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Sotto il burqa, niente

di Martita Fardin

Parte alta di Via Milano, zona di confine tra il centro e la periferia di Como. Qui i comaschi non ci abitano più. Gli appartamenti vanno via per poco.
Qui è un’isola multirazziale, terra- territorio di moltissimi filippini, maghrebini, turchi. È il nuovo ghetto comasco anno 2005, dopo il decrepito arcinoto Bronx di Via di Vittorio, che rifiuta l’integrazione ed è ricambiato con la stessa moneta. Qui le donne passeggiano per le strade con il burqa o il chador, muovendosi silenti tra ristoranti e negozietti di prodotti etnici e la macelleria islamica. Quell’imbarazzante copri-femminilità, che porta il nome di burqa, le fa acquistare visibilità agli occhi dei passanti frettolosi, mentre, quando queste donne stanno nelle loro abitazioni, ritornano ad essere creature invisibili e dimenticate. I commenti, sussurrati o sparati con acrimonia a denti stretti per la via dalla gente che per caso sbaglia fermata d’autobus o indirizzo di negozio,
suonano più o meno così: “ Poveracce! Ma che poveracce sono contente di portare il burqa, la legge italiana dovrebbe vietarlo!” Commenti di pena o scherno seguono a ruota libera. Ma l’abuso verso la loro individualità femminile si riduce all’amletico quesito burqa o chador sì? Burqa o chador no?
A parlare, raccontare, spiegare, potrebbe essere una di loro. Vincendo barriere di reticenza, pudore, sospetto, paura omertà, una giovane donna ha accettato di parlare.
Non è molto certo, ma è forse il primo mattone d’abbattere per rompere un muro di silenzio e grigia indifferenza. Su sua esplicita richiesta, la chiameremo Fatima, il nome vero non intende rivelarlo: ha paura, del marito soprattutto.

Mezzogiorno in punto. Un cortile buio, panni stesi alle finestre o lungo i balconi in ferro battuto, accanto ad antenne satellitari per captare il mondo, niente ascensore, una rampa di scale con pareti sciatte – più stradi di colore sono stati sovrapposti negli anni – ed ecco aprirsi la porta su di un interno alquanto triste che sa di miseria. Lei non ha il burqa, ma il volto coperto sì, in contrasto con minigonna leopardata fucsia e giacchino coordinato. Ai piedi scarpe con i tacchi, appuntite, che farebbero la gioia di qualsiasi feticista. Fatima è sospettosa oltre ogni limite: vietato filmare, vietato registrare, vietato fotografare e soprattutto cercare di guardarla in faccia. Difficile scorgere un volto nascosto da un velo trasparente d’accordo, soprattutto quando l’interlocutore ti dà la schiena. L’unica possibilità è armarsi di block-notes e penna. In un italiano fin troppo corretto “l’ho imparato da mio marito, che è in Italia da più di 10 anni, e dalla televisione che mi fa compagnia dalla mattina alla sera” spiega, Fatima narra la sua storia. Quando si dice che la realtà supera la fantasia…
Viene dal sud del Marocco, entroterra, quello non occidentalizzato, che crede ancora nella poligamia e che la donna vale meno dell’uomo. Ecco spiegate le eccessive precauzioni della donna: il suo è un marito-padrone. È lei stessa a confermarlo: “ Se mio marito sa che racconto i fatti miei agli estranei mi riempie di bastonate. Potrebbe uccidermi. E poi mi porta via il bambino, che adesso va alle elementari e parla solo italiano. Non vuole essere marocchino, si vergogna”. Richiede sveltezza, ha poco tempo, il suo bambino è andato a mangiare dalla nonna paterna oggi, ad un isolato di distanza, ma non si sa mai dice.
Burqa sì o burqa no?
“Burqa sì, lo devo mettere solo per strada, in casa faccio quello che voglio con i vestiti. Nel mio caso l’abuso non è questo indumento che voi disprezzate”, con un gesto indica una prigione di stoffa nera dal medievale sapore riposta in un angolo. “Io voglio parlare di abusi di altro tipo, quelli che mio marito mi costringe ogni giorno a subire”. Cioè? “Essere obbligata a servirgli la colazione e la cena con il burqa e sotto niente, stessa cosa se vado per strada, lui dice che così si eccita”. Prego? “Sì devo portare solo quelle piccole mutande da donnaccia, me ne ha comprate di tutti i tipi e colori, quelle che coprono il davanti e lasciano il sedere scoperto, si chiamano..” Perizoma? “Sì, così lo pronuncia lui pèrizona”.
Il tono della donna diventa rassegnato: “Anche se fa freddo in inverno io devo uscire in Burqa e pèrizona e se non lo faccio mi bastona, se torna dal lavoro ubriaco è ancora peggio, mi bastona e mi violenta. Ma al secondo tipo di violenza sono abituata al primo no. Odio mettere quelle mutande da donnaccia”. Ma come fa a saperlo tuo marito se esci senza indossarlo, visto che lavora? “Esco tre volte il giorno, accompagno mio figlio a scuola, faccio la spesa e lo vado a prendere. Tutte e tre le volte mia suocera controlla. Per colazione e cena invece c’è lui a controllare”. Scherzi? “Purtroppo no. Mio marito era diverso una volta, qui l’Occidente gli ha dato alla testa, beve, beve troppo. La nostra religione lo vieta, si fa dei grandi panini con la carne di porco e umilia sua moglie con pèrizona”. Il perizoma è umiliante e il burqa no? “Così la penso”. Mai provato a chiedere aiuto all’esterno? “La vostra televisione fa vedere storie di donne violentate e uccise dai mariti o dai fidanzati, fatti veri. Se la legge non protegge voi perché dovrebbe proteggere me?”. Perché rendere pubblica, seppur sotto anonimato, una situazione di abuso così assurda, se poi si continua a subire? “Per dimostrare che tutto il mondo è uguale, e per fare sentire meno sola chi vive una storia di maltrattamenti simile alla mia. Chissà che qualcuna più coraggiosa di me abbia la forza di denunciare pubblicamente il suo uomo e di uscire allo scoperto”. Altri casi di musulmane costrette a umiliarsi fino a questo punto? “Non faccio nomi, ma io so”. A chi è rivolta questa testimonianza? “A tutte le donne vittime della violenza maschile, non solo musulmane”.
Tempo scaduto. Fatima deve uscire, la suocera l’aspetta poco distante, ai giardinetti. Cinque minuti dopo, lungo il marciapiede di Via Milano alta, una macchia nera oscura il pallido sole invernale. Il cielo è azzurro, soffia un vento gelido, siamo sotto zero.
Il fantasma prosegue lento. La tentazione e la curiosità spingerebbero per amore di cronaca a sollevare quell’inquietante burqa. Ma sempre più si fa strada quella sensazione sgradevole di trovarci veramente l’incriminato perizoma, per noi seducente micro indumento, per lei simbolo del peggiore degli abusi. E poi fa freddo, troppo, per sentirsi gelare anche il cuore.

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Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

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