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L'educazione alla cittadinanza e all'incontro: la scuola non basta
Intervista con Adel Jabbar, sociologo ricercatore sull’immigrazione e le relazioni interculturali
 

di FRANCESCO MERZ
   

“Mio fratello che guardi il mondo
e il mondo non somiglia
mio fratello che guardi il cielo
il cielo non ti guarda
se c’è una strada sotto il mare
prima o poi ci troverà
non c’è strada dentro il cuore degli altri
prima o poi si traccerà
sono nato e ho lavorato in ogni paese
e ho difeso con fatica la mia dignità
sono nato e sono morto in ogni paese
e ho camminato in ogni strada del mondo che vedi” (Ivano Fossati)

   Così il cantautore Fossati  parla degli altri fratelli, di quelli che occupano uno “spazio consentito”, di quelli che meno si vedono e meglio è, di quelli che non hanno più una patria, un’identità, una progettualità, una possibilità. Emigrare è uno stato dell’anima.
   Per capire è opportuno definire un quadro storico dell’immigrazione in Italia. Lo facciamo con Adel Jabbar, sociologo ricercatore nell’ambito dell’immigrazione e relazioni interculturali.

   “ Nel primo periodo, che coincide circa con la seconda metà degli anni '70, i flussi immigratori sono impersonati soprattutto da donne, provenienti dalle Filippine, da Capo Verde, e dell'Eritrea. Seppure con specificità e motivazioni diverse, queste immigrate si inseriscono nel lavoro domestico e nel settore dell'assistenza privata, ambiti chiusi e con poche opportunità di incontro e di scambio. Questa componente, infatti, è rimasta per quasi un decennio pressoché invisibile, non riconosciuta all'interno di un fenomeno sociale come quello dell'immigrazione, e pertanto non regolamentata. Alcuni anni dopo, il processo viene ad assumere una maggiore visibilità attraverso l'arrivo massiccio di uomini provenienti in particolare dal Marocco e dalla Polonia, e successivamente anche dal Senegal, che la società locale incontra quotidianamente all'aperto, nelle strade e sulla porta di casa (ambulanti), in mezzo al traffico cittadino (lavavetri).”  

   Parliamo quindi di individui deboli, confinati in ghetti, isolati dal contesto relazionale e sociale. 

   “ Questi sono gli immigrati. Individui che di fatto vivono una condizione di debolezza assoluta, culturale, economica, sociale e giuridica, sia di partenza, sia nella società italiana dove vengono accolti. Qui, sono del tutto privi di una rete sociale e di una rappresentanza politica cui appoggiarsi. Qui, la percezione e la rappresentazione sociale si esprime come tolleranza se vengono considerati come forza lavoro, allarme sociale di fronte a singoli fatti di cronaca o a questioni di ordine pubblico, in alcuni casi diffidenza, xenofobia e razzismo, anche senza particolari motivi. Qui, la loro posizione nel settore economico-produttivo, per quanto essenziale, è comunque marginale e debole, confinata dentro settori professionali da sempre caratterizzati da una certa irregolarità, dove oggi il termine flessibilità diventa la parola d'ordine.”  

    Che fare?

   “I temi che oggi come oggi si sviluppano attorno alla questione dell'immigrazione investono due aspetti fondamentali. Uno è quello relativo alle condizioni materiali e sociali, l'altro riguarda la sfera linguistico-culturale. Oggi non si può più parlare di immigrazione in generale, all'ingrosso, tanto per intendersi. Così come ormai si concorda sulla necessità di andare oltre un'accoglienza di tipo emergenziale, per costruire canali di accoglienza e di risposta ai bisogni che tengano conto delle diverse specificità di cui sono portatrici determinate fasce sociali. La questione è dunque come riuscire a definire risposte adeguate e progetti diversificati, e quindi come individuare soggetti, strutture, competenze e risorse che siano in grado di gestirli. Si può, certo, anzi si deve partire dai servizi già presenti sul territorio, ma è necessario potenziarli per adeguarli alle diverse necessità che comunque comportano il rapportarsi a individui che parlano una lingua diversa e hanno acquisito consuetudini e pratiche differenti. Per questo è essenziale, in questi servizi ancor più che altrove, la figura del mediatore socioculturale, come figura di continuità fra i due contesti.” 

   Chi è il mediatore socioculturale, un termine un po’ ambiguo?

   “Fintanto che nelle varie amministrazioni non vi è la presenza di immigrati, così come peraltro avviene in altri paesi europei, in cui l’immigrazione ha una storia più lunga e consolidata., la figura del mediatore socioculturale è un passaggio obbligato. E’ come un ponte che collega una sponda all’altra. Può appartenere ad entrambi, ma non appartiene a nessuno. Su questo tema del ponte lo scrittore Ivo Andric dell’ex Jugoslavia ha scritto cose interessanti. In questa fase, che definirei ancora di esplorazione, potrebbe essere uno straniero bene inserito nel territorio, che è presente nei vari servizi,  che funge da tramite con gli immigrati, prestando attenzione alle condizioni sociali che sono specifiche alla condizione dell’immigrato, e alle peculiarità linguistiche e culturali di provenienza”. 

  In una società competitiva e corporativa non credi  che gli immigrati debbano farsi promotori di iniziative, di avere propri rappresentanti, in sostanza assumere un ruolo più attivo? 

  “Partendo dal presupposto che la condizione sociale dell'immigrato è una situazione di debolezza che va rimossa, una politica dell'immigrazione non può esimersi dal promuovere e sostenere iniziative atte a far acquisire, alle persone immigrate, conoscenze e strumenti per interloquire in una posizione di parità. Per questo è necessaria la valorizzazione della persona e della soggettività in un contesto sociale attraverso attività di formazione, sia come scuola di cittadinanza - intesa come avvicinamento a e appropriazione di fondamenti, potenzialità, opportunità e limiti della realtà italiana e locale - sia in termini di aggiornamento delle competenze professionali. E’ altresì evidente che gli immigrati  contribuiscano  a definire le regole del gioco". 

  Quale dovrebbe essere il ruolo della scuola?

  “Oggi la scuola è forse l’unico luogo dove gli immigrati, e nello specifico i loro figli, trovano attenzione, dignità, e quella “normalità” necessaria per sentirsi accolti. Ciò che spesso non avviene negli altri luoghi, dalla prima accoglienza al posto di lavoro, dove il dito viene posto maggiormente sugli aspetti problematici legati alla condizione di straniero. La scuola ha di fatto molte potenzialità, anche per il suo ruolo educativo che la dovrebbe portare naturalmente a seguire il cambiamento sociale e ad aprirsi alle pluralità più diverse. E’ comunque necessario incentivare una riflessione profonda su ciò che questo implica, per arrivare ad una interculturalità non convenzionale ma autentica, dove le diverse parti acquisiscano pari dignità e pari opportunità, e dove sia garantita una reale mediazione culturale. Studiosi anglosassoni parlano non a caso di pedagogia, educazione, politica antirazzista e antidiscriminazione come presupposti dell'interculturalità, dove non ci siano più una parte debole e una forte, ma due parti che interagiscono su un terreno di parità.” 

  La scuola da sola  non basta. Anche la Comunità ha bisogno di continua formazione e di educazione ai diritti di cittadinanza. Questo è un passaggio necessario per una politica lungimirante ed accorta in una società sempre più meticcia, mescolata, in movimento. Finché gli immigrati sono presenze invisibili, assenti nei luoghi in cui si parla di immigrazione e in cui si discute di problematiche del lavoro e del territorio in generale, finché non si attuano i meccanismi di rappresentanza e di partecipazione anche previsti dalla legge, è difficile pensare di innescare processi interculturali. La cultura è un processo in movimento, che ha bisogno di mescolarsi, di confrontarsi, di incontrarsi. 


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immigrazione
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