le interviste

Guccini: "Io, accanito democratico canto e scrivo per resistere..."
 

di ZENONE SOVILLA






   Bella casa, Francesco. Ma era così grande e bella anche ai tempi di «Via Paolo Fabbri 43»?

«No, allora era la metà. Poi  ho comprato l'appartamento accanto, dove stava il pensionato, quello della canzone...».

  - Partiamo da Guccini e l'America...

Sono cresciuto nel dopoguerra quando c'era la preponderanza della cultura americana, senza il filtro di una critica, per noi ragazzi soprattutto. Il cinema e la musica erano quasi completamente americani. C'era il grande sogno americano, per noi giovani. Coltivato anche avvicinandosi alla letteratura angloamericana. Io, per dire, già allora a scuola studiai inglese... E nel '65 cominciai a insegnare italiano all'università americana di Bologna, un mese all'anno, settembre, fino all'85. 

   - Poi, si evince anche da alcune canzoni, quel sogno americano ha cominciato ad appannarsi... 

Sì, mi sono allontanato, fino alla totale antipatia. 
All'inizio ero pieno di entusiasmo. Il culmine fu nel '69-'70 e poi poco a poco si è manifestato questo gap culturale che c'è fra loro e noi. Non sopportavo più un certo modo di essere, di comportarsi. Anche adesso quando vado a vedere dei film americani, proprio non sopporto certi clichè. 

    - Che cosa ti disturba di più?

Il modo di essere, il modo di comunicare, le frasi fatte che hanno. L'arrivismo, una grande facciata di ipocrisia... Sì, mi sono allontanato davvero moltissimo e lì all'università si sono quasi offesi perché non mi faccio più vedere. Chiaro, non bisogna mai generalizzare; però, mi sembra che queste cose che mi disturbano siano più rilevanti degli aspetti positivi. 

   - Negli anni dell'entusiasmo giovanile quali erano le tue frequentazioni letterarie americane?

Da ragazzino leggevo soprattutto Hemingway, Steinbeck, Coldwell... poi Kerouac, Master ma già a 18 anni. Poi moltissimi fumetti, a cominciare da Paperino di Barcks... 

   -E oggi quale riferimento intellettuale americano? 
No, ho abbandonato proprio. Fu una stagione finita col mio primo viaggio negli Usa nel '70, quello di "Pensilvanya Avenue". 

   - E i contatti musicali con gli americani?

Continuarono ancora per alcuni anni, poi basta. 

   - Veniamo all'Italia, dopo il grande gruppo dei cantautori con radici negli anni Settanta c'è stato il buio o poco più... Con la contestazione giovanile è tramontato anche l'effetto riproduttivo nella canzone d'autore.
   Tu hai sentito di recente qualche giovane che ti ha impressionato? 

No. Noto che sono tornati quasi tutti alle canzoni d'amore. Ricordo che nelle mie prime canzoni degli anni '60 l'amore era quasi inesistente. L'unico che mi piace e del quale diversi anni fa mi diedero una cassetta è Vinicio Capossela che mi sembra interessante come spiritaccio estroso. Gli altri che sono alla ribalta ora sono tornati proprio al pop. Il cantautore com'era inteso una volta non esiste quasi più, se non i vecchi cavalli che bene o male corrono ancora. 

   - Ma la fine della contestazione anni '60 e '70 può spiegare da sola questa parabola discendente? 

Se i miei concerti fossero frequentati da due-trecento persone della vecchia guardia, direi vabbè, è finità così... Invece, ci sono molti giovanissimi. La scorsa stagione ho fatto diversi concerti con i palasport sempre gremiti di giovanissimi. 

    - Sogni e frustrazioni sono gli stessi, oggi come trent'anni fa ma è passata la voglia di interpretarli? 

Può darsi... 

   - Forse nell'underground dei piano-bar c'è chi lo fa, ma le case discografiche lo ignorano... 

Questo non lo so, sono troppo lontano dai meccanismi. Certo, sono in molti a suonare e cantare, ma forse non c'è mai quel prodotto eccezionale che possa far breccia. D'altra parte, forse eravamo così anche noi... 

   - All'inizio, intendi? 

Ma sai, una canzone come "Auschwitz per esempio è un bel biglietto da visita, è stata veramente rivoluzionaria. E allora ti spinge, ti fa considerare uno interessante. Scrivi "Auschwitz" nel '64 e hai già fatto una specie di deflagrazione, ecco. 

   - Che poi fu cantata dall'Equipe ma...

Ma molto semplicemente non mi pagarono mai i diritti, anzi fui io - l'autore - a doverli per anni pagare a loro ogni volta che la eseguivo nei concerti. Adesso finalmente "Auschwitz"  è mia. 

   - Tu avevi 24 anni nel '64. Facevi l'università? 

Sì, lettere. Ora mi manca ancora la tesi. Anni fa decisi di farla ma quando mi presentarono il conto delle tasse arretrate da pagare, decine di milioni, lasciai perdere. 

   - Che cosa avresti voluto fare da grande all'epoca dell'università? 
Pensavo che avrei fatto l'insegnante e lo scrittore. La scrittura era il mio pallino. Poi le cose sono andate diversamete e sono felice di avere un mestiere che mi tiene fuori da tante beghe. So benissimo che la vita degli insegnanti è faticosa, piena di problemi. Il mio mestiere, preso poi con molta calma come faccio io,  mi permette anche di fare tante altre cose. Mi lascia libero. 

   - Quindi ritieni in qualche modo di esserti "liberato" attraverso questo percorso nella canzone d'autore... 

Questo sì, è stata veramente la fortuna della mia vita. Non lo pensavo. Certo, fin da bambino, per tradizione famigliare, amavo cantare. Ma presi la chitarra a 17 anni, feci un paio d'anni nelle sale da ballo e poi cominciai a rendermi conto che ero in un vicolo cieco. Così ripresi l'università, dopo il servizio militare. Poi la fortuna che ebbero le mie canzoni per i gruppi modenesi, l'Equipe prima e i Nomadi poi. I Nomadi non li conoscevo, venneno da me a chiedermi se avevo canzoni anche per loro. Loro fecero "Noi non ci saremo" e "Dio è morto", poi io ho fatto il mio primo disco. 

   - Ma tu quando hai inciso la prima volta "Dio è morto"? 

Mi pare nel disco dal vivo con i Nomadi, nel '79. 

   - È una canzone che diventò l'inno della contestazione sessantottina e oltre ma tu la scrivesti prima... 

Sì, attorno al '65. Si annusava che nell'aria c'era qualcosa... 

   - I riflessi del movimento americano? 

Sì, sicuramente, si sentiva che qualcosa doveva cambiare. Mi viene in mente quando vidi "Amarcord" di Fellini: la scuola raccontata nel film era identica alla mia scuola, c'era stata una guerra di mezzo e nulla era cambiato. Ma anche nei rapporti interpersonali, non sai quanto sia cambiato il rapporto con l'altro sesso dopo la scossa degli anni '60. Prima era difficilissimo, per dire, che prima del matrimonio si consumasse...

   - Ti mancano quegli anni, l'assenza di quella tensione ideale? 

Assolutamente no, tutto cambia. Certo, avessi trent'anni in meno sarei più felice...

   - Non ti delude la poca voglia di cambiare che c'è in giro? 

No, sono i tempi che impongono le loro ragioni. 

   - Ti aspetti qualcosa? 

Di andare a stare a Pàvana... (il paesino della famiglia di Guccini, sugli Appennini fra Emilia e Toscana, ndr) 

   - Se nel '65 scrivendo "Dio è morto" annusavi qualcosa, oggi che cosa senti?

Mah... ero anche più giovane. E poi il Duemila mi sconcerta un pochino. Sembrava così lontano invece è qui. Certo, non accadrà nulla di particolare. Poi, sai, si rimane indietro. Ci sono molti strumenti oggi che io a malapena riesco a manovrare, anche se scrivo al computer. Mia figlia che ha vent'anni sembra si occupi di elettronica dalla nascita per quanto ne conosce. Uno comincia a sentirsi un po in imbarazzo, legato alle sue abitudini. 

   - Anche ai tuoi ideali anarco-libertari?

Più libertari che anarchici. L'anarchia ha poco a che vedere con l'epoca in cui viviamo. Era di tutto rispetto nell'epoca di fine '800 inizio '900, più che in questa fine di secolo. Libertario sicuramente, ma non anche liberale e liberista come dice Pannella. Sono un accanito democratico. E sono in un certo senso anche moralista, forse un'eredità della cultura di montagna, chissà... 

   - Accanito democratico, in che senso?

Penso all'idea di partecipazione, alla democrazia come sistema migliore, sia pure lacunoso, per la gestione collettiva del potere. A volte mi viene rabbia, perché vedo molti miei coetanei che sono diventati cinici, che rifiutano il sistema, i partiti... Ma se si continua a far così non succede niente. Credo sia più costruttiva la partecipazione democratica. 

   - Un libertario potrebbe farti notare che l'evoluzione del pensiero anarchico oggi propone proprio una democrazia partecipata, le piccole comunità, un'economia di dimensioni più umane eccetera... 

Sì, lo so. Ma come si può pensare di arrivarci nel mondo in cui viviamo? 

   - Si può tendere a quest'utopia? 

Bisogna resistere, difendersi. 

   - In "Cyrano" scagli le tue frecce contro Berlusconi salito al potere. Oggi come giudichi la situazione politica italiana? Ti soddisfa più di prima? 

Vagamente. A me non dispiaceva il governo dell'Ulivo, tutto sommato, saltato per ragioni che mi sono ancora incomprensibili. Certo, c'è ancora un governo di sinistra ma è una sinistra misteriosa che non si sa bene che cosa stia facendo. 

   - Hai mai pensato di fare politica? 

Non, bisogna saperla fare, esserci tagliati. 

   - Però, quando scrivi le tue canzoni o altro, scrivi molto, si sa, hai una tensione al comunicare? 

Mah, non lo so. Scrivo molto, certo. Spesso qualcuno mi chiede qualcosa, articoli per una rivista, l'introduzione a qualche volume. Devo dire che ho abbastanza agilità a scrivere, quindi non mi costa molto tempo ed energia. Per un paio d'anni ho fatto anche il giornalista, quindi ho imparato che tutto si può ridurre, tagliare... e anche al contrario: sono particolarmente fiero di un'introduzione molto imbarazzante per un libro, sono andato avanti una cartella e mezza senza dire niente ma all'interessato era piaciuta molto, ero stato abilissimo a evitare tutti i trabocchetti... 
Ma comunicare veramente, per me, significa farlo solo con le canzoni e con i romanzi. 

   - Oggi come trent'anni fa? 

Beh, a volte si può calare un po' di tono perché non sempre le cose ti riescono come magari te le immagini. Però direi che c'è lo stesso trasporto di allora, magari con più fatica soprattutto per le canzoni: ormai quante ne ho scritte? Non è che io mi metta al tavolino e dica "oggi scrivo una canzone, mi è venuta quest'idea" come facevano i vecchi parolieri. Scrivo soltanto se ho degli stimoli forti e non è detto che ci siano tutti i giorni. 

   - Già, le tue canzoni. Tutti i concerti si aprono con "In morte di S. F." (o "Canzone per un'amica"). Come mai? 

All'inizio fu una scelta direi pratica. Fu ai primi concerti: in apertura c'è sempre un po' di emozione, che poi si stempera  col passare del tempo, come in un esame che se vedi che parti bene poi sei più fluido. Era una canzone che presentava poche difficoltà sia per l'accompagnamento sia per la voce e allora avevo scelto quella, che poi è diventata una specie di sigla di apertura. 

   - E qual è il retroscena della triste storia di questa canzone?

Stavo facendo il primo disco, a Milano. Arrivò Dodo Veroli, che era il produttore dei Nomadi, e mi disse che era morta Silvana, una nostra amica, in un incidente stradale con un altro conoscente modenese che si salvò. La canzone è tutta qui. 

  - Altre canzoni invece non sono "vere"?

Difatti, pochissime sono "vere"; per dire "Autogrill" non è vera, è un'invenzione. Però gran parte delle canzoni sono ispirate da un fatto o da una persona. 

   - Per te scrivere canzoni è anche una fuga, un via per scappare all'angoscia profonda dell'essere umano? 

Non lo so. Può darsi che a volte sia una specie di autopsicoanalisi. Alcuni canzoni sono la rielaborazione di avvenimenti. 

   - Ho l'impressione che nelle tue canzoni convivano una "lucida" angoscia esistenziale e una grande gioia di vivere... 

Può darsi che le due cose, infatti, coincidano. La gioia di vivere non è mai così gioiosa... Può darsi che anche scrivere canzoni sia un modo per superare, per dimenticare la fatica del vivere. 

   - La morte, che c'è in alcune canzoni, come la percepisci? 

 Da un lato, in maniera abbastanza naturale, perché si pensa sempre di essere immortali e quindi la morte è qualcosa che capita agli altri. Anche se a volte ti tocca da vicino e allora ti rendi conto. Ci penso e sempre mi dico sì, accadrà, ma molto lontano nel tempo e io non sono ancora stato messo alle strette da nulla. Quindi... 

   - Quindi l'idea della morte non ti ha influenzato dal punto di vista artistico? 

Solo sul piano, diciamo, letterario, non in quello reale. 

   - Alcuni intellettuali del nostro secolo hanno indicato la perdita della coscienza della morte, la perdita dell'idea del limite, come la genesi di molte distorsioni sociali e economiche nella grande competizione globale in cui si tende a trasformare la vita umana... 

Sai, se si vive in un paese piccolo, come a me capita spesso di fare a Pàvana, la morte è presente. Ogni anno se ne va qualcuno. Appena arrivo in paese vado a vedere il muro su cui vengono affissi gli annunci di morte. L'altra sera ero a Carpi, ho incontrato una vecchia compagna di scuola che mi ha fatto firmare il libro, la mia biografia, nel quale c'è anche lei. "Vedi quella là - mi ha fatto mostrandomi la foto -, te la ricordi la Claudia? E' morta, poverina". E con lei sono tre i compagni di classe morti. Allora, cominciano a morirti gli amici di qua, gli amici di là... E' un fatto naturale, certo, che morire verso i sessant'anni non è piacevole, si spera di andare avanti nel tempo. C'è un periodo nella vita in cui vai solo ai matrimoni, poi ce n'è uno in cui hai solo funerali. Insomma, la morte è presente, che si voglia pensarci o no.

   - "Non voglio rassegnarmi a essere cattivo", dice Cirano nella tua canzone. E' come se tu lasciassi sempre aperta la porta di un mondo "altro" che credo sia un po' la speranza che molti trovano nel tuo mondo artistico, quel di più portato dalle tue canzoni. Pensi sia così? 

Sì, penso che ci sia questa cosa. Certo, c'è anche uno iato fra quello che uno è e come altri lo imamginano. Può darsi che ci sia anche questo immaginario che, però, potrà cambiare da persona a persona. Non so come mi possono vedere questo o quell'altro o quell'altro ancora. Anzi, a volte non ci penso perché mi imbarazza. 

   - Ho la sensazione che qualche meccanismo collettivo si possa individuare esaminando la percezione sociale che si ha di te come di altri cantautori... 

Sicuramente. Faccio un esempio banale: quando mi invitano da qualche parte o vengono a trovarmi, portano sempre del vino... sono un discreto bevitore ma non è che sto attaccato alla bottiglia dalla mattina alla sera. Però, questo fa parte dell'immagine. Bevo un po' sul palco non per vezzo ma perché è una simpatica necessità. 

   - Si può dire che per chi ha vissuto gli anni della contestazione e altrettanto per i giovani, le tue canzoni oggi siano diventate un po' un altro luogo di aggregazione, di espressione di una voglia di altro. Non c'è più la piazza, almeno c'è Guccini?

Non credo che ci sia molto questa componente. 

   - Ma in chi va ai tuoi concerti c'è una grande adesione alle parole che ascolta, alla simbologia di quelle canzoni. Un sentire comune cresciuto negli anni... 

Sì, questo sì. 

   - Insomma, andare ai tuoi concerti, ascoltare i tuoi dischi, per molti credo significhi anche recuperare un mondo di riferimento ideale. Le canzoni (le tue, anche quando sono più introspettive che "impegnate", quelle di De Andrè e di pochi altri)  tengono accesa un'utopia che ti può aiutare a andare avanti, a incontrare gli altri, a riflettere, a sperare... 

Non so che cosa dirti.

  - Come mai sei scettico? Ti sembra troppo? 

No, ma può darsi di sì. Ma sono tantissime le componenti... 

   - Preferisci essere apprezzato come musicista e poeta? 

Come autore di canzoni. I miei pezzi politici, in realtà, sono una piccola parte. Nella mia concezione, il cantautore racconta un po' se stesso continuamente, quindi racconta un po' tutto, sia la parte propriamente  politica sia la parte esistenziale. Io ho guardato soprattutto la mia parte esistenziale, la mia vita quotidiana, che certo si intreccia con la situazione del mondo in cui vivo. 

   - Hai anche raccontato storie, come nella Locomotiva... 

Quella lì è una canzone che è diventata politica ma non voleva esserlo... 

   - Però è evidente che tu simpatizzi per quel ferroviere anarchico... 

E' ovvio, lo si fa sempre per i propri eroi. 
   - Ecco, allora torniamo un attimo all'idea delle tue canzoni come "luogo dell'utopia", tensione al non luogo di un mondo più giusto: hai presente quando ai concerti arrivi a celebri strofe della Locomotiva come "trionfi la giustizia proletaria", ecco come spieghi il grande trasporto del pubblico in quei momenti, spesso con cori, applausi, sventolio di bandiere. 

Vedi, so di gente di destra venuta al cocnerto che si è lasciata trascinare dalla canzone. Il musicologo Roberto Ledi l'ha definita la più bella canzone popolare del dopoguerra. Infatti, fu scritta volutamente con lo stile e il lessico della canzone popolare. Del resto, mi è rimasto dentro un modo di cantare che forse deriva dal canto popolare, per esempio, il mio sempre cercare la "terza" sotto quando sono in fine di frase. Ma, insisto, la parte politica è piccola rispetto al resto della produzione. Mi piace pensare che certe emozioni vengano più da canzoni come "Autogrill", "Bisanzio", "Scirocco", che sono sicuramente fatte molto meglio, dal punto di vista artistico, di brani come  "Auschwitz" o "Dio è morto", questo al di là del significato che possano avere. 

   - Ci sono canzoni che non ami più cantare? 

"Ofelia" per esempio non l'ho mai rifatta, Sono parecchie. Stamattina mi sono alzato e misteriosamente canticchiavo "La collina", però sicuramente è una canzone che non farò più. 

   - E inedite che invece ami? 

Sono molte. C'è n'è anche una incompiuta, del '69, su Che Guevara, che ho cantato proprio l'altra sera a un concerto vicino a Bergamo, perché avevo visto magliette e bandiere con Che Guevara. C'erano due della Emi con gli occhi fuori delle orbite che facevano din-din-din "La incidiamo, dai"...

   - Nella vita hai la battuta pronta come ai concerti? 

Di solito sì. Mi piace scherzare. Non sono un tipo schivo... 

   - A proposito, non è che da quando hai cantato "Via Paolo Fabbri 43" qui fuori c'è la coda di ammiratori che ti vogliono salutare? 

Ah, a volte sì... Soprattutto quando c'è qualche giorno di festa, la gente viaggia, allora vengono. Anche  a Pàvana vengono. Di solito me la cavo con poco, se sto lavorando, saluto, faccio un autografo. A volte mi fermo anche a parlare. Per esempio, ci sono tre coppie, due di Genova - che fra di loro non si conoscevano - e una di Belluno, che vennero una volta a salutarmi a Pàvana e adesso ogni estate vengono su, chi una settimana chi un mese, chi pensa di prendersi una casa lì. 

   - Per chi vuole sentirti non è che le occasioni siano moltissime: quanti concerti fai all'anno? 

Non tanti. D'estate non canto. Una dozzina in tutto. Una cosa tranquilla. 

   Il resto del tempo? 

Scrivo, leggo. Leggo molto. 

   - Che cosa leggi? 

Un po' di tutto. Romanzi, gialli, libri di memorie. Ora sto leggendo un finlandese Artto Pasiilina 
  - E poi hai il gusto delle ricerche linguistiche... 

Dedico molto tempo a scavare nella lingua, nei dialetti. Quest'anno è uscito il mio vocabolario pavanese-italiano. 

   - Insegni ancora? 

Ogni tanto mi chiama l'università, faccio qualche lezione. Ho fatto una serie di lezioni sui mulini a ruota orizzontale nel Pistoiese, sulla poesia improvvisata; faccio incontri sui miei libri. 

  - Le tue frequentazioni, gli amici più amici? 

Sono quelli che vedo ogni sera, verso mezzanotte, alla trattoria qua sotto. 
   - E fra i cantautori? 

Mah, sì e no. Siamo un po' slegati. Lolli, che abita a Bologna, non lo vedo quasi mai. Ogni tanto vedevo De Andrè ma non eravamo propriamente amici. Le occasioni per vedersi sono soprattutto quelle del Club Tenco. 

   - Con De Andrè sentivi anche una vicinanza ideale? 

Stessa generazione, stessi riferimenti musicali alle spalle, credo. Lui di famiglia alto borghese, io di famiglia piccolo borghese di origini artigianali (i miei nonni erano mugnai). Il fatto generazionale era importante. C'erano stima e rispetto reciproci. C'era il legame delle idee libertarie. ... Ma lui, appunto, veniva da un retroterra culturale diverso che ci divideva. Questo è un po' quello che mi caratterizza fra i cantautori italiani: sono l'unico ad avere origini nella campagna, nella terra. 

  - Tu ami i romanzi gialli. Ne hai anche scritti, insieme con Loriano Macchiavelli. Prima "Macaronì" e poi "Un disco dei Platters". Ma questi sono racconti che vanno ben oltre il semplice schema poliziesco, sono anche percorsi nella storia...

   Certo, perché il giallo è un contenitore. Può essere un semplice poliziesco all'americana oppure avere risvolti diversi: nel nostro caso, per esempio, si parla di tradizioni popolari, di folklore, di tante cose. Il primo parlava dell'emigrazione... 

  - Ne scriverai ancora? 

Stiamo già lavorando al terzo. 

   - Sempre con lo stesso maresciallo? 

Sì, qui sarà in pensione, nel '70. Avrà quindi sessant'anni, la mia età attuale, farà delle indagini a Bologna. 

   - Ora stai anche lavorando al nuovo disco. C'è un filo conduttore? 

Le prime due si chiamano una "Autunno" e l'altra "Inverno", forse le stagioni, non so... Ci sarà una canzone dedicata a mia figlia, che studia a Milano e solo da poco ha scoperto veramente il suo babbo dal punto di vista artistico. Ci vuole ancora tempo, credo che andrò in studio alla fine dell'autunno. 

   - Sarà l'album del 2000: che ne dici dello spiritualismo un po' esoterico di fine millennio?

Mah... sono un po' tradizionalista in queste cose. Io non sono credente ma nasciamo cattolici e non capisco perché uno debba andare a cercare la sua spiritualità nel buddismo, che è un altro mondo, siamo lontani come il giorno dalla notte; la quiete del Tibet... Come una volta mi facevano ridere i punk bolognesi che poi andavano a casa a mangiare le tagliatelle della nonna. Penso ci siano molte illusioni che riempiono un vero vuoto spirituale. Molto spesso, poi, sono i divi a fare scelte di un certo tipo. Si cercano risposte... 
Io, per fortuna, continua a farmi domande e a essere curioso. Certo quando sono a Pàvana, nel verde, e sto così bene... 
 
 
 

Questo Il colloquio è avvenuto
a Bologna in via Paolo
Fabbri 43 nel maggio 1999
All'inizio del 2000 è uscito
il nuovo disco di Francesco Guccini
(nella foto, Guccini nel suo studio)
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