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Lo spettro del lavoro e il diritto alla Pigrizia

[ Tratto dal sito Web del gruppo Krisis – www.krisis.org ]

di Paolo Lago

…perché noi non dimentichiamo mai un solo istante che almeno gli operai, quando lavorano e non si ribellano, sono la più utile delle realtà di questo mondo, e sono coloro cui va il nostro rispetto perché sono loro che, in qualche sorta, sotto la nostra direzione intelligente, producono la nostra ricchezza, id est il nostro potere.
Censor, Rapporto Veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia.

Proletari di tutto il mondo, dite basta!


Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro

Uno spettro si aggira insidioso fra i proletari: il vizio del lavoro. Uno spettro terribile, che dobbiamo temere ma anche, se possibile, allontanare o, meglio ancora, annientare. È ciò che ci delinea Paul Lafargue nel suo pamphlet Le Droit à la Paresse, recentemente riedito in italiano per i tipi delle Edizioni Spartaco, col titolo Il Diritto alla Pigrizia, nella bella traduzione di Sonia Bibbolino e Massimo Maggini, con l’introduzione di Maria Turchetto e seguito dal suo illuminante saggio, Il lavoro senza fine.

Il Diritto alla Pigrizia è uscito sotto forma di articoli nel 1880 su L’Egalité Hebdomadaire, ed è stato rivisto dall’autore mentre, nel 1883, si trovava nella prigione di Sainte-Pélagie con l’accusa di aver tenuto conferenze sovversive.

Il pamphlet (definizione che, comunque, nel suo significato di “libello polemico, satirico” sta inevitabilmente stretta allo scritto in questione) di Lafargue si inserisce all’interno di una solida tradizione pamphlettistica francese, a cominciare, forse, da quell’operetta di carattere politico e satirico, pubblicata anonima a Tours nel 1594 ad opera di Jean Le Roy, contro la Lega Cattolica che nel 1593 aveva convocato a Parigi gli Stati Generali, dal titolo La Satyre Menippée ou la vertu du catholicon. Fin nel titolo, quest’operetta si richiama all’antica satira menippea, cioè il genere letterario che fa capo al filosofo cinico Menippo di Gadara, caratterizzato dall’alternanza versiprosa, da molte citazioni inserite e dall’andamento comico-tragico.

Tracce di tale genere menippeo sono ravvisabili anche in Lafargue: lo studioso francese, per mettere in atto la sua “Confutazione del Diritto al lavoro” (come suona il sottotitolo), si serve infatti dell’ausilio di diversi autori e discipline, conferendo così al suo scritto un’indubbia veste ‘enciclopedica’. Nel primo capitolo, intitolato Un dogma disastroso, cita Virgilio e il Vangelo, Tacito e Salviano, per poi riallacciarsi a nozioni antropologiche ed etnografiche. Nel terzo capitolo (Ciò che segue alla sovrapproduzione) si avvale di notizie economiche e politiche contemporanee, cita con rigore Marx (che conobbe a Londra e ne sposò la figlia), nomina Rabelais, Quevedo, Cervantes e “gli sconosciuti autori dei romanzi picareschi” (p. 37), per poi – nel quarto capitolo, A nuova musica nuova canzone -inserire direttamente, come prosecuzione del proprio discorso, una frase dal Gargantua e Pantagruel di Rabelais, la quale possiede già al suo interno una citazione da Giovenale. Comunque, sembra proprio l’appendice il luogo più adatto per il moltiplicarsi dei riferimenti, in special modo alla cultura classica: dalle Storie di Erodoto al mondo romano, con Tito Livio e Cicerone, per tornare alla cultura greca, da Platone e Aristotele fino a Senofonte e Plutarco.

Ma andiamo adesso ad analizzare più da vicino le idee che Lafargue esprime in questa sua deliziosa operetta e, soprattutto, come le esprime.

L’incipit è molto importante a tale riguardo, in quanto è costruito seguendo la falsariga dell’ironia, che sarà il tono dominante dello scritto: “Una strana follia possiede le classi lavoratrici delle nazioni in cui regna la civiltà capitalista. Questa follia porta con sé miserie individuali e sociali che, da secoli, torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie” (p. 17). Lafargue rivolge accorati appelli agli operai perché aprano gli occhi e non siano più amanti del lavoro come invece sono sempre stati; questo loro insano amore li ha sempre tenuti sotto un giogo di schiavitù e di sfruttamento mentre la borghesia viene dipinta a chiare lettere come un gruppo di gaudenti e parassiti. Ma, appunto, questi appelli vengono rivolti ironicamente. Lafargue non dice, in modo roboante: “o, operai, svegliatevi, rifiutate la schiavitù del lavoro!”, ma, con molto più stile, si rivolge loro indirettamente, conferendo allo scritto un tono più descrittivo e narrativo, del tipo “Quel lavoro che nel giugno del 1848 gli operai reclamavano armi alla mano, lo hanno imposto alle loro famiglie” (p. 23), oppure “I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non capiscono che il superlavoro che si sono inflitti nel periodo di relativa prosperità, è la causa della loro attuale miseria” (p. 30). Questo tagliente tono ironico di fondo tornerà puntualmente in un’altra operetta ‘satirica’ del pensatore francese, La religione del capitale (pubblicata nel 1886; dove l’autore, riallacciandosi ad una inveterata tradizione letteraria, finge di essere solamente il copista dello scritto) e, all’interno di essa, soprattutto ne Il catechismo dei lavoratori -nel cui titolo si può scorgere un riferimento ironico al Catechismo degli industriali del positivista Saint-Simon – dove stavolta gli operai parlano in prima persona, descrivendo la loro condizione di schiavi del “Capitale”. Quest’ultimo appare sotto le vesti degli “eletti e dei preti sacri”, dei “possidenti e dei capitalisti lustri, paffuti, panciuti, danarosi, circondati da una moltitudine di servitori gallonati e di cortigiane pinte e tinte”

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, che non fanno altro che rimpinzarsi e darsi alla bella vita.

Comunque, sono svariati i punti del Diritto alla Pigrizia (oltre quelli che abbiamo sopra citato) in cui Lafargue tratteggia la classe operaia quasi come una massa di rimbambiti cronici, che non sanno fare altro che venire sfruttati dai capitalisti, persino quando si ribellano. E così, “Il proletariato inalberò il motto «chi non lavora non mangia». A Lione, nel 1831, si sollevò chiedendo piombo o lavoro. I federati del marzo 1871 chiamarono la loro rivolta «Rivoluzione del lavoro»” (p. 41). Ma, se possibile, hanno fatto anche di peggio: addirittura, “hanno consegnato ai baroni

1 P. Lafargue, La religione del Capitale (massime, preghiere e lamenti del capitalista), trad. it. di B. Zaccaro, Dedalo Libri, Bari 1979, p. 35.

dell’industria le loro mogli e i loro bambini. Con le loro stesse mani hanno demolito il focolare domestico, con le loro stesse mani hanno disseccato il latte delle loro mogli: le disgraziate, incinte e allattando i bambini, hanno dovuto andare nelle miniere e nelle manifatture a piegare la schiena e a sfinire i nervi. Con le loro stesse mani hanno minato la vita e la salute dei loro figli. Proletari, vergogna!” (p. 23). E poi, spesso, Lafargue gioca sull’”invece di”: “Invece di correre al granaio e gridare: «abbiamo fame e vogliamo mangiare […]. Invece di assediare i magazzini del signor Bonnet, di Jujurex – l’inventore dei conventi industriali – e proclamare: «Signor Bonnet, ecco le vostre operaie torcitrici, filatrici, tessitrici: tremano sotto i loro cenci rattoppati da far pena a un ebreo, eppure sono loro che hanno filato e tessuto i vestiti di seta delle cocottes di tutta la cristianità. […]. Invece di approfittare dei momenti di crisi per una distribuzione generale dei prodotti e un benessere universale, gli operai, che crepano di fame, se ne vanno a sbattere la testa alle porte delle fabbriche” (pp. 30-31). Insomma, sembra proprio che Lafargue ce l’abbia a morte con questi poveri proletari; ma, proprio qui, gioca l’arma dell’ironia. Come afferma Maria Turchetto nell’introduzione a Il Diritto alla Pigrizia, il tono beffardo rivolto agli operai non nasconde disprezzo verso di essi, bensì affetto. Vedendo un amico in difficoltà o che commette uno sbaglio

– continua l’autrice dell’introduzione – “lo prenderei in giro, con affetto e disperazione, sperando che una risata possa fare il miracolo di snebbiargli il cervello”

(p. 11). E così fa Lafargue, riservando autentico rancore solo contro gli “economisti”, i “moralisti” e i “filantropi dell’industria”.

Però, la classe proletaria, non è stata sempre così dedita al lavoro: c’era un tempo in cui anch’essa era sana e si dava a pantagrueliche abbuffate. Così Lafargue gioca (ironizzando) sul motivo del “dove sono finiti quei tempi?”, impreziosendo la sua penna di allusioni letterarie. Perciò, “dove sono le comari di cui parlano i nostri vecchi racconti, audaci, schiette, pronte di lingua, amanti della diva bottiglia? Dove sono queste buontempone, sempre a trottare, sempre a cucinare, sempre a cantare, sempre a seminare vita generando gioia, a partorire senza dolore bambini sani e robusti?” (p. 23). E qui, il testo originale, costruito sull’anafora di “où sont?… où sont?” riecheggia nientemeno che dei versi di François Villon, dal Testamento, e, precisamente, dalla Ballata delle dame di un tempo, in cui il poeta mette in scena il tempo che passa e la bellezza che fugge, chiedendosi “où est…” e “où sont…” le belle dame del tempo passato? “Oggi – prosegue Lafargue – abbiamo le ragazze e le donne di fabbrica, gracili fiori dai pallidi colori, dal sangue senza splendore, dallo stomaco rovinato, dalle membra languide” (pp. 23-24), dove i nostri traduttori rendono molto bene l’espressione “chetives fleurs aux pâles couleurs”, conservando la rima di sapore poetico del testo originale. E anche noi, uomini, cosa siamo diventati? “Sublimi stomaci gargantueschi, cosa siete diventati? Sublimi cervelli che abbracciate tutto il pensiero umano, cosa siete diventati? Siamo proprio sminuiti e degenerati” (p. 37). Siamo nell’”età del falso”, nell’età della “vacca infetta, la patata, il vino adulterato” (p. 37), nell’età in cui “tutti i nostri prodotti sono adulterati per facilitarne lo smercio e accorciarne l’esistenza” (p. 45) (e se il 1880 è “l’età del falso”, cosa mai dovremmo dire oggi?).

La penna di Lafargue lascia anche spazio ad un mondo nuovo che forse non è pura utopia, ad un futuro di liberazione. Il lavoro – dice l’autore – va razionato (“Rincitrulliti dal loro vizio, gli operai non hanno potuto elevarsi all’intelligenza del fatto che, per avere lavoro per tutti, bisognerebbe razionarlo come l’acqua su una nave in pericolo”, p. 46), perché “il lavoro diventerà il sale della pigrizia, un esercizio benefico per l’organismo umano, una passione utile all’organismo sociale soltanto quando sarà saggiamente regolamentato e limitato a un massimo di tre ore al giorno”

(p.
34). Allora, “a nuova musica, nuova canzone!”. Nel capitolo che reca questo titolo, viene delineata, con tinte anche grottesche e caricaturali, una società in cui “il mercato del lavoro sarà traboccante” e in cui “ci sarà bisogno di una legge ferrea per vietare il lavoro” (p. 51). Allora, bisognerà “imporre” anche agli operai il sano e godurioso vivere, mentre, in una sorta di rovesciamento carnevalesco, i borghesoni faranno i lavori più umili: “Dufaure pulirebbe i gabinetti pubblici, Galliffet potrebbe occuparsi dei maiali rognosi e dei cavalli impazziti, i membri della commissione di grazia, mandati a Poissy, marchierebbero i buoi e le pecore da macellare; i senatori, assegnati alle pompe funebri, farebbero i beccamorti” (p. 53), e via di seguito. Per allietare il tempo così liberato, “ci saranno in continuazione spettacoli e rappresentazioni teatrali”

(p.
54): e Lafargue, magistralmente, mette in scena, verso la fine del capitolo, proprio una rappresentazione teatrale, dal titolo Il furto dei beni della nazione, in cui Capitalismo, Francia e Banca vengono grottescamente e mostruosamente antropomorfizzati, come in una vignetta satirica dell’epoca; la potenza di evocazione grafica – con rimandi anche a certe iconografie infernali -di tale descrizione è veramente notevole e merita di essere riportata pressoché per intero: “La Francia Capitalista, enorme femmina pelosa di faccia e calva di cranio, imbolsita, dalle carni flaccide, sformate, smorte, dagli occhi spenti, insonnoliti e socchiusi, si allunga su un divano di velluto. Ai suoi piedi, il Capitalismo Industriale, gigantesco organismo di ferro dalla maschera scimmiesca, divora meccanicamente uomini donne e bambini, le cui grida lugubri e strazianti riempiono l’aria. La Banca, dal muso di faina, corpo di iena e mani da arpia, lesta gli ruba le monete da cento soldi dalla tasca” (p. 56). Ed è inutile dire che invitiamo a leggere anche il gustoso resto della rappresentazione messa in scena da questo abilissimo scrittore. Infine, il capitolo termina con due invocazioni alla Pigrizia (quella con la P maiuscola): la prima – che i nostri traduttori hanno molto abilmente tralasciato nella loro versione, dimostrando a tutti che si può applicare praticamente una teoria allo stesso testo che tratta di questa teoria (nel nostro caso la teoria del diritto alla Pigrizia): insomma, un colpo di genio! – suona così: “O Paresse, prends pitié de notre longue misère!”, cioè “o Pigrizia, abbi pietà della nostra lunga miseria!”; questa frase rinvia ad un altro illustre poeta francese, Charles Baudelaire, il quale scrive, nelle Litanies de Satan, il ritornello: “ô Satan, prends pitié de ma longue

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misère!” (“Satana, abbi pietà della mia lunga miseria!”). La seconda invocazione invita invece la Pigrizia, “madre delle arti e delle nobili virtù”, ad essere “il balsamo delle angosce umane” (p.57).

Ma è comunque lecito chiedersi: in cosa, Lafargue, intravede lo strumento di questa liberazione, di questo futuro che, almeno a sentire lui, non sembra poi così lontano? Ebbene, lo intravede nell’avvento della macchina. Col nostro senno di poi non si può certo affermare che la macchina sia stata un mezzo di liberazione per gli operai, anzi. Però, sembra che lo stratagemma dell’ironia che domina tutto lo scritto agisca anche in questo caso. Spieghiamoci meglio. Quella di Lafargue non è un’esaltazione e un inno cieco e spassionato alla meccanizzazione e all’avvento del vapore come spesso se ne trovano nella seconda metà dell’Ottocento, quando si scriveva addirittura che le prue delle navi e le ferrovie erano “poesia contemporanea”,

2 C. Baudelaire, I fiori del male e tutte le poesie, trad. it. di C. Rendina, Newton Compton, Roma 1991, p. 228.

o come si trova in alcune poesie di Carducci e, più tardi, a inizio Novecento, negli scritti dei futuristi.

Alla fine del quarto capitolo il genero di Marx porta ad esempio l’America come paese altamente meccanizzato, dove si lavora poco grazie appunto alle macchine: “In America la macchina invade tutte le branche della produzione agricola, dalla fabbricazione del burro fino alla sarchiatura del grano: perché? Perché l’Americano, libero e pigro, preferirebbe mille morti alla vita bovina del contadino francese. L’aratura, così faticosa nella nostra gloriosa Francia, così foriera di indolenzimenti, nell’Ovest americano è un piacevole passatempo all’aria aperta che si fa seduti, fumando tranquillamente la pipa” (p. 50). C’è il sospetto che la strategia del paradosso lafarguiano funzioni anche in queste affermazioni, e che il contadino americano che se ne sta tranquillamente a fumare la pipa mentre le macchine lavorano al suo posto sia un po’ il contrappunto ironico di quello francese.

Alla fine dell’appendice, invece, Lafargue inneggia spudoratamente alle macchine: partendo da affermazioni aristoteliche sugli utensili divini di Vulcano che lavoravano da soli, afferma che “le nostre macchine dall’alito di fuoco, dalle membra d’acciaio, instancabili, dalla fecondità prodigiosa, inesauribili, compiono docilmente da sole il loro sacro lavoro”; ma i filosofi del capitalismo “non capiscono ancora che la macchina è il redentore dell’umanità, il Dio che riscatterà l’uomo dalle sordidae artes e dal lavoro salariato, il Dio che gli darà piaceri e libertà” (p. 63). Ma anche qui si ha l’impressione che l’autore voglia farsi beffe di questi “filosofi del capitalismo” i quali, rincitrulliti e traboccanti di retorica, prenderebbero sicuramente sul serio queste affermazioni. E non è nemmeno troppo difficile immaginarsi, da una parte, il nostro autore che li prende in giro e se la ride beatamente…

Insomma, per concludere, si può tirare le somme dicendo che, nella concezione di Lafargue, la Pigrizia (con la P maiuscola, of course) assume un indubbio valore culturale, basta soltanto pensare a tutta la cultura che l’autore sfodera per dimostrare che essa è un diritto, dalla letteratura antica fino a Rabelais, Cervantes e i pittori fiamminghi. E il proletariato deve riappropriarsi di questo valore culturale se, prima o poi, vuole debellare questo subdolo e insidioso spettro che gli si insinua intorno con mille inganni. Che altro dire ancora? Basta solo un semplice invito che, per come è formulato, non suona proprio del tutto nuovo: proletari di tutto il mondo, leggete il Diritto alla Pigrizia!

Paolo Lago

Paul Lafargue, Il diritto alla Pigrizia, cura e traduzione di Sonia Bibbolino e Massimo Maggini, con introduzione e un saggio di Maria Turchetto, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere (CE) 2004; € 10,00.

Una nota su Il lavoro senza fine di Maria Turchetto, pubblicato in calce a Il Diritto alla Pigrizia, pp. 67-96 (già pubblicato su “Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale”, 3, gennaio-aprile 2004, pp. 8-26 col titolo Il lavoro senza fine. Riflessioni su “biopotere” e ideologie del lavoro tra XVII e XX secolo).

L’articolo di Maria Turchetto appare, già a prima vista, rivestito di una precisione e di una impostazione ‘archeologica’ tutta foucaultiana, mirata ad indagare, in ogni suo aspetto, l’archeologia del sapere. A costituire una sorta di intelaiatura ideale del saggio è il sottile fil rouge che sempre è sospeso tra il lavoro come comunemente è inteso e la sua origine ‘carceraria’. Il lavoro, partendo dalla sua facies carceraria che sempre ha posseduto nei secoli passati, si è messo la maschera e si è insinuato gradatamente nella normalità quotidiana, andando a coincidere con la vita di tutti i giorni: proprio per questo è senza fine (provate per un attimo a pensare alla vita quotidiana, alla normale routine della gente come a una sorta di ergastolo: vengono davvero i brividi…).

L’autrice sottolinea che esiste un’idea “moderna” di lavoro, sostanzialmente diversa da quella che sussisteva nelle civiltà precapitalistiche, e che esso è diventato il “perno dell’identità sociale (e di conseguenza di quella individuale, del «senso della vita», come dice Adam Schaff)” (p. 69). L’ideologia del lavoro deve essere connessa alle origini del “biopotere” (p. 70), mentre perfino il riposo è comandato (p. 76). Il lavoro, “virtù civile per eccellenza – è ora la cifra della normalità sociale” (p. 85): chi non lavora, è considerato alla stregua di un pazzo.

Turchetto dimostra bene – anche tramite le citazioni di testi tratti da Marx riguardanti le barbare leggi dell’Inghilterra del Cinquecento – il regime carcerario che sempre è sottinteso all’ideologia ‘lavoro’. Le citazioni da Marx e quelle da un economista ‘lombrosiano’ come Malthus, che sanno di una truculenza tutta barocca alle nostre orecchie, sono utilizzate opportunamente per mostrare come nulla è cambiato, almeno in profondità: la polizia e i suoi sgherri, anche nella nostra epoca postmoderna, restano sempre i cani da guardia del “biopotere”, mentre il lavoro (come, ad esempio, nel suo surrogato ‘interinale’) non è meno violento di quello all’interno di una fabbrica inglese dell’Ottocento.

Chi non lavora – si è detto – è posto alla stregua di un folle, un pazzo, quindi un personaggio scomodo che in ogni epoca si è sempre cercato di emarginare e rinchiudere. Come afferma l’autrice, si è cercato di organizzare razionalmente anche il tempo e lo spazio del nuovo potere tramite la figura del panopticon, mirato ad abolire, citando Foucault, “la folla, massa compatta […], effetto collettivo, in favore di una collezione di identità separate”

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. Per questo, chi non lavora è pazzo e va eliminato,

3 Cfr. p. 83. La citazione è da M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, trad. it., Einaudi, Torino 1976, p. 218.

perché il pazzo, ancora a detta di Foucault, “è il Differente solo nella misura in cui non conosce la Differenza; non vede ovunque che somiglianze e segni della somiglianza”

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; per questo, la società occidentale “non avrà più a che fare con similitudini, ma con identità e differenze”
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. Anche la società postmoderna mira a formare più differenze possibili, ad aprire inopinatamente le frontiere a culture diversissime e a fonderle tutte insieme perseguendo solo una cultura che, alla resa dei conti, appare inevitabilmente ‘falsa’ (un po’ come il calderone culturale della città del futuro immaginata nel film Blade Runner). Chi non lavora, perciò, come un pazzo, non vede ovunque che somiglianze e deve essere eliminato dalla società del lavoro che mira a creare quotidianamente assurde specializzazioni.

Non poteva certo mancare, in questo articolo così rigoroso, una riflessione sulla classe operaia. L’autrice afferma che “essa non è affatto scomparsa, e nemmeno diminuita” (p. 94), aggiungendo che “il movimento operaio, tuttavia, ha ampiamente introiettato l’ideologia del lavoro” (p. 95), divenendo esso stesso organo di controllo del lavoro e per il lavoro, esattamente come il potere, anzi, come il “biopotere”. Come si vede, le cose non sono molto cambiate dai tempi degli operai rincitrulliti di Lafargue (e ci vorrebbe anche oggi un altro Lafargue che li prendesse un po’ per i fondelli…), perché, come leggiamo anche nel Manifesto contro il lavoro, un pamphlet scritto dal gruppo tedesco Krisis recentemente tradotto in italiano, “il movimento dei lavoratori fu un movimento per il lavoro”

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. Del resto, la nostra autrice riserva parole abbastanza dure e critiche per chi, come appunto il Gruppo Krisis, teorizza la “fine del lavoro”: “Il mito della fine del lavoro si basa in effetti, in larga misura, su discutibili generalizzazioni: paradossalmente, proprio chi parla a ogni piè sospinto di «globalizzazione» azzarda poi previsioni epocali basandosi su bilanci occupazionali limitati a contesti nazionali, riferiti ai luoghi storici dell’industrializzazione novecentesca, relativi a settori e poli di sviluppo tradizionali, trascurando il resto del mondo” (p. 94). Ma, a nostro avviso, le teorie del Gruppo Krisis risultano sicuramente interessanti, e meritano senz’altro di essere divulgate, studiate e criticate anche insieme agli autori.

Per concludere, c’è una bella e acuta riflessione di Maria con cui vorremmo chiudere questo intervento e riallacciarci ad un film molto significativo in questo senso. La riflessione si trova a p. 85: “I cittadini «normali», dopo essere stati opportunamente educati al rispetto degli orari, alla diligente esecuzione dei compiti, alla permanenza in spazi chiusi e in posizioni assegnate dalle istituzioni scolastiche che si prendono cura di chi non è ancora abile al lavoro, possono liberamente cercare sul mercato un impiego. Questo ha normalmente le caratteristiche del «lavoro senza fine»: si svolge tutti i giorni, giorno dopo giorno, dà di che vivere più o meno dignitosamente ogni giorno purché non venga interrotto (se non eccezionalmente e per motivi tassativamente contemplati e gestiti dalle istituzioni preposte), occupa tutto il giorno lasciando liberi solo i tempi indispensabili alla sopravvivenza”.

Il film è Zero in condotta (Zéro de conduite, 1933) di Jean Vigo che racconta, con lieve poesia surreale, la storia di un gruppo di ragazzi all’interno di un rigido collegio francese di inizio Novecento, fino alla loro rivolta anarchica contro i poteri scolastici e le autorità costituite, contro “il rispetto degli orari, la diligente esecuzione

4 M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. Rizzoli, Milano 1970, p. 64.

5 Ibid., p. 65.
6 Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, trad. it. di A. Jappe e G. Rossi, DeriveApprodi, Roma 2003, p. 31 (la
frase funge da titolo al paragrafo 10).

dei compiti e la permanenza in spazi chiusi e le posizioni assegnate”. Quasi come dei ‘folli’, i ragazzi si ribellano all’ideologia della costrizione basata sul “sorvegliare e punire”, prendendo e ‘liberando’ uno spazio, rifiutando in tal modo, ab ovo, il “lavoro senza fine” a venire.

E per concludere veramente, ci viene proprio spontaneo affermare che è meglio essere ‘pazzi’ e liberi piuttosto che ‘normali’ e schiavi. (P. L.)

[ Tratto dal sito Web del gruppo Krisis – www.krisis.org ]

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