Nonluoghi Archivio Dall’influenza culturale della sinistra alla deriva di destra. Un tentativo di analisi

Dall’influenza culturale della sinistra alla deriva di destra. Un tentativo di analisi

di Nino Lisi *

PREMESSA

In Italia, tranne che nelle innocue elezioni europee che si svolsero sotto l’onda emotiva della morte di Enrico Berlinguer, le sinistre non sono mai prevalsesul piano elettorale.
Esercitarono invece, e per decenni, una grande influenza su quello culturale, segnando profondamente il senso comune del paese per un lungo periodo. Lo stesso risultato delle elezioni europee appena ricordate ne è prova. Se esse furono il punto di scarico dell’emozione suscitata dalla morte del leader comunista, lo potettero essere appunto per la considerazione ed il rispetto grandi che il PCI si era guadagnato anche tra molti di coloro che ne temevano l’ingresso al governo e gli votavano contro alle elezioni politiche. Considerazione e rispetto sono andati via via smarriti nel corso del tempo. Così, proprio quando, per gli avvenimenti succedutisi nell’ex Unione Sovietica ed i profondi mutamenti prodottisi in Italia nei partiti della sinistra, le ragioni dei timori nutriti in Italia nei confronti del PCI sono totalmente cadute, semmai avessero avuto davvero fondamento, le sinistre, invece di aumentare i propri consensi elettorali e rafforzare la propria capacità di influenzare l’opinione pubblica, hanno visto notevolmente scemare gli uni e l’altra. Ed il senso comune del paese reca oggi un forte segno di destra. Non bastano a spiegare tutto ciò né le scelte compiute dai partiti di sinistra né gli errori che le hanno accompagnate, anche se un peso hanno certamente avuto. Per comprenderne le cause, occorre scavare nel seno della società italiana ed indagare sulle modificazioni che in essa si sono verificate. I fattori che danno origine alla deriva di destra che attraversa il paesesono molteplici. Alcuni ben visibili sono evidenti anche a quanti non prestano particolare attenzione alle vicende della politica. Altri lo sono assai meno, ma non per questo hanno avuto un peso minore nel trasformare la società italiana. E’ ben difficile dunque valutare quali di essi abbiano inciso di più e quali meno. L’ordine con il quale li si analizza di seguito non vuole proporre perciò alcuna graduatoria di importanza né rispecchiare una cronologia.

IL DISSOLVIMENTO DELLA BALENA BIANCA

Con evidente allusione alle sue dimensioni, alla forza della sua presa sulla società e sullo Stato, oltre che al colore che ne distingueva la collocazione nell’arcobaleno politico del paese, veniva apostrofata così la Democrazia Cristiana. Il suo precipitoso dissolvimento è uno dei più appariscenti tra i fattori che hanno concorso alla modificazione della società italiana,. Per comprenderne la portata, bisogna andare però alle modalità della formazione del blocco sociale di cui la DC ha assunto la rappresentanza e la direzione dall’immediato dopoguerra sino alla sua scomposizione. Ed all’intreccio di interessi, intese ed alleanze che lo strutturarono. Nell’immediato dopoguerra diverse componenti del mondo cattolico, in primo luogo quelle antifasciste ma non solo esse, si attivarono per organizzare una formazione politica intenzionalmente e dichiaratamente interclassista, che raccogliesse l’eredità del popolarismo sturziano. A ridosso delle strutture ecclesiastiche e dell’associazionismo cattolico sopravvissuto al fascismo, venne a formarsi il nucleo iniziale della DC, tenuto insieme da un duplice collante: uno di tipo fortemente ideologico, “l’unità politica dei cattolici”, l’altro di carattere più specificamente politico,l’anticomunismo. Proprio questo secondo consentì il collegamento, in occasione della costruzione della diga anticomunista organizzata da De Gasperi d’intesa e con l’appoggio del Vaticano e degli alleati, di realizzare tre operazioni: ·collegare alla DC, sulla base di uno scambio, i ceti dominanti – quelli che in seguito si sarebbero chiamati i poteri forti – e quanti avevano posizioni da difendere: il loro appoggio a fronte della tutela dei loro interessi, ·stabilire un’alleanza con le alte burocrazie ed apparati statali e con le gerarchie militari, con la conseguenza di rendere impossibile qualsiasi elemento di discontinuità con le strutture dello stato fascista che a sua volta le aveva ereditate da quello unitario,·assorbire nell’area di influenza del partito quei larghi strati di popolazione – soprattutto ceti medi – timorosi che il prevalere dei comunisti avrebbe provocato sommovimenti economici e rivolgimenti sociali. Così entrarono a far parte del blocco sociale ad egemonia democristiana anche quei settori della società italiana che durante la Resistenza non avevano preso partito né per gli uni né per gli altri ed ai quali gli storici della Resistenza avrebbero affibbiato la denominazione di “area grigia”; un’area con forti connotazioni conservatrici, rinchiusa nella gelosa e timorosa custodia del “proprio particolare”, amante poco della democrazia e molto del quieto vivere; di per sé, quindi, fortemente di destra. Nel grande corpo della Balena Bianca si ritrovò in tal modo di tutto: componenti seriamente riformatrici come quelle che hanno fatto capo a Vanoni e Saraceno; orientamenti anticapitalisti di matrice sindacale alla Pastore ed alla Donat Cattin; spinte progressiste e modernizzanti, ancorché venate di integralismo, come quelle presenti nel dossettismo e nelle sue derivazioni; posizioni convintamente democratiche e progressiste, impersonate dagli esponenti del gronchismo prima maniera e da leader quali Pistelli e Zaccagnini, per citarne solo alcuni; il moderatismo illuminato alla De Gasperi ed alla Moro; il conservatorismo lealista alla Scalfaro; il conservatorismo pragmatico dei dorotei; l’esercizio del potere intelligente e spregiudicato sino al cinismo di Andreotti e l’esercizio bieco del sottogoverno alla Bisaglia ed alla Gava; tensioni decisamente reazionarie e pulsioni clerico-fasciste, dai referenti mutevoli e perciò identificabili più che in singoli personaggi – che hanno agito per lo più nelle oscurità di curie, logge ed apparati statali – in una serie di episodi che vanno dal tentativo del listone sturziano al Governo Tambroni e ai governi nazionali e locali appoggiati dal MSI, dalla teorizzazione degli opposti estremismi all’intreccio di connivenze e complicità con la strategia della tensione. In questo variegato ed ambiguo magma di posizioni contraddittorie edi ispirazioni contrastanti, gli atteggiamenti dei maggiori leader democristiani si sono connotati in un senso o nell’altro a seconda delle circostanze: De Gasperi, artefice delle alleanze con le quali aveva costruito la diga anticomunista e strenuo assertore della necessità assicurare la continuità dello Stato, fu però deciso oppositore del “listone sturziano”; Moro si oppose a Tambroni ed insieme a Piccioni contrastò il tentativo di Segni di appoggiare il Piano Solo del generale De Lorenzo, ma coprì con i famosi “omissis” le responsabilità del tentato golpe; Taviani, rappresentante della destra economica ha denunciato in più occasioni l’errore degli opposti estremismi e dell’anticomunismo ad oltranza.Quel che nell’economia del nostro discorso occorre sottolineare sopra ogni altro aspetto è che se la Balena Bianca, inglobando nel proprio mastodontico corpo i settori più reazionari e retrivi della società italiana e le molte tensioni eversive che alcuni di essi hanno espresso, è riuscita tutto sommato a mantenere in vita nel paese le forme della democrazia, non è riuscita però a guadagnare effettivamente alla causa democratica e tampoco alla sua versione progressista molte delle componenti del suo blocco sociale. Così, quando il collante dell’anticomunismo è venuto meno a seguito delle vicende politiche che sono emblematicamente culminate nell’89 nella caduta del muro di Berlino e l’organizzazione del partito si è sfaldata per effetto delle azioni giudiziarie, quelle componenti, ormai non più incapsulate nell’enorme ventre della Balena Bianca, sono andate in libera uscita, costituendo uno dei flussi costitutivi della deriva di destra.

IL DISSOLVIMENTO DELL’ARCO COSTITUZIONALE

Questo flusso ne ha incrociato altri provenienti dallo sdoganamento della destra fascista. Sdoganamento di cui è stato artefice in primo luogo Francesco Cossiga che, con le picconate dell’ultimo periodo del mandato presidenziale, disgregò la demarcazione a destra del quadro politico che era durata per circa un cinquantennio.. Alla rottura del Comitato Nazionale di Liberazione, operata da De Gasperi per erigere la diga anticomunista, seguì la convenzione ad escludendum nei confronti del PCI e dei suoi alleati; essa è coesistita per quasi cinquant’anni con la demarcazione sulla destra del cosiddetto arco costituzionale. Questo includeva sole le forze politiche che avevano dato vita alla Costituzione repubblicana tenendone di conseguenza fuori il MSI. La solidarietà delle forze antifasciste ha retto anche nei momenti più torbidi del vita politica italiana, quando i rapporti tra DC e MSI andarono bene al di là dei frequenti ammiccamenti per sfociare in intese ricattatorie più o meno esplicite e persino quando – anzi soprattutto allora – più pesante è divenuto il gioco dei poteri occulti che trovavano nella connivenza di alcuni settori ed esponenti della DC la loro origine. Proprio a tale solidarietà si deve in definitiva se le forme della democrazia sono sopravvissute a dispetto dei tentativi di golpe, dell’azione dei cosiddetti apparati deviati e della Cia, delle stragi, degli attentati, etc. Ma allorché si profilò la possibilità del dissolvimento della Balena Bianca, Cossiga, secondo un lucidissimo quanto ambiguo disegno politico, dette mano al piccone per dissolvere contemporaneamente anche la demarcazione dell’Arco Costituzionale con l’evidente scopo di bilanciare a destra, con lo sdoganamento delle forze di ispirazione fascista e la loro legittimazione ad inserirsi a pieno titolo nel gioco democratico, il peso che con la crisi della DC avrebbero potuto assumere il PCI e le altre forze della sinistra. In tal modo le formazioni che sul piano politico e nella società civile avevano sino ad allora potuto giocare solo di rimessa, sono state inserite pienamente nell’agone politico in funzione di contrasto alle sinistre ed hanno potuto raccogliere non solo i consensi ma anche l’apporto di dirigenti e di quadri un tempo incapsulati nella Balena Bianca. Alcuni esempi emblematici degli effetti dei due processi descritti possono facilmente rintracciarsi analizzando il quadro politico recente. Può citarsi al riguardo la formazione della Liga Veneta, sorta proprio in quell’area del Nord-Est sul quale era insediata la rete clientelare del doroteismo veneto che aveva fatto capo a Piccoli, Rumor e Bisaglia ed in concomitanza con la loro scomparsa od il loro declino politico. Può citarsi ancora il passaggio al MSI prima e ad AN poi di noti esponenti della destra democristiana, quali Gustavo Selva e Publio Fiore.

LA FINE DEL CASO ITALIANO

Singolarmente, la crisi della DC è immediatamente seguita alla conclusione – segnata dai Governi Andreotti e Craxi – dello scontro protrattosi per decenni all’interno del partito tra la sinistra e la destra, dal quale la prima è uscita gravemente sconfitta. Con questa sconfitta è iniziata la fine del caso italiano, caratterizzato non soltanto dalla presenza del più forte partito comunista dell’occidente e di un forte sindacalismo di classe, ma anche – se non soprattutto – dal tentativo di realizzare il disegno di economia mista delineato nel Costituzione, i cui assi erano la sperimentazione di politiche di programmazione, forme di indirizzo dell’attività delle imprese private (i famosi lacci e lacciuoli di cui si invocava la eliminazione) il ruolo imprenditoriale assunto dallo Stato- lo Stato Imprenditore, appunto – con lo sviluppo del sistema delle Partecipazioni Statali. Lo stesso intervento straordinario per lo sviluppo del Mezzogiorno, per la sua ispirazione originaria e la sua strumentazione, rientrava nel quadro dell’economia mista ed a ragione di ciò fu terreno di conflitto all’interno della DC tra le opposte tendenze. A questo riguardo va ricordato che nella seconda metà degli anni sessanta il presidente del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, il democristiano Giulio Pastore, in una delle annuali relazione al Parlamento sull’attuazione degli interventi, auspicava che la “politica straordinaria” cessasse al più presto poiché il problema del Mezzogiorno avrebbe potuto essere risolto solo se l’intero insieme delle politiche economiche governative lo avesse assunto come obiettivo prioritario. Ed aggiungeva che di straordinario dovessero restare solo gli strumenti di attuazione dell’intervento pubblico, non essendo le strutture ordinarie dello Stato in grado di sviluppare lo sforzo necessario per invertire le dinamiche sottese al dualismo del sistema socioeconomico del paese. Nel disegno originario gli strumenti straordinari dovevano porsi anche come elemento di discontinuità rispetto all’assetto statuale e soprattutto come opportunità per promuovere la formazione di una nuova classe dirigente che sostituisse il vecchio notabilato meridionale che si era raccolto sotto le insegne dello Stato unitario, prima, di quello fascista, dopo, e della DC, da ultimo. Ma le cose non andarono in questo senso. Via via che le forze contrarie al disegno riformatore ebbero la prevalenza all’interno della DC e nel paese, la politica per il Mezzogiorno fu finalizzata ad altri obiettivi e piegata ad altri interessi, mentre il complesso degli enti che ne costituivano l’apparato operativo furono gradualmente risucchiati dentro il sistema clientelare democristiano e divennero, insieme al sistema delle Partecipazioni Statali, parte integrante delle basi materiali sulle quali la DC ha costruito e gestito il suo sistema di mediazione sociale. Per questa ragione, quando nel quadro delle azioni di risanamento del bilancio statale disastrato dalle sciagurate politiche degli anni ottanta – il nefasto periodo del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) – si pose mano al contemporaneo smantellamento del sistema delle Partecipazioni Statali e della politica e degli strumenti dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, non vi fu alcuno in grado e disponibile ad opporsi. Le stesse sinistre cavalcarono la tigre degli smantellamenti nell’intento di assestare un colpo grave al potere della DC, non accorgendosi che così facendo se, per un verso, concorrevano all’indebolimento del partito che era stato dominante, per un altro, contribuivano alla eliminazione delle componenti strutturali dell’anomalia italiana. Il sistema Italia fu completamente omologato al modello delle economie e delle democrazie europee, secondo gli schemi del neoliberismo dilagante. Non a caso proprio in quei frangenti da più parti si invocava a gran voce la modifica della Costituzione, non solo nella seconda parte, ma anche nella prima. Di quella Costituzione che Salvatore D’Albergo, noto costituzionalista e dirigente del PCI, aveva affermato negli anni settanta di non poter definire anticapitalista, ma certamente qualificare a-capitalista. Con la fine del caso italiano si realizzò un altro importante tassello di quell’insieme di spinte che hanno generato la deriva di destra.

IL RIBALTAMENTO DEL PROCESSO DI PROLETARIZZAZIONE DEI CETI MEDI

Le ventate del ’68 e del ’69 avevano innescato un processo di sensibilizzazione culturale dei ceti medi e lo spostamento di ampi strati di questa fascia sociale su posizioni di sinistra, creando nuovi legami di solidarietà ed estendendo la coscienza di classe a ceti che mai avrebbero anni prima accettato di confondersi con il proletariato. Alcune circostanze ne forniscono ampia dimostrazione. Negli anni settanta le tre maggiori centrali sindacali negoziarono con le rappresentanze padronali (che pudicamente nei documenti ufficiali venivano chiamate “datoriali”) il Piano Unico delle Qualifiche nel quale venivano unitariamente inquadrati per la prima volta sia gli operai che gli impiegati, sicché allo stesso livello di inquadramento potevano trovarsi lavoratorisia che svolgessero mansioni da operaio sia impiegatizie. A metà degli anni settanta, in occasione del rinnovo del contratto nazionale dei dirigenti delle imprese industriali inquadrati nella FINDAI, si sviluppò nella categoria un ampio dibattito a conclusione del quale si decise di rifiutare la definizione del dirigente di impresa quale “alter ego” dell’imprenditore e di rivendicare per questa figura di lavoratore un ruolo autonomo e primario – non derivato – all’interno della organizzazione della impresa. Nell’assemblea nazionale che sancì la svolta erano presenti non pochi dirigenti dichiaratamente di sinistra – socialisti e comunisti. Nello stesso periodo si sviluppò nel Gruppo Eni un processo di sindacalizzazione dei dirigenti. La prima Rappresentanza Sindacale Aziendale della Holding, a seguito di votazioni organizzate dal Sindacato Romano Dirigenti, risultò costituita così: da un iscritto al PRI, da un socialista della sinistra lombardiana, da un esponente di area comunista, da un iscritto al PCI e da un iscritto al PdUP. La rappresentanza sindacale dei dirigenti dell’IRI, in quegli stessi anni, non era diversamente orientata. Questo processo con gli anni ottanta si è arrestato sino a ribaltarsi, nel senso che almeno in alcuni settori operai ha preso piede una sorta di strisciante imborghesimento. Una significativa testimonianza di questa tendenza è venuta nel corso dei lavori di una recente assemblea della Sezione Romana dell’Associazione per la Rinascita della sinistra. Si era nel pieno dell’operazione di privatizzazione dell’Enel. Uno degli intervenuti riferì come fra i dipendenti dell’ente elettrico l’operazione fosseseguita con grandissimo interesse e che numerosi erano i capannelli che si formavano spontaneamente. Ma il tema in discussione non era, come ci si sarebbe potuto attendere, il futuro assetto dell’azienda, il rischio (o la certezza) di una riduzione degli organici, il ruolo che da privato l’Enel avrebbe potuto giocare; ma il valore delle azioni, la possibilità di prenotarne un numero interessante, etc. Ed a manifestare interesse a sottoscrivere le azioni non erano dirigenti o impiegati di alto livello soltanto, ma anche impiegati di basso livello ed operai. Del resto, era già noto che il popolo dei possessori di BOT era fatto anche da famiglie operaie, certo per somme in assoluto piccole, ma rilevanti per i singoli sottoscrittori trattandosi spesso dei risparmi di una vita. Ciò non è un male in sé; ma è significativo di un mutamento culturale, di un apprezzamento e di un’aspirazione al benessere che può diventare l’humus su cui possono facilmente innestarsi i miti del guadagno facile e del successo, l’idea che successo e ricchezza siano l’inequivocabile segno delle capacità individuali. Cioè idee e valori tipicamente di destra, su cui ha fatto leva appunto, e con successo, lo stesso Berlusconi per catturare voti anche in ambienti operai. Era stata anche prevista la quasi assoluta estromissione dei genitori dalla

LA RISTRUTTURAZIONE DELLA GRANDE IMPRESA E LO SVILUPPO DELLA PICCOLA, NELL’ERA DEL “PICCOLO È BELLO”

A cavallo degli anni settanta ed ottanta, per la concomitanza di una pluralità di cause il modello basato sulla grande e grandissima fabbrica e sulle grandi concentrazioni operaie è andato in crisi. Quattro fenomeni conseguenti o in qualche modo collegati alla crisi della grande dimensione è utile analizzare ai fini del nostro ragionamento: 1.l’autonomizzazione, rispetto alle grandi, delle piccole e medie imprese sub-fornitrici o fornitrici 2.lo sviluppo dei distretti industriali 3.l’esternalizzazione di molte attività e funzioni in precedenza organizzate e svolte all’interno delle grandi e medie imprese 4.il diffondersi di nuove attività produttive di dimensioni minime – attività da sottoscala, si diceva – che strappavano alle grandi imprese le produzioni a basso valore aggiunto.I primi due hanno portato modificazioni non marginali alla composizione ed alla collocazione della classe imprenditoriale. Le piccole e medie imprese che trovavano nelle grandi e grandissime imprese il principale se non esclusivo sbocco commerciale hanno dovuto, per sopravvivere (almeno quelle che vi sono riuscite), misurarsi direttamente con il mercato, sviluppando proprie autonome strategie lungo tutte le funzioni d’impresa. Altrettanto hanno dovuto fare le medie piccole e piccolissime imprese che si sono costituite nei distretti di nuova generazione. Ciò ha portato ad evidenziare maggiormente e ad acuire le differenze di interessi rispetto alle grandi, con conseguenze sia sul piano della rappresentanza sindacale sia su quello dei riferimenti politici. Sul primo, per l’accresciuto peso dell’imprenditoria piccola e media all’interno della classe imprenditoriale italiana si sono verificati da una parte il rafforzamento della Confapi e dall’altra un accresciuta incidenza all’interno della Confindustria, i cui presidenti, non a caso, sono ormai da molte tornate scelti tra gli esponenti della media imprenditoria. Sul secondo, la scelta di referenti politici differenziati non poteva che cadere a destra. I grandi potentati economici avevano fatto riferimento alle forze di governo e soprattutto alla DC, senza sfuggire al confronto anche con il PCI – specialmente nell’epoca del cosiddetto consociativismo. L’imprenditoria piccola e media, sia a ragione della carica di rivendicazioni di cui era animata, sia per l’ideologia dell’arricchimento e per l’orgoglio del successo che l’ispiravano, non poteva che trovare più a destra i propri riferimenti politici. Significativo, a questo riguardo, il gran tuonare di Bossi contro i “poteri forti” e contro la grande impresa. Anche gli altri due effetti della crisi della grande dimensione hanno portato alla nascita di nuove figure imprenditoriali, ma – almeno all’inizio – molto diverse. Sia quelle formatesi in connessione con i processi di esternalizzazione sia gran parte di quelle formatesi con la gestione delle attività “da sottoscala” erano ex dipendenti o – nel secondo caso – ancora dipendenti nelle imprese maggiori. Ambedue avevano esperienza diretta di cosa significhi sfruttamento ed alienazione; le prime sperimentavano ormai anche una condizione di estrema precarietà e di più intenso sfruttamento. Erano dunquesoggetti potenzialmente di sinistra; in molti casi, anzi, lo erano non solo potenzialmente. Ma la sinistra non li ha riconosciuti. Qualche volta li ha scambiati persino per bottegai. Alla lunga essi non potevano che rifugiarsi nell’astensionismo o rivolgersi a destra. Non si può a questo proposito non sottolineare che le precedenti forme di attività produttive precarie e fortemente sfruttate, quali quelle delle lavorazioni a domicilio sulle quali negli anni sessanta e settanta si era basata la subfornitura del tessile-abbigliamento, non avevano portato a connotazioni di destra di questi soggetti . Basta rifarsi ad un celebre un lavoro teatrale di Dario Fo, degli anni settanta, per rendersene conto. Negli anni ottanta e novanta non è stato più così: in parte per l’insipienza delle sinistre, in parte per il pensiero neo liberista che ha inondato anche l’Italia. NUOVI RICCHI (O ASPIRANTI TALI) E POVERI VECCHI E NUOVI Negli anni ottanta anche in Italia è comparsa la figura degli yuppies: giovani ambiziosi ed intraprendenti, dediti prevalentemente a professioni manageriali o di tipo finanziario, fortissimamente tesi alla carriera, al rapido successo, al raggiungimento di alti redditi, votati, sino all’assillo, all’efficienza delle performances come alla cura del proprio benessere fisico e del proprio aspetto. Gli yuppies divengono i portatori di una specie di ideologia del benessere: un benessere fisico, psichico e soprattutto economico che può e deve essere alla portata di tutti. E’ l’epoca del grande lancio dei B.O.T., dei fondi di investimento e di quel che secondo l’espressione di una trasmissione di Enzo Arbore potremmo chiamare l’edonismo reganiano; il popolo italiano, che già negli anni cinquanta e sessanta era stato trasformato in un popolo di seicentisti (tutti o quasi aspiravano ad una Fiat Seicento se non la possedevano), si va trasformando in un popolo di investitori. Ciò, ovviamente, non è senza influenza sugli approcci culturali collettivi e sui comportamenti individuali: perché scegliere la durezza della lotta politica, quando sono a portata di mano soluzioni più morbide dei propri problemi?. Con le politiche di risanamento del bilancio statale degli anni novanta, i B.O.T però perdono l’originaria attrattiva. La conservano i fondi di investimento ai quali si aggiungono nuove forme di impiego dei risparmi: svariati prodotti finanziari e la sottoscrizione di azioni o il loro acquisto in borsa. Si va diffondendo così una nuova figura. Una volta – sino ad alcuni decenni prima – esistevano i cassettisti, detentori di titoli, per lo più a reddito fisso, che conservavano (metaforicamente, ma non troppo) in un cassetto i preziosi certificati, limitandosi a tagliare alla scadenza le cedole degli interessi, per portarle all’incasso. La figura che si diffonde ora è più moderna, più dinamica, più colta: legge – anzi, scruta – quotidianamente i giornali economici ed ascolta sistematicamente – anzi, origlia tra una notizia e l’altra – radio e TV ed ogni altra fonte di informazioni; naviga accortamente in Internet. Tutto ciò lo finalizza al gioco di Borsa.

Gioca da solo ed organizzando piccole cordate tra parenti ed amici, ottenendo spesso risultati di non poco conto. Questa attività sta diventando una vera e propria professione, un lavoro. Che più spesso è il secondo; ma qualche volta diventa il primo. E poi c’è il pullulare delle diverse forme di Lotto e le infinità di lotterie che diffondono il mito dell’arricchimento facile, senza sforzo; del tentare la fortuna; dell’azzardo. Ed ogni volta che c’è una vincita favolosa interi paesi entrano in festa ed acclamano l’ignoto vincitore, identificandosi in lui. Così, silenziosamente, subdolamente, l’ideologia di destra pervade la società italiana, ne permea i diversi strati sociali, si insinua anche in quel che una volta si chiamava “popolo della sinistra”. Ancora una volta, perché sobbarcarsi alla fatica dell’impegno politico, quando ci si può affidare, per di più divertendosi, un po’ alla fortuna ed un po’ alla propria abilità? Ma tra gli anni ottanta ed i novanta si è dispiegato anche un altro fenomeno. Di segno assolutamente opposto, ha avuto sul piano degli orientamenti politici un’influenza analoga a quella dei fenomeni descritti prima. In questo ventennio ampi strati della popolazione italiana hanno sperimentato la precarietà del lavoro e delle condizioni economiche o, soprattutto nel Sud, addirittura la preclusione al lavoro. In presenza del dilagare dell’ideologia del benessere e della ricchezza facile, nonché della crisi delle ideologie che ha travolto con sé molti ideali e sensibilità, compresa la coscienza di classe, molti di coloro che hanno sofferto di quelle esperienze, anziché essere motivati alla lotta politica per rimuovere le cause della propria emarginazione, hanno rivolto le proprie speranze all’avvento messianico di una società ancora più opulenta nella quale ci sia ricchezza per tutti; oppure si sono affidati al rivendicazionismo populista. In ogni caso, si sono rivolti a destra.Questo fenomeno non può essere iscritto tra i fattori che direttamente hanno concorso a determinare la deriva di destra, ma ha agito in qualche modo da catalizzatore, da elemento che ha facilitato oreso possibile il dispiegarsi degli effetti di quelli. La perdita di centralità non ha nulla a che vedere con l’aumentare o il diminuire in senso assoluto del numero dei lavoratori dipendenti. Ma ha a che vedere con due circostanze: che il lavoro vivo è più facilmente sostituibile con lavoro morto; che per unità di prodotto è decrescente il fabbisogno di lavoro vivo. Il fattore strategico della produzione non è più l’operaio, ma la tecnologia; i modelli produttivi non sono basati più sulla organizzazione del lavoro umano, bensì sull’elettronica. E’ l’importanza del ruolo del lavoro subalterno nella organizzazione della produzione e dell’attività economica che è scemata. Questo non solo ha portato alla inevitabile perdita di potere contrattuale dei lavoratori, ma ha sminuito la potenzialità della cultura operaia. E’ venuto meno così il fattore che avrebbe potuto fare da argine alle ideologie neoliberiste ed ai suoi corollari, sui quali ci si è intrattenuti prima.

I NUOVI SOGGETTI

Se ne fa un gran parlare, a sinistra, sin dalla fine degli anni settanta. Ma per un lungo periodo sono stati una sorta di araba fenice: tutti sapevano che c’erano, ma nessuno sapeva dove e com’erano. Con il declino del lavoro dipendente, l’evoluzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro e del consumo ha portato ad una modificazione dei meccanismi di sfruttamento e di alienazione, non nel senso che siano meno incidenti di prima, tutt’altro; nel senso che sono divenuti più subdoli (cioè meno evidenti) e più estesi: non passano più soltanto e forse nemmeno più prevalentemente per i rapporti di lavoro dipendente, ma colpiscono anche altri soggetti e per altre strade: il lavoro cosiddetto parasubordinato (il popolo delle Partite Iva, dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, dei lavori occasionali), molte forme di lavoro autonomo, gli stessi inconsapevoli consumatori. Si è trattato anche in questo caso di soggetti potenzialmente di sinistra che la sinistra non ha riconosciuto in tempo e nulla ha fatto perché si sviluppasse tra essi una coscienza di classe. Si è sviluppato al contrario, tra questi soggetti, qualcosa che somiglia alla Sindrome di Stoccolma: subiscono il fascino di quegli elementi contro cui dovrebbero insorgere e lottare.

CONCLUSIONI

Questo tentativo di analizzare le dinamiche che hanno originato la deriva di destra che da anni caratterizza l’Italia, si conclude qui, senza alcuna pretesa di averle colte tutte, di avere analizzato approfonditamente quelle colte, di aver messo in luce i lori intrecci e le loro interdipendenze. Un approfondimento specifico meriterebbe ad esempio – ma l’argomento meriterebbe un’analisi a se stante – il Craxismo e delle ragioni che hanno portatomolti dei suoi esponenti e dei loro consistenti seguiti a confluire nell’area di Forza Italia. Ma probabilmente ce ne è già abbastanza per fornire spunti ad un dibattito che focalizzi la riflessione su aspetti di carattere strutturale e ricolleghi ad essi l’analisi delle dinamiche politiche. Collegamento purtroppo caduto in disusso, a sinistra, ma che resta essenziale per chiunque voglia proporsi come soggetto di cambiamento. L’interrogativo circa il “Che fare?”, non può trovare infatti risposta che partendo da un’analisi che tenga in gran debito conto i dati di struttura.

29 agosto 2000 – Fondi
* Tratto dal sito del Gruppo di Lugano: www.ilgruppodilugano.it

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