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La politica dell’ecologia sociale

Intervista a Janet Biehl di Chuck Morse [ tratta da A Rivista anarchica – www.arivista.org ]


Il tuo è un libro sostanzialmente programmatico: inserisci il municipalismo libertario in un contesto storico e offri suggerimenti concreti per la pratica. Quali frangenti politici ti hanno soprattutto spinto a scriverlo proprio adesso?

In quanto dimensione politica dell’ecologia sociale (il cui corpo teorico è stato elaborato da Murray Bookchin fin dagli anni cinquanta) il municipalismo libertario è una politica libertaria di rivoluzione politica e sociale. Esso ha un contenuto teorico e pratico rivolto alla costruzione di un movimento rivoluzionario, il cui ultimo fine è il raggiungimento di una società fatta di uguaglianza, giustizia e libertà. Il mio libro non vuole essere altro che un’articolazione di queste idee, che sono già state esposte altrove da Bookchin. Per riassumere per i lettori che non lo conoscono, il municipalismo libertario aspira alla creazione di una vita politica per comunità autogestite a livello comunale: il livello di paese, di quartiere, di cittadina o grande centro urbano. La vita politica prenderebbe forma in istituzioni di democrazia diretta: assemblee cittadine, assemblee popolari o riunioni urbane. Dove queste istituzioni sono già presenti, è possibile ampliarne il potenziale e la forza democratica in esse sottesa; dove esistevano un tempo, possono essere riportate in vita; dove non c’erano, andrebbero create da zero. Al loro interno, comunque, il popolo, o meglio i cittadini, potrebbero gestire le faccende delle proprie comunità in prima persona, invece di affidarsi alle élite statali, arrivando alle decisioni politiche attraverso processi di democrazia diretta.
Per affrontare i problemi che travalicano i confini del singolo comune, i comuni democratizzati di una data regione formerebbero una confederazione e invierebbero i propri delegati a un consiglio confederale. La confederazione non sarebbe uno Stato, perché dipenderebbe integralmente dalle assemblee cittadine. I delegati inviati da queste assemble e avrebbero solo la facoltà di presentare le delibere delle rispettive assemblee; agirebbero esclusivamente su mandato e sarebbero facilmente revocabili.
Con lo sviluppo del movimento municipalista libertario, man mano che sempre più comuni si democraticizzano e si confederano in questo modo, le confederazioni acquisterebbero la forza sufficiente per costituirsi come potere alternativo, che alla fine entrerebbe in concorrenza con lo Stato-nazione. A quel punto seguirebbe uno scontro, oppure tutta la cittadinanza abbandonerebbe il vecchio sistema per il nuovo, in grado di assicurare a ognuno il totale controllo sulla propria esistenza, enucleando da sé il potere della Stato-nazione. Nello stesso tempo i comuni strapperebbero il controllo della vita economica alle grandi imprese private, espropriando gli espropriatori. A quel punto sarebbe possibile dare vita a una società razionale, libertaria, ecologica, in cui il potere strutturale sarebbe in mano alle assemblee di democrazia diretta, animate da una cittadinanza attiva e vivace.
Il mio libro delinea i passi concreti con cui sarebbe possibile formare un movimento capace di creare questa democrazia diretta e sottolinea il ruolo fondamentale di un gruppo preparato di persone impegnate che, grazie allo studio collettivo e a campagne nelle elezioni locali costruisca un movimento, diffondendo queste idee nelle rispettive comunità.
Di un libro del genere c’era bisogno da molto tempo e mi spiace soltanto che non l’avevamo pronto quando lavoravamo insieme nella Left Green Network. Quanto servisse lo si capisce dal fatto che, solo poche settimane dopo la pubblicazione, i compagni di altre parti del mondo si organizzavano per tradurlo in cinque lingue europee e oggi si sta decidendo di tradurlo in molte altre.

Tu collochi il municipalismo libertario nel solco della tradizione anarchica e ne condividi le finalità antistatali e anticapitaliste. Tuttavia, mettendo in primo piano il conflitto tra comuni e Stato (contrapposto al conflitto tra lavoro e capitale) ti distacchi da molte tendenze prevalenti in seno a questa tradizione. Perché ritieni importante questa rottura?

Prima permettimi di chiarire che Bookchin non contrappone affatto il municipalismo libertario al conflitto capitale-lavoro. Anzi, la sua intenzione è quella di allargare la lotta di classe collegandola al conflitto comune-Stato; introducendo nelle formulazioni della lotta di classe elementi che attraversano le classi (soprattutto rispetto al domi nio gerarchico e alle dislocazioni ecologiche). Vuole poi dare alla lotta di classe una base di democrazia diretta che si fondi su una cultura politica e civile di autogestione. Il municipalismo libertario è un tentativo di portare la lotta di classe sul terreno dei conflitti civili accanto a quello dei conflitti sindacali e di lavoro. La cosa, i n realtà, non è tanto strana: dopo tutto gli scontri di classe rivoluzionari, storicamente, hanno sempre trovato una base nei comuni. Le rivolte di Parigi del 1848 e del 1870-71 hanno visto gli scontri svolgersi sulle barricate nei quartieri. Nella Pietroburgo Rossa del 1917, come nella Barcellona del 1936-37, la presenza di forti culture urbane nei quartieri è stata fondamentale per le rispettive rivoluzioni.
Nella tradizione anarchica, il conflitto comune-Stato risale almeno al 1836, quando uscì il libro di Proudon sul federalismo che auspicava la nascita di una federazione di comuni autonomi. Bakunin ha ripreso questa prospettiva e l’ha messa al centro dei programmi redatti nel decennio 1860-1870. In quegli stessi anni queste idee si diffondevano tr a gli oppositori di Napoleone III e della sua politca accentratrice in Francia. Così, nel 1871, quando la Prussia sconfisse la Francia e il governo napoleonico crollò, queste stesse idee erano già presenti e ispirarono la Comune di Parigi che sorse dalle rovine del Secondo Impero. Dopo poche settimane di vita la Comune andò incontro a una fine disastrosa, eppure molti radicali (e non solo quelli avversi allo Stato, ma anche Marx per un certo tempo) s’ispirarono al suo audace esempio e considerarono la federazione di comuni autonomi il modello politico adatto per una società libera e autogestita. Alla fine di quel decennio, l’idea passò nei programmi della federazione del Jura, che ve deva nella federazione di comuni un elemento integrante della società post-rivoluzionaria.
Il municipalismo libertario prende spunto dal comunalismo storico, nella versione anarchica come in quella marxiana, come pure alla sua tradizioni concreta nella storia rivoluzionaria, a partire dalla Rivoluzione Francese del 1789. Nello stesso tempo, gli fa fare dei passi in avanti. Mentre le prime teorie attribuivano ai comuni sostanzialmente le funzioni amministrative e di erogazione di “servizi pubblici” affidando il potere decisionale alle società operaie (la cui federazione doveva essere parallela a quella dei comuni federati), il municipalismo libertario concepisce il comune come uno strumento di democrazia diretta che ha il controllo sull’economia. E, mentre gli anarchici comuna listi pensavano che le masse avrebbero formato spontaneamente i comuni, dopo che lo Stato fosse crollato per qualche altra via, il municipalismo libertario prevede una fase di transizione rivoluzionaria durante la quale la federazione dei comuni si afferma come potere alternativo contro lo Stato-nazione.
Quello che voglio dire è che la tradizione comunalista, di cui il municipalismo libertario è uno sviluppo, non è affatto estranea alla tradizione anarchica, anzi è presente fin dall’inizio.

Gli anarchici si sono distinti dalle altre componenti presenti nel solco della tradizione socialista, in quanto sottolineano, fra l’altro, l’importanza , per una strategia rivoluzionaria complessiva, delle controculture e delle contro-istituzioni. Qual è, secondo te, il rapporto tra questi tentativi e la battaglia tesa a creare istituzioni politi che radicali di democrazia diretta come quelle di cui parli nel tuo libro?

È stato di grave pregiudizio per il movimento anarchico e per la sinistra in generale il fatto che negli ultimi tempi si sia data tanta importanza al cambiamento culturale a spese del cambiamento politico, al punto che oggi questa tendenza ha messo in ombra addirittura la teoria politica. Con ciò non voglio dire che il lavoro culturale sia destit uito di significato politico, ma che non sta in piedi da solo: deve rappresentare un aspetto di un più ampio movimento politico. L’arte, la cultura, le espressioni individuali non intaccano l’ordine sociale esistente, perché di per sè sono facilmente assorbibili e mercificabili. Infatti l’alienazione e il dissenso che un’opera d’arte radicale r iesce a esprimere in certe occasioni la rendono più facilmente vendibile, come tutto ciò che fa provare il brivido del proibito.
Senza un movimento politico che si opponga alla mercificazione in quanto tale (e quindi al capitalismo) oltre che al dominio gerarchico, anche l’arte si trasforma troppo facilmente in merce. È noto come la controcultura degli anni sessanta si sia corrotta trasformadosi in nostalgiche operazioni di marketing e in spiritualità New Age, con ampi sbocchi commerciali, mentre la pubblicità più accorta ne ha assorbito i contenuti di sensibilità (vedi la recente antologia Commodity Your Dissent). Per fare qualche esempio, la “rivoluzione” dei Beatles è oramai sfruttata per vendere le scarpe da ginnastica e il negozio di bici sotto casa mia ha in vetrina degli occhiali da sole marca “Anarchy”. All’interno del movimento anarchico c’è sempre più la tendenza a mettere in primo piano la cultura, le manifestazioni individuali e lo stile di vita a spese di una politica rivoluzionaria (nel senso di autogestione di un collettivo) al punto che i sostenitori dell’ecologia sociale hanno sentito la necessità di distinguersi da queste tenden ze, cercando di conservare all’anarchismo un elemento centrale di socialismo e di trasformazione della società a livello delle istituzioni politiche e sociali e non solo della sensibilità.

Tu affermi che per creare una società libera dobbiamo democratizzare e allargare il campo della politica. In quest’ottica, quale ruolo svolge la lotta antigerarchica, spesso relegata alla sfera privata, per esempio la lotta al patriarcato o alla supremazia dei bianchi?

Nel corso di una rivoluzione politica e sociale, non c’è dubbio che il carattere delle persone cambia, soprattutto grazie all’esperienza della solidarietà in una battaglia comune, nella lotta per un ideale comune e non per interessi personali, e tutto questo dà loro una maggiore consapevolezza in campo sociale. Nel corso di queste esperienze, p ossiamo immaginarci che il sessismo e il razzismo si attenuino. Ma finché sopravvivono, anche solo come atteggiamenti mentali o nelle convenzioni sociali, i membri della comunità (nel campo politico, nelle assemblee democratiche dei cittadini) decideranno come affrontarli nel modo che riterranno più opportuno.
Esiste sempre il rischio che una comunità faccia scelte politiche che siano sessiste o razziste, ma non sarebbe razionale che una società che si fonda sull’espletamento delle potenzialità di tutti i suoi membri soffochi le potenzialità di qualcuno. Uno dei principi fondamentali dell’ecologia sociale, di cui il municipalismo libertario è la di mensione politica, è la condanna di ogni genere di gerarchia sociale e di norma classista e l’appello alla loro dissoluzione.

Il concetto di potenzialità attraversa tutto il tuo libro. Tu parli di “potenziale politico del comune, di “potenzialità esclusivamente umana” di realizzare una società razionale. e così via. Può dirmi qualcosa di più riguardo a questo tema?

Questa domanda tocca la dimensione filosofica dell’ecologia sociale, il naturalismo dialettico, un tema troppo complesso che non è possibile discutere approfonditamente in questa sede: io rimanderei i lettori interessati all’opera di Murray Bookchin, Philosophy of Social Ecology. Mi accontenterò di dire, in breve, che, in quanto filosofia dello sviluppo (contrapposta a una filosofia analitica) il naturalismo dialettico concentra la sua attenzione sui processi che si svolgono sia nell’evoluzione naturale sia nella storia sociale, soprattutto quella che tende, sia pure in modo ambiguo e tortuoso, e addirittura con taluni arretramenti, verso una maggiore libertà, una più forte coscienza d i sé e una più ampia capacità d’introspezione.
In quanto tale, il naturalismo dialettico utilizza termini che rispecchiano i processi di sviluppo: potenzialità, emergenza, svolgimento, crescita, attualizzazione, compimento. Mentre la filosofia analitica presuppone la fissità, la filosofia dialettica presuppone il movimento, non semplice kinesis, ma il movimento che ha una direzione.
Concentrandosi sulle potenzialità di una situazione, la razionalità dialettica ci spinge a esaminare il genere di futuro che può emergere logicamente da quella situazione. Così, il comune come esiste oggi contiene le potenzialità per democratizzarsi e per diventare una componente di una società razionale. L’affermazione di una società municipalista libertaria sarebbe il segno che questa potenzialità si è concretizzata e attuata.

Tu lanci un appello per abbattere il capitalismo e lo Stato e a creare una società libera, caratterizzata dalla ragione, dalla solidarietà e dall’ethos di cittadinanza. Tuttavia, dal modo in cui parli della colonizzazione della vita sociale da parte del capitalismo, dell’attacco alle comunità, della dissoluzione del politico, sembra che tu desc riva la distruzione delle forze su cui dovremmo basare la costruzione di un’alternativa sociale. Stando così le cose, dove trovare le forze e le idee per creare una società libera?

La società odierna, con la sua ricerca di una gratificazione immediata, ci invia in continuazione messaggi che dicono che il nostro scopo è di puntare alla massima felicità individuale nell’ambito del capitalismo, ma non offre che poco o nessun sostegno culturale per subordinare le immediate esigenze personali al perseguimento di finalità più grandi. Inaridisce la nostra fantasia, impedendole di muoversi in ogni direzione e di immaginarsi un mondo migliore, sommergendola in una marea di questioni di sopravvivenza pratica e di consumo di oggetti e di servizi. Ci sottrae sistematicamente quella che nei secoli passati sarebbe stata chiamata la nostra natura migliore.
Questo sistema sociale non solo ci mercifica e di sfrutta, ma riesce anche ad annebbiare la nostra memoria storica e a istupidirci. Vorrebbe che ci dimenticassimo che per secoli gli uomini hanno partecipato a tentativi di trasformazione sociale che non avrebbero portato nessun frutto durante la loro esistenza. Non solo non ricercavano una gratific azione immediata, ma non se l’aspettavano nemmeno ed erano disposti a rischiare esilio e pene, capendo che sarebbe servito per creare una società migliore.
Per questo dobbiamo renderci conto che la gratificazione immediata del desiderio è una componente del sistema che noi combattiamo. Dobbiamo mantenere la nostra memoria storica, opporci all’amnesia sociale. Dobbiamo essere disposti, a un certo punto, a mettere la causa della creazione di una società migliore al di sopra di quella di avere una mac china per il caffè espresso sul ripiano della cucina.
Se non troviamo la forza di resistere e di conservare i nostri ideali, anche la nostra esistenza perderà di senso e diventeremo banali e insignificanti. Come ha detto William James, ci capiterà di «ripiombare nel sonno dell’inesistenza da cui eravamo momentaneamente usciti».
Perciò dobbiamo metterci alla ricerca di persone che, come noi, aspirano a conservare la dignità umana e che capiscono che il problema più grave che ha di fronte a sé la nostra società non è quello del Niño o dell’incompetenza delle baby sitter, ma quello dello stesso ordine sociale. Noi combattiamo quest’ordine perché non potremmo sopport are una riduzione della nostra umanità e delle nostre migliori aspirazioni.

Marx sosteneva che il comunismo sarebbe emerso dalla maturazione delle contraddizioni interne del capitalismo. Tu consideri la creazione di una società municipalista libertaria un atto di volontà o il culmine di un processo storico di più vasta portata?

È entrambe le cose. Ma non ho dubbi sul fatto che la nostra società sia avviata a una crisi: il solo dubbio è se la causa immediata sarà di natura sociale o ecologica. Come ha rilevato Marx nel Capitale, le aziende capitaliste devono massimizzare i profitti e quindi espandersi, oppure soccombere alla concorrenza e perire: crescere o morire. Bookchin ha aggiunto che questo imperativo mette il capitalismo in rotta di collisione con il mondo della natura. E mentre l’effetto serra è destinato a provocare enormi devastazioni nel prossimo secolo, la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi. Per massimizzare i profitti su scala globale, il capitalismo emargina interi strati della popolazione: secondo un calcolo circa tre quinti della popolazione mondiale.
Penso anche che dovremmo riconsiderare la tesi marxiana dell'”impoverimento”. Marx sosteneva che la logica del capitalismo portava a ridurre i salari al livello minimo possibile; una volta che il popolo fosse completamente immiserito, pensava, sarabbe stato spinto a ribellarsi allo sfruttamento della borghesia. Questa previsione non si è reali zzata, in parte perché le realizzazioni del welfare state hanno in un certo modo ammorbidito l’impatto del capitalismo. Ora che molti dei vantaggi dello stato sociale su cui si basa la pace sociale vengono gradualmente cancellati, la previsione secondo cui l’immiserimento porterà alla rivoluzione sociale potrebbe risultare ancora valida.
Qualunque sia la causa della crisi, quando questa si sviluppa effettivamente, produce risultati sulla società che non sono necessariamente quelli che portano a una società razionale, ecologica, libertaria. Il risultato potrebbe essere la dittatura, il caos. Se la crisi deve portare all’emancipazione, è necessario che prima di essa siano già pr esenti alcuni elementi di coscienza dell’alternativa di liberazione.
In questo senso è importante l’intervento soggettivo. I periodi prerivoluzionari sono in genere molto brevi. È probabile che non ci sia mol- to tempo per fare quell’opera approfondita e parcellizzata di formazione, indispensabile per un movimento di liberazione. È questo il lavoro che dovremmo fare adesso: soprattutto per costruire un movimento municipalista libertario che mostri come sia possibile prendere in mano la propria esistenza politica e sociale, per realizzare una società c he consenta di riaffermare la propria umanità. C’è bisogno d’infinita pazienza, ma lo si deve fare. Altrimenti, la crisi che verrà produrrà una tirannia.

Di questi tempi non è facile trovare un teorico radicale che non si sia sistemato in qualche istituto universitario. Tu sei un’eccezione: hai di proposito scelto di tenerti fuori dell’università. Come mai?

L’altra sera mi è capitato di leggere un passo di Bakunin, in cui si parla della «storia di tutte le accademie». «Dal momento in cui diventa un docente uni- versitario» scriveva Bakunin «anche il più grande genio scientifico piomba inevitabilmente nell’indolenza. Perde la spontaneità, l’arditezza rivoluzionaria, quell’energia tormentata e selvaggia caratteristica del genio, sempre tesa a distruggere i termini vecchi e cadenti e a porre le basi dei nuovi. Senza dubbio diventa più beneducato, acqui sta un maggiore senso pratico e utilitaristico, ma a scapito dell’originalità. In una parola, si corrompe.» Io penso che questo passo sia fin troppo duro. Molti docenti, di diverso orientamento politico, cercano di avere un ruolo nella cultura politica, scrivono libri, opere educative, articoli destinati al vasto pubblico popolare. La ricerca che gli storici di sinistra fanno sui movimenti rivoluzionari e sulle idee socialiste-anarchiche è senza dubbio preziosissima per chi cerca di realizzare qualcosa partendo da quella tradizione.
Ma per un professore universitario non è facile scrivere qualcosa che faccia avanzare direttamente i movimenti rivoluzionari, opere che formino e ispirino gli attivisti e gli intellettuali rivoluzionari. All’università gran parte di quello che si scrive serve a consolidare la propria carriera, soprattutto a dimostrare le proprie qualità di stud iosi e di ricercatori. Scrivere qualcosa che fa sorgere un movimento, invece, può addirittura danneggiare la carriera. Per questo i cattedratici hanno come referenti gli altri cattedratici e non il pubblico in generale, tanto meno un pubblico rivoluzionario. In questo paese, l’esodo di massa della sinistra, che ha abbandonato la vita pubblica per le università, ha senza dubbio fatto dei danni alla cultura politica radicale.

Parlami del tuo lavoro futuro. Hai nuovi progetti in vista o nuovi temi che intendi analizzare?

Sono contenta di dire che The Murray Bookchin Reader, un libro da me curato, è oggi in distribuzione negli Stati Uniti. Al momento collaboro con Bookchin a un’antologia di interviste e di saggi recenti che si dovrebbe intitolare Anarchism, Marxism, and the Future of the Left e che uscirà l’anno prossimo per i tipi della A.K. Press.

Chuck Morse

(intervista pubblicata sul numero della primavera ’98 di Perspectives on anarchist theory. Indirizzo: Insitute for Anarchist Studies, P.O.Box 7050, Albany, NY 12225, USA. Traduzione dall’inglese di Guido Lagomarsino).

Chi è Janet

Janet Biehl è sempre andata controcorrente. Nata nel 1953 a Cincinnati, nell’Ohio, non ha partecipato ai movimenti degli anni sessanta come molti dei suoi coetanei. Parlando di se stessa in quel periodo si definisce una persona senza grilli in testa.
Invece, all’inizio degli anni settanta, quando molti abbandonavano le posizioni del radicalismo culturale, Biehl fu attirata dai gruppi teatrali d’avanguardia come il Living Theatre e successivamente si laureò in teatro alla Wesleyan University.
Desiderando fare l’attrice, si trasferì a New York, dove cominciò a interessarsi delle teorie radicali e di politica. Anche se la Nuova Sinistra apparteneva oramai al passato, l’elezione di Ronald Reagan e il crescente disincanto nei confronti dell’arte la spinsero a fare la scelta più naturale.
Mentre preparava un master in scienze umane al centro CUNY, venne a conoscenza dell’opera di Murray Bookchin e nel 1986 frequentò l’Institute for Social Ecology.
Il lavoro di Bookchin le servì per dare un senso più completo al suo impegno politico. Poco dopo si trasferì a Burlington, nel Vermont, per lavorare a stretto contatto con Bookchin, diventandone la compagna e la più stretta collaboratrice. Oggi vive e lavora con lui e si mantiene con l’attività di redattrice indipendente. A differenza di molt i della sua generazione, la cui biografia è un continuo arretramento rispetto al radicalismo giovanile, Janet Biehl si è mossa con coerenza nella direzione opposta.

[ da A rivista anarchica, anno 28 n.247, estate 1998 ]

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Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

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