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Il negazionismo denoantri

[Dal quotidiano l’Adige www.ladige.it del 30 agosto 2006]

di Zenone Sovilla

Una sorta di negazionismo denoantri perseguita da tempo la società nazionale. Sia chiaro: l’oggetto di questo fenomeno non è l’Olocausto, anzi; si tratta di occultare o minimizzare il volto feroce dell’Italietta, le sue responsabilità prima e durante il genocidio nazista. Lo stesso orrore nazionalsocialista è stato contrapposto con una certa insistenza all’ingenuità degli «italiani brava gente», rei di aver sbagliato, rendendosi complici, certo, ma in quanto manipolati dal potente e crudele alleato d’Oltralpe. Insomma, abbiamo scavato un solco profondo fra noi, buoni ma deboli, e loro, spietati capibranco: per rifarci una pseudoverginità e cavarcela a buon mercato nel confessionale della storia. I conti sono presto fatti: punto e basta. Un colpo di spugna sulle atrocità del regime, comprese le deportazioni interne e le nefandezze nei territori occupati, con buona pace di chi – come la Jugoslavia titina – voleva anche i criminali fascisti sul banco degli imputati a Norimberga. Un colpo di spugna che si proietta ancora nella memoria, considerato che permangono come buchi neri della coscienza collettiva numerose pagine di storia rimossa, quali le stragi e le altre azioni sanguinarie compiute dai militari italiani in Africa o nei Balcani (si potrebbe almeno chiedere scusa) oppure gli oltre duecento luoghi di deportazione, spesso dentro palazzi o vecchie ville, istituiti con decreto firmato da Mussolini il 4 settembre 1940 sulla scorta dei provvedimenti segregazionistici promulgati due anni prima. Furono così sequestrati decine di migliaia di cittadini ebrei, ma pure zingari, stranieri, omosessuali, testimoni di Geova, disabili, dissidenti politici: buona parte di queste persone proseguirono il loro tragico cammino dai campi di concentramento fascisti, disseminati su tutto il territorio italiano, al centro di smistamento di Fossoli e quindi allo sterminio per mano nazista.
La vulgata che sottovaluta, tra l’altro, la genesi e il peso reale delle leggi razziali del ’38 è alimentata anche da una certa pubblicistica «insospettabile», che annacqua le colpe italiane dentro fiumi di parole inequivocabili sull’efferatezza nazista ma inclini all’oblio sul ruolo del fascismo. Quasi a descrivere una profonda dicotomia fra Roma e Berlino anche tramite un’inversione dei fattori di causa ed effetto. Non fu, per esempio, Hitler a imbeversi delle teorie razziali dei figli della lupa; viceversa il Duce del fascismo si sforzò per anni di proteggere gli ebrei: una ricostruzione fantasiosa in cui scompare, tra l’altro, il crescendo di propaganda antisemita e xenofoba che caratterizzò la stampa italiana degli anni Trenta, così solerte nella costruzione di un nemico, anche interno, sul quale orientare l’attenzione sociale. Altrettanto interessante è sfogliare i quotidiani dell’epoca e notare come erano esaltate e celebrate in prima pagina le deportazioni o le destituzioni di cittadini ebrei. Difficile concludere che quell’odio, quelle aberrazioni non fossero farina del nostro sacco bensì innocue devianze mutuate dalle cattive compagnie.
Tuttavia, poiché, per dirla con Hegel, a un certo punto la quantità diventa qualità, ecco che fra amnesie e imprecisioni storiche, oggi s’insedia nell’immaginario collettivo nazionale una comoda memoria <+corsivo>innocentista<+testo>; ma è un’ermeneutica ad alta tensione latente. I rischi che ne derivano si colgono, per esempio, nella diffusa tendenza a enfatizzare le malefatte degli stranieri in Italia, semplificando le cronache e tralasciando un’analisi seria del fenomeno migratorio, delle sue origini, complessità e implicazioni politiche, economiche, sociali e antropologiche.
Va da sé che nel delirio patriottardo di questi anni (inni e tricolori in tutte le salse) un ex premier si può permettere impunemente di glorificare con toni da curva sud «un’Italia cattolica e degli italiani» e di demolire il multiculturalismo «comunista» eccitando folle gaudenti, con l’avallo massmediatico delle consuete vestali del pensiero unico. Sorge spontanea una domanda: in Germania come avrebbero reagito editorialisti e intellettuali «moderati», se un cancelliere federale, evidentemente uscito di senno, avesse gridato da un podio di Rostock lo slogan testarapato «Deutschland für Deutsche, Ausländer raus»?
Ma torniamo a noi. Giova osservare che, in genere, gli stessi soloni che si ergono implacabili ad additare con solerzia giacobina lo straniero (o il «noglobal») di turno appartengono alla schiera patria degli indulgenti storici. E anche qui, sempre per la nota teoria hegeliana (il filosofo ce ne perdoni l’uso prosaico), la quantità si fa qualità quando al soggetto, a furia di ripetitive presenze in tv e di libri dati alle stampe, viene riconosciuta coram populo la patente di grande giornalista e di storico della politica. Bruno Vespa, pochi giorni fa era a Cortina d’Ampezzo per parlare del suo ultimo volume, «Vincitori e vinti», e ha ribadito la convinzione che Mussolini fino al 1937 «era antirazzista e proteggeva gli ebrei» minacciati da Hitler; poi, arrivò «un’inversione caratteriale» che trasformò il dittatore. Insomma, per dirla con il mentore di «Porta a porta», «C’erano un Mussolini 1, fino al 1937, poi distrutto da un Mussolini 2» che fece il «tragico errore delle leggi razziali», nonostante le quali, tuttavia, «gli italiani non hanno odiato gli ebrei». Vespa, riprendendo il filo del suo libro, ha anche ripetuto che gli stessi deputati e senatori appartenenti alla comunità ebraica approvarono le leggi razziali, «probabilmente perché avevano ricevuto rassicurazioni, pensavano si rimanesse alle formalità; del resto Mussolini pensava a un’espulsione progressiva (sic), non alla tragedia che poi è cominciata».
In questo caso, per supportare la sua conclusione sull’antisemitismo blando del regime, lo scrittore si richiama a un dato oggettivo: il voto parlamentare del dicembre 1938 sui decreti razzisti. Peccato che nella circostanza Vespa abbia deragliato (sarà per il superlavoro), come gli ha fatto notare dai microfoni di Radio Radicale il noto studioso Michele Sarfatti, direttore del Centro di documentazione ebraica di Milano: a quelle sedute gli ebrei non parteciparono, né misero più piede in aula (il parlamento si autosciolse quel giorno e nel gennaio 1939 nacque la Camera dei fasci e delle corporazioni). Secondo Sarfatti, la ricostruzione fornita da Vespa è «oltraggiosa per gli ebrei e per la verità storica» e aggiunge un nuovo capitolo a una riscrittura «all’acqua di rose» del nostro passato: una narrazione basata prevalentemente sulla parola dei persecutori, che ridimensiona la gravità dell’accaduto. Eppure, sottolinea lo studioso ebreo, in questo caso bastava consultare gli atti parlamentari che si trovano facilmente anche in biblioteca: «Vespa non lo ha fatto e ciò dimostra che non è uno storico. Se poi il pubblico lo accoglie come tale, non possiamo certo impedirlo; ma siamo nel campo di chi si dà le martellate sui piedi…».
Già, le martellate. Una caratteristica domestica è, appunto, la folta schiera di martellanti opinion leader, fra loro assai concordi, che stimolano i riflessi condizionati del corpo sociale anziché metterli in discussione e incepparli per comprenderli meglio e, se del caso, vedere di disfarsene.
C’è di che riflettere, se nella formazione dell’opinione pubblica nazionale si affida un ruolo primario a eroi del conformismo intellettuale e a programmi televisivi che banalizzano tutto, dai corpi dilaniati della guerra al dramma di un infanticidio, dentro un plastico asettico con sfoggio di carriarmati, bandierine o pigiami insanguinati. E che dire, giusto per menzionare un altro degli innumerevoli esempi, se un opinionista tra i più ascoltati e corteggiati, come Magdi Allam, imprimendo una curiosa contorsione all’idea di dialogo e di processo d’integrazione, afferma imperturbabile che l’esame «civico» per concedere la cittadinanza all’immigrato non va previsto dopo cinque anni di soggiorno ma «all’inizio del percorso»: se uno sceglie di venire in Italia deve dimostrare sùbito, fra l’altro, di conoscere la nostra lingua. Siamo ormai nei territori della speculazione filosofica, nella fascinazione degli ossimori. O più semplicemente nella spietata banalità della classe agiata che si proietta dolorosamente sulla pelle dei disperati in carne e ossa.
Qualcuno avrà chiesto a Magdi Allam se con ciò s’intende accettare solo ticinesi o aprire scuole di lingua in tutte le bidonville del Pianeta?


Questo articolo è tratto dal quotidiano l’Adige (www.ladige.it) del 30 agosto 2006.

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