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Classe dirigente e natura umana

Tempo fa ero a un dibattito con un esponente di un partito politico di questi tempi piuttosto in voga in Italia. Tema: la tendenza pluriennale nelle azioni economiche e politiche che genera danni seri alla salute umana e all’ambiente naturale. Il relatore ha usato più di una volta il vocabolo «selvaggio» per additare i cittadini, che a suo dire reagirebbero malamente all’introduzione di correttivi radicali, per esempio in materia di riduzione del traffico a motore e di transizione convinta verso modelli di mobilità sostenibile.

Ascoltando le perplessità del mio interlocutore, mi venivano in mente quegli amministratori locali che insistono, per esempio, a voler bruciare i rifiuti in enormi e costosissimi impianti di incenerimento. Mentre loro rimangono per anni ancorati a quella «comoda» idea di smaltimento, la popolazione li smentisce nei fatti, facendo impennare la raccolta differenzia verso percentuali da primato. Funziona non appena il «sistema» mette i cittadini nelle condizioni di partecipare anziché rendere loro la vita «facile» perché sono dei «selvaggi». Chi ama gli inceneritori può scoprire che con una gestione seria non rimarrebbe quasi niente da bruciare, anche grazie alle politiche sulla riduzione degli imballaggi e ai moderni impianti di recupero finale che riciclano pure il 90% del residuo domestico rimasto fuori giocoforza dalla differenziata.

Il discorso vale per diversi fronti di criticità dell’attuale paradigma socioeconomico, ispirato alla massima deregolamentazione in chiave privata: l’occupazione del suolo (cementificazione diffusa), l’impatto territoriale delle produzioni industriali (varie forme di inquinamento) le tecniche intensive utilizzate in agricoltura (largo uso di veleni) eccetera.
La popolazione, se bene informata e motivata (oggi spesso accade il contrario), mostra in realtà una spiccata attitudine a modificare i comportamenti, specie se vi intravede nuovi margini di benessere concreto. Per esempio, usando la bicicletta per andare al lavoro, posso scoprire che il mio fisico si rinforza, che il mio sguardo sul paesaggio è più profondo, che guadagno migliori relazioni sociali strada facendo.

Le potenzialità dei progetti di inclusione che intaccano uno status quo deleterio sono innumerevoli: in città come Copenaghen oltre il 30% degli spostamenti urbani avviene ormai in bici e la gran parte del resto con i mezzi collettivi; anche nella provincia italiana si registrano esperienze mature su diversi versanti, ma solo eccezioni in un panorama scarno. La sensazione, in effetti, è che in Italia la classe dirigente sia incline a utilizzare la leggenda del «popolo selvaggio» come alibi per difendersi dalle accuse di incapacità riformatrice.

Una paffuta élite autoreferenziale spesso attribuisce alla generalità dei cittadini la propria pigrizia.

Certo, non v’è dubbio che si ha gioco facile, dopo vent’anni di bombardamenti culturali all’insegna dell’individualismo ipercompetitivo liberista del si salvi chi può, mors tua vita mea.

Reaganismo, buchismo, blairismo, berlusconbossismo, rutellismo, veltronismo, ultimamente il renzismo e così via neoclassicheggiando, hanno variamente contribuito sul fronte politico all’instaurarsi di un autoritarismo del mercato (eppure è ovvio che un regime di massima concorrenza può indurre a cattive azioni pur di «sopravvivere», per citare solo uno dei numerosi fallimenti sistemici che generano gravi costi sociali).

Tuttavia, forse per miracolo, improvvisa consapevolezza di autodifesa di specie o perché in fondo all’animo umano c’è davvero dell’altro, quei «selvaggi» dei cittadini mostrano tuttora una rimarchevole e sorprendente disponibilità ad aiutarsi, consapevoli che la «salvezza» sta nel perseguimento di un progetto di «bene comune» contrapposto alle sirene dell’egoismo del tutti contro tutti o all’ignavia di cerchie politico-intelelttuali senza idee forti e abbagliate dal fascino del business, tanto che si fare se… homo homini lupus?

Per associazione, risulta illuminante anche su questi risvolti concreti il saggio «Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana» di Marshall Sahlins (Elèuthera, 127 pagine, 12 euro). L’autore, nato a Chicago nel 1930, decano dell’antropologia contemporanea, mette a nudo un drammatico pregiudizio occidentale cui probabilmente si possono far risalire molti dei nostri guai: che in ognuno alberghi una bestia famelica.

Altro che incoraggiare il mutuo aiuto: l’obiettivo è tenere il «mostro» sotto stretto controllo istituzionale. Lo studioso parte da un excursus storico, dal militare e letterato greco antico Tucidide al celebre filosofo britannico Hobbes, per radiografare un pensiero convergente sulla concezione degli esseri umani come soggetti fisiologicamente portati a scontrarsi per perseguire i propri interessi personali, avendo ognuno parimenti diritto a ciò che la Terra offre in misura insufficiente per tutti.

Da qui la mediazione della ragione e l’approdo a regimi «volti a frenare il riottoso animale umano». Osserva Sahlins che il dominio sovrano come l’equilibrio repubblicano si collocano entrambi dal lato culturale del dualismo natura-cultura che è alla base di questa intera struttura. In altre parole: «La natura è il regno della necessità; è il presociale e antisociale egoismo con cui la cultura deve fare i conti», un’antitesi «tanto vecchia quanto i modelli di governo che su di essa si fondano».

Sahlins menziona anche Kant: dicendo che l’uomo è un animale che ha bisogno di un padrone, «era al contempo costretto a riconoscere che, essendo il padrone esso stesso un animale bisognoso di un padrone, la questione era irrisolvibile».

Il saggio, dopo un ampio capitolo sulla Grecia antica, affonda un colpo osservando che le filosofie della natura umana fra l’altro ignorano totalmente i legami di parentela. «Ciò che noi consideriamo come natura umana rimanda principalmente alle inclinazioni di adulti (borghesi) maschi, il che generalmente esclude le donne, i bambini e gli anziani e ignora altresì il principio universale della società umana, ovvero la parentela».

Sahlins, citando una serie di pensatori, scrive che in questa prospettiva prende corpo una relazione con l’altro che è intrinseca alla propria esistenza. Insomma, «l’alterità, tanto nella parentela quanto nelle relazioni con il cosmo in generale, è una condizione che rende possibile l’essere».

Riferendo resoconti etnografici da svariate aree del mondo, l’autore spiega: «Chiaramente, in queste società il sé non è l’individuo, essenzialmente un lui circoscritto, unitario e autonomo come noi lo conosciamo nella nostra teoria sociale, ma non nei nostri rapporti di parentela. L’individuo è piuttosto il luogo di molteplici altri sé a cui lui (o lei) è unito in reciproche relazioni esistenziali». L’autore accompagna il lettore in un affascinante percorso storico, dalla monarchia medievale alle repubbliche rinascimentali, ai padri fondatori americani (con la loro «cupa visione» della natura umana), fino alla «rotazione morale di 180 gradi» realizzatasi compiutamente nel XX secolo, con la riconsiderazione dell’egoismo: da espressione della naturale malvagità umana a motore di tutto. «La particolare attenzione dell’individuo per il proprio tornaconto si è così rivelata, non la nemesi, ma la base stessa della società, nonché la condizione necessaria per la ricchezza delle nazioni (…) Ormai il felice difetto dell’economia e della società, l’egoismo, era diventato un tratto rispettabile della cultura».

Contemporaneamente, altre comunità umane, dall’Africa all’Asia, conservavano una concezione (antitetica a quella occidentale) nella quale lo stato originario è l’umanità da cui sono prodotte le diverse forme naturali: «Se l’uomo ha realmente una presociale e antisociale predisposizione animale, come è potuto accadere che così tante popolazioni non se ne siano accorte e siano sopravvissute nell’ignoranza?».

In conclusione, Sahlins, dopo aver ricordato il funesto contributo di Freud sull’altare della presunta bestialità umana, si richiama alle popolazioni che – diversamente dall’Occidente – considerano la cultura come lo stato originale dell’esistenza umana e la biologia come lo stato secondario e condizionale: «Molto più antica dell’Homo sapiens, la cultura è stata una condizione fondamentale per lo sviluppo biologico della specie. È opinione biologicamente accreditata che il cervello umano sia un organo sociale che si è evoluto nel Pleistocene [l’epoca geologica compresa fra due milioni e mezzo e 11 mila anni fa, ndr] grazie alla “pressione” a instaurare relazioni sociali relativamente estese, complesse e solidali, che con tutta probabilità includevano tipi di persone non umane».

Dunque, conclude l’antropologo: «Lo stato di natura “è qui”. Poiché la cultura è la natura umana. (…) Siamo nati come “anime annacquate” e nel bene e nel male potremo manifestare la nostra umanità a partire dalle esperienze fatte nel contesto di uno specifico modo di vita. […] La mia modesta conclusione è che la civiltà occidentale sia stata fondata su un’idea erronea e perversa di natura umana. E questa perversa concezione sta mettendo a repentaglio la nostra stessa esistenza…».

Zenone Sovilla

Zenone Sovilla

Giornalista e videomaker, creatore di Nonluoghi nel 1999, ha lavorato in Italia e all'estero per giornali e stazioni radiofoniche. È redattore Web del quotidiano l'Adige.

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