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Lavoro: il ballo del governo

[ da Umanità Nova – www.ecn.org/uenne ]

di Simone Bisacca

Il governo Prodi appena varato ha iniziato subito a ballare sul tema del lavoro con le esternazioni all’assemblea di Confindustria del neo ministro del lavoro Damiano, sindacalista CGIL e diessino doc, nonché dello steso Prodi. Il ritmo di base è noto e si chiama concertazione. Sulla base si innestano le molteplici sfumature delle parole flessibilità e precarietà. Già, perché il lavoro può essere flessibile, ma non precario, come ha appunto detto il neo ministro del lavoro, uno che se ne intende, con la storia che ha… La parola d’ordine sarebbe: la legge 30 (la cosiddetta legge Biagi, quella della precarietà selvaggia) non si abroga; la si riscrive (?!…).

In realtà, la legge Biagi prevede molte forme di lavoro precario estremo che non hanno trovato molto seguito neppure tra gli imprenditori, tipo il job on call (lavoro a chiamata: si resta disponibili ad essere chiamati in qualsiasi momento anche per tempi limitati e per questo si percepisce un minimo) o lo staff leasing (diciamo, lavoro-interinale-di-gruppo: l’azienda può affittare anziché un singolo lavoratore, interi gruppi di interinali e affidare loro, quasi a tempo indeterminato, certe attività). Insomma, è possibile dare una ripulita alla legge 30 senza troppi problemi.

I nodi sono, naturalmente, altri. Il principale è: chi paga l’andamento a singhiozzo dell’attuale economia? Cioè, chi paga per i sempre più ricorrenti e virulenti momenti di crisi? Quando tira brutta aria, si diminuiscono i profitti o si comprimono i salari? Profitti e salari stanno gomito a gomito e tra essi vale il principio dei vasi comunicanti.

Ora, quel che si prospetta con il nuovo governo potrebbe essere proprio una razionalizzazione dell’attuale situazione in cui precarietà e flessibilità tendono a confondersi e sovrapporsi. Oggi funziona che “se non ho lavoro posso mica assumerti o ti sbatto fuori perché non posso mica pagarti..” (flessibilità in ingresso o in uscita). Al tempo stesso, flessibile potrebbe essere l’orario ed infatti la normativa sia legale che dei contratti collettivi parla ormai di orario medio mensile o semestrale o annuale… L’impegno di lavoro viene cioè spalmato su periodi di tempo sempre più lunghi, in modo da ottimizzarne l’uso e renderne più economica la retribuzione…

Perché non estendere la flessibilità alla retribuzione: l’importante, anche qui, è la media. Nei momenti di crisi, che tanto con i cinesi alle porte e la sfida globale ecc. ecc. e l’Europa e la competitività e il sistema paese ecc. ecc…. La crisi è normale (un po’ come la guerra): insomma, siamo in uno stato emergenziale economico permanente, nello stato di eccezione fatto quotidiano e quindi avrebbe senso che i lavoratori partecipassero ai sacrifici (?!…) che il sistema periodicamente deve affrontare…

Se si garantisce ai lavoratori, dopo un periodo diciamo di tre anni di precarietà vera durante il quale possono essere licenziati più o meno quando pare al padrone (interinali, contratti a termine, ecc…), la tanto agognata stabilità, ma… flessibile (in termini di orario e di salario), forse qualcuno ci verrà a dire che non abbiamo migliorato la situazione…? L’importante che tutto sia concertato dai rappresentanti dei lavoratori… O no? Che importa avere un orario o una retribuzione annuale, anziché giornalieri settimanali o mensili?

Con questo passaggio, si perfezionerebbe l’asservimento del lavoro al capitale: per mantenere i profitti costanti, si modellano orario e salario. Dite di no? Non mi pare che sia un fatto nuovo. Cambiano solo i soggetti, nel senso che sono le organizzazioni dei lavoratori e i politici/sindacalisti da esse usciti che gestiscono il processo.

Ci sentiamo tra qualche mese: spero di sbagliarmi…

Simone Bisacca

[ tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova – www.ecn.org/uenne ]

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