Nonluoghi Archivio Minoli, l’Espresso e lo scoop su piazza Fontana

Minoli, l’Espresso e lo scoop su piazza Fontana

di Pino Nicotri *

Lunedi 14 marzo Giovanni Minoli nella sua trasmissione televisiva ha parlato anche della strage di Piazza Fontana, cioè delle bombe del 12 dicembre 1969 a Roma e a Milano. Bombe tragiche non solo per le molte persone uccise e mutilate nella Banca dell’Agricoltura che a Milano su piazza Fontana si affacciava (e tuttora si affaccia), ma anche perché innescarono quel tipo di “resistenza armata preventiva” – contro il golpismo strisciante dell’epoca – che sfociò poi nel terrorismo delle Brigate Rosse e di Prima Linea, con annessi e connessi. Nel corso del suo programma Minoli ha sentito il bisogno di arrogarsi – o quanto meno i nascondere – meriti che non sono né suoi né degli inquirenti, ma solo ed esclusivamente de L’Espresso di 32 anni fa. Meriti, per giunta, davvero storici.
Le bombe del 12 dicembre ’69 erano tutte contenute in borse di similpelle dotate di una serratura con inciso un disegno particolare: il profilo di una testa di gallo, logo della ditta tedesca Mossbach und Grueber che le fabbricava. Le indagini sulla strage furono sabotate dagli organi di polizia giudiziaria che, mentendo su ovvia indicazione dei servizi segreti, dissero ai magistrati che quelle borse in Italia non erano vendute. Un modo subdolo per accreditare la “pista estera”. Finché giovedì 7 settembre 1972 il settimanale L’Espresso, con una inchiesta del grande inviato Mario Scialoja intitolata “C’è un’orma nuova”, rivelò la verità: quel tipo di borse non solo era venduto anche in Italia, ma erano state vendute anche nel Veneto dei filo golpisti di estrema destra Giorgio Franco Freda, padovano, e Giovanni Ventura, trevigiano.
A mettere sull’avviso Scialoja ero stato io, che a quell’epoca studiavo Fisica all’Università di Padova e avevo notato sin da subito che un mio amico e compagno d’appartamento, lo studente di ingegneria Giorgio C, aveva proprio lo stesso tipo di borse mostrato in lungo e largo da giornali e tv, con il disegno della testa di gallo sulla serratura. Giorgio C alle ore 11 del lunedì successivo alla strage fece vedere la borsa a un commissario di polizia, fermo come al solito sotto casa nostra per tenere d’occhio i contestatori nei pressi del bar Pedrocchi e dell’adiacente palazzo del Bo (la sede centrale dell’Università).
Ma il commissario gli rise in faccia: “Sappiamo già chi è il colpevole”.. Strano, perché il capro espiatorio Pietro Valpreda, ovviamente anarchico, venne arrestato a Milano solo un’oretta più tardi.
Capii subito che a parlare ad alta voce c’era da lasciarci la pelle. Anche perché dopo 48 ore ci vennero a perquisire la casa, con un mandato per me, uno per Giorgio C e uno per la sua morosa Carla C, prima i carabinieri – che mi portarono al loro comando in Prato della Valle – e poi anche la polizia!!!
Quando ritenni di poter venire allo scoperto senza che mi facessero sparire, cioè una volta superato anche il servizio militare di leva, mi accinsi a scrivere tutto nel mio primo libro: Il Silenzio di Stato, edito nel febbraio 1973 da Sapere Edizioni. Scialoja a Roma venne a sapere che stavo scrivendo un libro dove parlavo anche delle famose borse, e così nacque il botto (che, tra parentesi, un po’ alla volta mi portò al giornalismo, grazie a Scialoja e a L’Espresso, anziché alla laurea in Fisica. I casi della vita).
Nel settembre del ’72 Mario Scialoja piombò a Padova. Io lo portai da Giorgio C, che nel frattempo s’era trasferito a Treviso. Giorgio per 5.000 lire mi cedette la sua borsa, che per fortuna conservava ancora, e io la affidai a Mario perché la portasse al magistrato milanese Gerardo D’Ambrosio (ero ancora un ragazzo diffidente: per evitare fregature, spedii a D’Ambrosio un telegramma per avvertirlo del pacco dono.). Il giorno dopo Scialoja la consegnò a razzo a Milano al magistrato poi corse come un pazzo a Roma – sulla sua ardimentosa Alfa Romeo 1750 – a scrivere l’inchiesta della grande svolta: “C’è un’orma nuova”, gridava il titolo in copertina. Scoop così non se ne fanno più da un pezzo. Né nascono più giornalisti come Scialoja.
L’inchiesta provocò un terremoto. Grazie al quale, la pista anarchica crollò miseramente, Valpreda venne scarcerato e finirono sotto accusa alcuni vertici della polizia. Si scoprì infatti, tra le altre porcherie, che l’Ufficio politico della questura di Padova aveva fatto sparire la testimonianza del titolare della Valigeria al Duomo, il quale aveva già indicato – e da un bel pezzo – l’acquirente delle borse riconoscendolo in una ben precisa foto: quella di Giorgio Franco Freda.
Valpreda per riconoscenza ci tenne a firmarmi una dedica di ringraziamento su una copia della seconda edizione del libro.
Sì, direi proprio che Minoli ci fa una ben triste e meschina figura. Peccato.

p.s. “Buon giorno, sono Mario Scialoja”. “Sì, e io sono Napoleone Bonaparte”. “Ma io sono davvero Mario Scialoja!”. “E io sono davvero Napoleone Bonaparte! Che, non si vede? O vuole forse darmi del bugiardo?” Iniziò così, proprio così. A pensarci mi viene ancora da ridere. Ma anche un forte nodo alla gola. Mario in seguito è diventato una delle persone cui devo di più nella mia vita. Ah, il “tempo triste della giovinezza”.

* Questo articolo è tratto dalla newsletter di Giornalisti senza bavaglio [www.senzabavaglio.info], componente sindacale della Federazine nazionale della stampa.

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