copertina notizie percorsi interviste libri musica inchieste calendario novità scrivici
i percorsi

Novecento letterario: il vuoto oltre Calvino...
Parla Alberto Asor Rosa: "Dopo di lui si volta pagna. E oggi gli scrittori guardano altrove"
 


di MAURILIO BAROZZI

   Calvino. Poi: il nulla. La letteratura italiana del Novecento finisce qui. Pardon non solo quella italiana, ma tutta la occidentale. Calvino è il ponte per il Duemila e «Le città invisibili», classe 1972 (3 novembre, per chi ama le date) sono nello stesso tempo Requiem e Alleluia. Morte e rinascita. Fine di un periodo e inizio di un'altra pagina.

   È netto, Alberto Asor Rosa, nel suo schema. Il suo incedere lento, a maiuscole pause, conferisce grande peso alle sue parole, non ne va persa una. Alcune sono anche marcate dal braccio sinistro che si alza lento, quasi stanco, e con l'indice ne tratteggia la portata. Un professore che sottolinea sulla lavagna concetti particolarmente importanti. Ma davanti non c'è la lavagna: centinaia di persone (molti professori) stipate. Mute.

   Poi alla fine ti volti. Le riguardi, quelle parole. E ti accorgi che tra le pietre miliari che il Professore ha indicato, le tue mancano; non tutte, d'accordo. Però molte. Carlo Emilio Gadda, Grazia Deledda, Federigo Tozzi, Ennio Flaiano, Dino Buzzati, per dire. «È il difetto dello schema», precisa Asor Rosa.
    Dal 1972, lo schema si chiude. Fine del Novecento, via tutto. Via Celati, via Meneghello, via Benni, Tondelli, Vassalli, Baricco, De Carlo. «Quelli - spiega citando per tutti Aldo Nove - non hanno guardato indietro, ai loro predecessori. La loro opera non ha marcato un tratto di continuità o di rottura rispetto agli autori italiani precedenti. Si può dire che abbiano fatto un'analisi orizzontale, guardando più alla letteratura straniera (americana) o al cinema. Non c'è traccia, in questi autori, di radici ottocentesche». Quei contatti sono stati tagliati; la linfa che arrivava dal secolo prima ha smesso di irrorare: le foglie dell'albero Novecento sono cadute. Tutte. Adesso è Duemila.
   Calvino, è sega e ponte. Il tratto di stilografica che cuce lo schema del Novecento al futuro (già presente). Un Novecento che rilancia l'Italia nel panorama letterario dopo aver pagato pesantemente un ritardo nelle tematiche rispetto all'estero; dopo «un paio di secoli di subalternità con il resto d'Europa», dice testuale Asor Rosa.
É vero: il classicismo (nella nostra penisola interpretato principalmente da Carducci, Pascoli, D'Annunzio) penetra nel Novecento italiano, amplificando i ritardi che si sono accumulati nel corso del '700 e nell'800. All'estero, il classicismo, si era già fermato. Molto prima.

   Eppure si intravede la svolta. Matura.

   Eccola: tra il 1900 e il 1920 (il primo dei quattro grandi periodi in cui Asor Rosa suddivide il Centenario) registra la fine del verismo e del naturalismo. Due tendenze contrapposte prendono forma. Testimoniate da Croce da una parte (i conservatori); Marinetti e Palazzeschi dall'altra (gli innovatori). Tra queste due alternative si insinuano Pirandello e Svevo che, assieme al «matto e solo matto» (come lo definì Saba) Dino Campana dei «Canti orfici», si ispirano «alla nozione della crisi, alla rottura della concezione classica di scrittura», introducendovi l'elemento soggettivo «denudato da ogni orpello letterario». É arrivata, la svolta. L'Italia è tornata in Europa.
Poi, alla fine degli anni Venti, stop. Si cambia registro. Fino alla fine dei Trenta. Complice anche la guerra, muta l'ambiente letterario, quell'idea di cultura. Una frattura netta. Si fa strada una tendenza atiavanguardistica e antimoralistica che tende a considerare la letteratura come «bastante a se stessa». Svincolata dall'impegno sociale e civile, «una letteratura che non si carica delle responsabilità del tempo», dice Asor Rosa, quasi con sofferenza, fatica. Lo vedi che non è convinto di tali operazioni. Si sforza di ribadire che questa è una ricostruzione analitica, basata su una linea interpretativa alla quale non appartengono i suoi giudizi di valore. Eppure trasudano. Per lui la letteratura è impegno, ricaduta sociale, opera collettiva: manifesti e riviste. «Qualcuno ha detto che la letteratura del Novecento è letteratura delle riviste. Ha ragione», ammette. E la rivista è proprio il veicolo del collettivo, contrapposta all'azione intimistica, alla dimensione esclusivamente artistica, primordiale. Nello schema del Professore, questo secondo momento è il periodo dei Cardarelli (citato prima dei Nobel Montale e Quasimodo), Saba, Montale e Quasimodo, appunto. Pure Mario Luzi. Ma scivolano come l'acqua sull'impermeabile cerato, questi momenti, nella ricostruzione di Asor Rosa. A Montale dedica esclusivamente sette lettere nell'ambito di una comunicazione di quasi due ore: quelle sette lettere dell'alfabeto che compongono il suo cognome. Montale è genovese; ha lavorato a Firenze e Milano: probabilmente stava fuori dai suoi circuiti di riferimento, intrisi di romanità (finanche a citare Cardarelli, di Tarquinia, prima dell'Eugenio della seppia) si era allontanato dal concetto di impegno sociale e politico: di questo, Asor Rosa gli ha presentato conto.

   Un'altra guerra e lo scenario cambia volto. 

   La letteratura smette di essere assolutizzata e riprende vigore il realismo della ricostruzione. Non si tratta semplicemente di un ritorno. Acquista particolare efficacia, nei movimenti intellettuali dell'epoca, il linguaggio comune delle arti. Dopo che già l'esperienza futurista aveva avviato l'ipotesi inter-disciplinare, il periodo realista ne rafforza il concetto: «La letteratura è una voce in un concerto che si vorrebbe il più possibile concorde». Riprende vigore, con questo frammento, la trattazione di Asor Rosa. Non tanto nei toni, sempre composti, severi e austeri. Quanto nei tempi, nei richiami. Quello al verismo e al naturalismo che ripropongono con potenza prorompente i valori etici e civili. L'impegno, la ricaduta sociale. Cesare Zavattini, come dimenticarlo, il teatro di Eduardo de Filippo, ma soprattutto Elio Vittorini. Quello della «Conversazione in Sicilia», che s'interroga - in un fitto dialogo con la madre - sul dolore del mondo. Ma più ancora quello che ha pubblicato, assieme a Enrico Falqui («allora più famoso di Vittorini», dice) l'antologia «Scrittori Nuovi».

   All'inizio degli anni '60 decolla l'ultimo periodo dello schema, quello che Asor Rosa definisce sperimentalista. Nuove tecniche di scrittura si affacciano all'orizzonte e i tre principali rappresentanti di quest'epoca sono individuati in Pasolini, proiettato in quell'agone letterario proprio dal linguaggio - dapprima giudicato osceno - dei suoi romanzi romani, dialettali; nella neo-avanguardia di Edoardo Sanguineti - che sviluppa la sua opposizione alla società borghese (fu deputato in Parlamento) anche attraverso la contestuale sovversione delle regole letterarie - e del suo Gruppo '63; infine Italo Calvino, con il quale vengono recise di netto le radici con l'800, chiudendo così l'esperienza del Novecento letterario. Le sue operazioni di metaracconto, unite al polemico richiamo alla concezione consumistica dell'esistenza («La speculazione edilizia» e, soprattutto, «Le città invisibili») hanno costituito, per Asor Rosa, il punto d'arrivo della letteratura occidentale del Novecento.
    Dopo di lui il nulla. O, quantomeno, altro: il Duemila.


o Abbiamo incontrato Alberto Asor Rosa a Rovereto (Trento)
nel quadro 
di un seminario 
sui percorsi del Novecento letterario italiano
(7 aprile 2000)
 


La verbosità culturale
tutti i presenzialisti
attorno al maestro.
Una sera a Roma
con Asor Rosa
di ROBERTO
CARVELLI



 

copertina
le notizie
 i percorsi
interviste
i libri
la musica
inchieste
calendario
le novità