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Lavoro, la strage impunita

[ da www.liberazione.it ]

di Manuele Bonaccorsi

La colpa è sempre dei morti. Perché un morto non parla, e difficilmente potrà testimoniare ad un processo contro il suo datore di lavoro. E così troppi omicidi colposi nel corso dei processi diventano imprudenza della vittima o fatalità, caso. Mentre il padrone infastidito dalle misure di sicurezza la fa franca. Tanto ci pensa l’Inail a pagare un magro indennizzo alla vittima o ai suoi familiari.

Quando un infortunio sul lavoro provoca la morte o una degenza superiore a 30 giorni scatta il procedimento d’ufficio della magistratura. Ma il processo viene istituito raramente, e quasi mai, alla fine, si giunge alla condanna del datore di lavoro.
«La normativa sugli infortuni è poco precisa, specialmente quando fa riferimento ad apparecchiature o processi di lavoro complessi», ci spiega Giulio Toscano di Magistratura Democratica, Sostituto Procuratore alla Corte d’appello di Catania. «Molto carente è anche il lavoro della polizia giudiziaria che svolge le prime indagini, spesso senza approfondire molti elementi tecnici necessari per l’apertura del processo », continua il giudice. «Poi, quando inizia il dibattimento, emerge chiaramente la disparità di forza processuale tra le parti».

Capaci di pagare ricche perizie, forniti dei migliori avvocati, favoriti dai veloci tempi di prescrizione, i datori di lavoro accusati di lesioni o di omicidio colposo per il mancato rispetto delle misure di sicurezza diventano nei fatti imperseguibili. «Inoltre nel mezzogiorno o dove il lavoro è precario alcune imprese utilizzano il ricatto occupazionale per sconsigliere ai colleghi delle vittime di testimoniare contro di loro», aggiunge Toscano.

Il processo, quindi, invece di rendere giustizia spesso è una semplice riproposizione dei rapporti di forza tra imprese e lavoratori. Per questo l’intervento del sindacato è un sostegno irrinunciabile per aiutare i lavoratori a sostenere le spese processuali. «Per molti anni le organizzazioni dei lavoratori sono intervenute solo nei casi più eclatanti. Oggi, invece, provimo a dare assistenza legale anche per incidenti non gravi o per le malattie professionali », spiega l’avvocato Giancarlo Moro, che da anni impegnato a fianco dell’Inca- Cgil. Oltre all’indennizzo automatico corrisposto dall’Inail, infatti, i lavoratori hanno diritto a chiedere all’azienda il pagamento del danno differenziale, composto da danno L morale e danno biologico. Qualora sia comprovata la responsabilità dell’imprenditore, inoltre, anche l’Inail potrà chiedere il rimborso degli indennizzi pagati. «Questo fenomeno di ”doppia rivalsa” se esteso alla gran parte degli infortuni, potrebbe costringere i datori di lavoro a comportamenti virtuosi nel campo della sicurezza», spiega l’avvocato Moro. «Noi ci stiamo provando, e nel foro di Padova il numero dei provvediemtni contro i datori di lavoro complici degli infortuni è passato da 4-5 casi a circa 150 ogni anno », racconta Moro.

Eppure, ancora oggi, il sindacato trova grandi difficoltà a prendere parte ai processi. Non sempre, infatti, i giudici accordano il diritto di costituirsi parte civile, specialmente quando i lavoratori o i loro familiari si accontentano del risarcimento concesso direttamente dai datori di lavoro per ritirarsi dal processo. Una storia del genere, per fortuna a lieto fine, è accaduta a Brescia. Il 22 agosto del 1996 in una frabbrica di esplosivi, la S.E.I. di Ghedi, muoiono dilaniati per lo scoppio di una bomba Giuseppe Begnotti, Dario Cattina e Franco Sentimenti. La Fiom della città lombarda decide di costituirsi parte civile e di dare il massimo sostegno legale alle famiglie delle vittime. Ma ancora prima del rinvio a giudizio, nella complessa fase delle indagini preliminari, i familiari vengono convinti dall’impresa a ritirare la loro denuncia.

«E’ stata quella la fase più difficile del processo», racconta Michela Spera, segretaria della Fiom di Brescia. «Subito dopo l’incidente abbiamo aperto una sottoscrizione tra i lavoratori e la cittadinanza, e abbiamo convocato uno sciopero generale della provincia. Abbiamo costituito un colleggio di difesa e nominato dei periti di parte. Poi, quando le famiglie si sono ritirate, è stato molto difficile riuscire a convincere il giudice a permetterci la costituzione di parte civile. Si tratta di spese che una famiglia non può permettersi», spiega la sindacalista. Il processo di primo grado si conclude nel 2000, quello di appello il 19 dicembre del 2003, con la condanna definitiva di due dei tre accusati a 1 anno e otto mesi, e a un anno e 11 mesi. 
All’Ilva di Taranto morire è la normalità.

«Seguo per conto della Fiom diverse decine di processi per incidenti così come per malattie professionale. Dai carcinomi e i linfomi dovuti all’amianto al caso della cianfrinatrice, una settore dove ci sono già stati quattro morti e decine di incidenti», racconta l’avvocato Massimiliano Del Vecchio. Il caso di Taranto è molto diverso da quello di Porto Marghera, dove nel 2001 furono assolti tutti i 28 imputati, accusati della morte per tumore di 267 operai. Qui le cause, spesso, si vincono. «Non è semplice accertare le responsabilità, perchè l’azienda si difende benissimo, e condanne penali sono molto difficili. Più facile è ottenere il risarcimento in sede civile, perchè le colpe non cadono su singole persone ma sull’intero apparato », spiega l’avvocato Del Vecchio. «Diamo la priorità ai processi sulle malattie professionali, poiché sono casi meno eclatanti, di cui raramente i giornali parlano, ma che provocano la morte di centinaia di lavoratori».

[ dal quotidiano Liberazione del 26 gennaio 2007 www.liberazione.it ]

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