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Nell’incubo italiano

Che dire di un Paese che di fronte alle emergenze economiche e al dramma ecologico che causano vittime crescenti, si trastulla con le leggi ad personam, le “grandi riforme”, l’impunità garantita ai politici (i primi che dovrebbero dimettersi se combinano guai con la giustizia!) con tanto di giornali che titolano (“Marameo ai giudici”)?
Che dire di larga parte della cosiddetta opposizione che si prepara a sedersi al tavolo del dialogo per parlare d’altro, in un Paese in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri?
In cui la mobilità sociale è inceppata e la gente si fa strada principalmente con modalità inconfessabili o per via ereditaria? Con tutto l’intreccio di ricatti e amnesie civili che ne consegue. Che dire di un Paese in cui i socialdemocratici non sanno più fare i socialdemocratici dopo aver rincorso per anni qualche posto nel salotto buono “neoliberista” di chi sfrutta la gente che loro, socialdemocratici, dovrebbero difendere? Che dire di un Paese in cui i liberali sono una presenza nominale, impalpabile, che poi scopri che si preoccupa innanzitutto di tutelare i privilegiati benestanti e di non disturbare il Papa con robe come il crocifisso in classe o la pillola abortiva che risparmia un po’ (solo un po’) di dolore alle donne?
Che dire di un Paese in cui un’opposizione senza idee, in stato confusionale, contribuisce a enfatizzare il vuoto politico di un movimento che miete consensi sull’onda del razzismo e di una inesistente emergenza criminalità? Troppo comodo ingigantire le capacità degli avversari per coprire la propria inadeguatezza. “Ora sono loro che vanno ai cancelli delle fabbriche, nei quartieri, nelle sezioni”, si dice; ma a fare che cosa? A spiegare che il problema di tutti i mali operai sono i neri? che il padrone che licenzia è buono ma la Cina lo strozza? A dire che paghiamo troppe tasse che vanno al Sud sprecone e mafioso? Che così per i nostri Comuni i soldi sono finiti? Che è un bel guaio non poter dare sempre la precedenza “ai nostri”, nel lavoro, nella casa, a scuola? Che con le ronde la tua vita sarà tranquilla, finalmente serena?
E giù chili di voti (che a contar bene poi, non crescono gran che in termini assoluti ma solo in percentuale, complice l’astensionismo altrui).
Per favore. Basta favole.

È tutto talmente agghiacciante che sembra un’allucinazione e ti lascia senza parole.
Allora, facciamo parlare un po’ il vecchio [url=http://it.wikipedia.org/wiki/Thorstein_Veblen][b]Thorstein Weblen[/b][/url] (1857 – 1929), potrebbe ispirarci qualche riflessione con la sua teoria della classe agiata.
E marameo a professori, giornalisti, politici, consulenti, veline, commentatori e esperti vari di parole mai scomode per i potenti.

Qui sotto, troverete la quarta di copertina e il sommario dell’edizione Einaudi de “La teoria della classe agiata”, scritta nel 1899.
In inglese è disponibile anche il [b][url=http://socserv2.mcmaster.ca/~econ/ugcm/3ll3/veblen/leisure/index.html]testo integrale del libro[/url][/b].

All’origine di ogni forma di proprietà c’è il desiderio di emulare la ricchezza altrui; case, vestiti, servitú soddisfano innanzitutto il bisogno di considerazione sociale di chi li possiede, ciò che incrina la fiducia nella competizione sociale ed economica. Stabilita la tesi della cumulabilità dell’emulazione, Veblen l’applica ai meccanismi di distribuzione della ricchezza, dimostrando che, invece di migliorare la situazione delle classi povere, «la lotta degli egoismi» e la rivalità tra ricchi accrescono la concentrazione di ricchezza e potere in quelle privilegiate.

A cent’anni dalla sua uscita, La teoria della classe agiata di Veblen conserva una notevole importanza. Il libro si presenta come un trattato economico classico, dove le questioni tradizionali (consumo, produzione, distribuzione del reddito) sono subordinate al tema della crescita industriale della nazione: via via che l’industria si specializza e aumenta la ricchezza complessiva, aumentano coloro che possono vivere senza lavorare. E costoro, mantenendo gente che a sua volta non lavora, immobilizzano risorse che potrebbero essere impiegate nel processo industriale. Applicando un modello di ricostruzione storica «a ritroso», l’autore mette in luce il carattere retrogrado delle società moderne, indicando diversi esempi di sopravvivenza barbarica presenti nella grande aristocrazia americana.

[b]Indice – Sommario[/b]

Premessa di Franco Ferrarotti.

Introduzione di Francesca Lidia Viano

Cronologia della vita di Thorstein Veblen

Prefazione di Charles Wright Mills

Prefazione dell’autore

I. Preliminari

II. L’emulazione finanziaria

III. L’agiatezza vistosa

IV. Il consumo vistoso

V. Il livello finanziario di vita

VI. I canoni finanziari del gusto

VII. L’abbigliamento come espressione della cultura finanziaria

VIII. L’esenzione industriale e il conservatorismo

IX. La conservazione delle caratteristiche arcaiche

X. Moderne sopravvivenze della virtú del coraggio

XI. La credenza nella fortuna

XII. Le pratiche devote

XIII. Sopravvivenze dell’interesse non antagonistico

XIV. Gli studi superiori come espressione della civiltà finanziaria

Bibliografia.

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Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

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