con un certo compiacimento potranno illustrare l'inellutabilità della guerra sempre più guerra dopo averci spiegato quella degli effetti collaterali (ed effetto collaterale è anche la fuga e la morte dei kosovari perseguitati dai folli fedeli invasati davanti al simulacro di Milosevic e della religione-nazione). Vedo volti smarriti di politici e presunti statisti indecisi e ondivaghi, volti di militari decisi e rassicuranti. Si faccia piazza pulita, si distrugga la Jugoslavia, si metta a ferro e fuoco il Kosovo con gli Apache e i marines. Poi verrà la pace.

Il secolo delle guerre si chiude con le bombe

  Che tristezza. Alla fine di questo secolo macchiato di sangue e brutalizzato dall'Olocausto vedere ancora e solo sangue coprire le pagine di pace e di nonviolenza scritte nella storia dai molti che non sono più qui. Che tristezza. Vedere la politica planetaria esaurirsi e cedere il passo alla logica militare, la stessa di sempre: la stessa di sempre. Dov'è il cammino della civiltà nella retromarcia del Kosovo 1999? Basta un Milosevic a sconfiggere l'idea della pace come azione positiva e a portare in trionfo la logica militare, l'apparato di morte che dovrebbe salvare la vita di noi tutti? E la storia, non si muove? "Adesso gli facciamo cagare addosso al contadino", dicevano i topgun sui cieli e sui prati delle Dolomiti dove hanno tirato giù una funivia di "effetti collaterali". Demandiamo a queste "civiltà" la costruzione del nostro futuro? Immaginiamo una convivenza pacifica o magari anche una prospettiva di progresso umano da mettere in piedi sulle macerie di un intero paese e sui cadaveri carbonizzati? Quale sarà il futuro di quei bambini kosovari violentati negli occhi? A quando la prossima resa dei conti? A chi la prima mossa? Serbi, croati, albanesi? Ortodossi, cattolici, musulmani?

Si alimanta la guerra storica dei Balcani 

   Sì, sarà forse un futuro migliore, per un po', se il conflitto (come spero) finirà lì e non infetterà tutti i Balcani e il resto; ma la guerra - quella che non è cominciata un mese fa ma che dura da secoli - non avrà fatto un neanche un piccolo dietrofront. E tornerà. Altro che coscienza di specie, altro che squarci di dialogo col "nemico" e germi di filosofia dell'incontro. Etnia e armi, sangue e suolo è la risposta.

L'alternativa non violenta

    Allora, mi chiederai qual è la mia alternativa, se tale è il rapimento ideale che mi costringe a una condanna senza riserve dell'impresa bellica - tanto più quando, come in questo caso, assume i contorni dell'avventura ingovernabile. (E ti confesso che anche a me, forse, piacerebbe pensare che due bombe su una raffineria potrebbero risolvere tutto, ma la mia pur considerevole ingenuità almeno per ora non arriva a tanto).

L'ingerenza umanitaria civile?

   L'alternativa, dunque. Il passato è passato ma vorrei insistere almeno sull'idea di ingerenza umanitaria sacrosanta ma non necessariamente armata e non necessariamente demandata all'apparato militare - in sé contraddittorio con ogni idea di pace, libertà e democrazia nonostante i patetici tentativi di "reinventarsi" cui tali strutture, gerarchiche al parossismo, si sottopongono di questi tempi. Se uno stato calpesta i diritti civili e perfino quelli umani è dovere di tutti intervenire con tutta l'energia possibile. Allora, se scoppiasse invece di una bomba un po' di fantasia, che al potere non è mai andata e quando serve è forse più lontana che mai, si potrebbero immaginare innumerevoli tempi e modi di una forte, fortissima ingerenza umanitaria in un'area a "sovranità nazionale". Un'ingerenza che con coinvolgimenti diretti di uomini e donne (come uomini e donne sono i militari cui demandiamo, in questo caso, praticamente tutto) forse avrebbe potuto incidere sul dramma liberticida del Kosovo senza scatenare la catena micidiale di effetti mortali cui stiamo assistendo oggi. C'era, credo, un percorso da tentare prima di arrendersi alla deriva di guerra.

Una ragnatala di pace fra noi e loro

   Mi sforzo di individuare questo percorso. E' faticoso, lo so. Forse vano. Non voglio scriverti qui parole belle e vuote. Ti dico che ho immaginato fosse possibile coinvolgere altrimenti le persone tutte e le personalità soprattutto. Che il viaggio dei Nobel per la pace in Jugoslavia lo immaginavo subito dopo il fallimento di Rambouillet e solo ora questi paladini di non so che si sono svegliati e forse fra qualche settimana partiranno (a far che?). Che le provocazioni ai danni della Russia isolata e inascoltata ma sempre grande e temibile sono state una scemenza e che invece Mosca poteva - in un'ottica di dialogo - diventare lo strumento di una grande provocazione positiva nei riguardi di Belgrado, tipo lo spiegamento di una forza di pace - vedi, non è che i miei sani preconcetti antimilitaristi mi impediscono un minimo di disponibilità... - fatta inizialmente solo dai russi più osservatori occidentali e poi si vedrà. Tipo una sorta di "turismo umanitario", tipo una ragnatela di rapporti fra "noi" e "loro". Tipo un contatto reale con la Jugoslavia democratica. Tipo reali sanzioni economiche o reali aiuti finanziari. Tipo far uscire una volta per tutte l'Onu dal ridicolo che la sta sotterrando. Tipo un viaggio di questo Papa viaggiatore.
La fantasia non ha limiti, le bombe sì e si chiamano anche "effetti collaterali" ma ormai neanche più quello, pare si possa bombardare tutto.

Rispondere alla boia col linguaggio del boia?

 
   Non voglio fare dietrologie sulla pelle di chi in Kosovo soffre e muore ma non credo sfugga a nessuno che questo dimenarsi militaresco non è solo (ma anche, questo sì) umana compassione per quelle vite sequestrate. Non starò qui a elencare quanti altri scenari questa guerra ha spalancato, basterà, per dire, il dualismo Usa-Europa (le bombe cadono qui, sull'utopia della "casa comune" che può anche disturbare alcuni), l'attivismo isterico della Gran Bretagna che si sente sola senza Ecu e si sfoga manu militari, i soliti equilibri etnici, politici ed energetici dei Balcani "chiave e ombelico di tutto"... Ma questo mi importa poco. Oggi mi interessa soprattutto - e mi addolora - prendere atto di questa assenza di un mondo altro. Lo stupro del Kosovo è l'apoteosi della bestialità umana, sì. Ma bestiale, purtroppo, è anche rispondere con linguaggi simili a quelli del Mostro che oscura il sole con la violenza di prassi e parole che rischiano di diventare le tue, oggi o domani; prima o poi. È il vuoto di questo spazio nuovo che mi angoscia. La forte sensazione che ormai sia impermeabile a ogni impulso di riflessione umana sull'essere la logica dell'avanti il prossimo. Oggi il Kosovo, poi il Montenegro e quanti altri volti violentati in Kurdistan, Algeria, Timor Est, Indonesia, Chiapas e quanti quanti quanti. Allora si vada, siano le guerre a costruire l'umanità nuova.

Benzina sul fuoco dell'etnocentrismo

   Per ora, forse, arrivano i nostri qui e forse solo qui: altrove si muoia pure. E forse preleveranno questo Milosevic che ha mani e denti sporchi di sangue. Despota superato dai tempi. Orribile oligarca obsoleto, fuori della storia, legato agli schemi del pensiero e dell'agire del peggior affannarsi del nazionalismo cieco e militarista come si addice a ogni ubriacatura etnocentrica. Spero almeno, illudendomi (lo so), che oltre a un Kosovo probabilmente tagliato a fette etniche, questo gran casino ci dia la scomparsa di Milosevic e apra una strada alla Jugoslavia. Bene, dopo di lui, forse, verrà una parvenza di democrazia in quel deserto di morte. Ma quale futuro su quelle ferite? Viene quasi da pensare che probabilmente non sarà neanche possibile modernizzare del tutto il regime, cioè raggiungere quello che pare essere l'unico obiettivo ragionevole cui dovremmo sorridere a denti stretti perché è sempre meglio di niente: sostituire alla sanguinosa follia di un dittatore d'altri tempi, la dittatura dell'economia e dei falsi bisogni (nella megamacchina ipermaterialistica di ogni colore ben descritta da Ivan Illich) che almeno non ammazzano la gente e le fanno credere di vivere una libertà (meglio di niente anche lei ma falsa, certo, come scrive Fromm esaminando i nostri sistemi politici e la loro sottile arte manipolatoria globale, dell'individuo e dei gruppi). 

Dietro l'angolo nuove atrocità?

   No, non so se almeno questo potremo donare al Kosovo e alla Jugoslavia con le bombe, temo di no (ma spero sinceramente di sbagliarmi). Neanche una democrazia "compiuta", forse solo una democrazia a metà, una transizione con qualche capetto dietro l'angolo pronto a gonfiare il petto e a tirare fuori dal cassetto l'atroce retorica nazionalista del "noi" - "loro" che le bombe dell'Occidente avranno solo rinvigorito.
 Ho cercato di riempire di qualcosa le mie parole ma mi rendo conto che la mia è forse soltanto una disperata difesa dialettica di un patrimonio teorico che vorrei più percepibile e invece vedo ingabbiato, dimenticato, emarginato, calpestato...
E pensare che avevo l'ingenuità di sperare che il terzo millennio ci portasse una nuova consapevolezza di specie, una nuova attenzione rivolta all'essere e alla sua essenza. Alla sua struttura biologica e ai suoi bisogni spirituali e naturali. Scopro, invece, che all'homo sapiens servono ancora le bombe. 
A presto,

Zenone
Belluno, 26 aprile 1999
o Pubblichiamo una lettera della primavera scorsa di un pacifista travolto dalla guerra a un amico che - con grande tormento - aveva accolto l'intervento come ultima via per fermare il massacro di albanesi in Kosovo. Pensieri amari pensieri sulla difficoltà di individuare un'alternativa nonviolenta che tutavia era e resta l'unica strada per costruire un percorso oltre la spirale dei conflitti e delle persecuzioni etniche o di ogni altra natura
 

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Kosovo
24 marzo 2000

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