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La politica del Pil senza felicità

di Zenone Sovilla

Misurare la felicità degli individui e dei gruppi sociali sarebbe un esercizio esposto a rischi di fallimento concettuale, oltre che di capziosità. Tuttavia, rovesciando l’approccio e procedendo per esclusione, si può tracciare almeno un contorno sfumato della questione. Mettiamo, per esempio, di escludere che si possa essere felici quando non si sa se il mese dopo i soldi disponibili basteranno a sbarcare il lunario. O chiediamoci se lo si possa essere avendo un lavoro che garantisce, almeno, il pane ma nega molta libertà e condanna a un sicuro logoramento psicofisico. Oppure, immaginiamo di appartenere alla minoranza danarosa, ma nel frattempo, dai e dai, seduti su un Suv gigante dentro città-camere a gas, si finisce in preda alla dilagante epidemia di cancro che si accompagna all’espansione sfrenata del modello consumista. Al massimo potremo curarci meglio.

In altre parole, possiamo farci un’idea sulla divergenza, ormai messa a nudo da numerosi studiosi, fra gli strumenti di quantificazione della salute economica e le reali condizioni di benessere delle società. Il Prodotto interno lordo indica una crescita che avviene, però, a danno sia della salute pubblica sia dell’ambiente naturale i cui guasti (vedi l’effetto serra), a loro volta, si abbattono con nocività variabile sul corpo sociale e in genere i primi a soccombere sono i meno abbienti. Un mercato che registra aumenti di produzioni di automobili e di carri armati, viene celebrato come un dato positivo sull’altare della crescita economica e dei suoi rigidi dogmi: ma la realtà empirica potrebbe essere un Paese coinvolto in un conflitto bellico o devastato dalle polveri sottili e altri simpatici effetti collaterali del modello neoliberista (in proposito, giusto per menzionare uno slogan che va di moda in questi giorni, verrebbe da chiedersi se la «questione settentrionale» sia data più dalle urgenti liberalizzazioni della pizza al taglio o dalla zona rossa, fra le più contaminate d’Europa, che segna larga parte del nord d’Italia, fra industrializzazione selvaggia e traffico impazzito).

Sia pure annacquata nella perdita contemporanea dell’idea di «limite» e di «senso» dell’agire umano, emerge la necessità di distinguere tra «progresso», inteso come avanzamento del benessere diffuso (in cui la soggettività non diventi negazione di quella altrui), e «sviluppo», cioè mero accoglimento dei processi mercantili (la logica per cui il nostro stare bene dipende ineluttabilmente, per esempio, da un treno ad alta velocità che sfreccia tra Lisbona e Kiev passando per la val di Susa). Qualche strumento utile alla riflessione attorno a questo tema enorme, quanto scomodo ed eluso, dovrebbe venire dal convegno internazionale «Politiche per la felicità», in corso da oggi a domenica alla Certosa di Pontignano, promosso dall’Università di Siena. Economisti, sociologi e psicologi si confronteranno, con sana declinazione interdisciplinare, su una delle grandi rimozioni della nostra epoca.
E potrebbero aiutarci a chiederci se c’è speranza che all’infido Pil, un giorno, si sostituisca la Fil: felicità interna lorda…

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