Nonluoghi Archivio I “cancellati” in Slovenia: una questione europea

I “cancellati” in Slovenia: una questione europea

Nella Repubblica Federativa Socialista Jugoslava, lo status di cittadino si articolava su tre livelli. La cittadinanza jugoslava era garantita a chiunque nascesse da genitori Jugoslavi. Grazie a essa si accedeva, in linea di principio, a tutti i diritti civili e politici.
Vi era poi un’ulteriore istituzione, la “cittadinanza di una repubblica”, in base alla quale le persone venivano formalmente iscritte nel Registro dei cittadini di una delle sei repubbliche (Slovenia, Serbia, Montenegro, Croazia, Macedonia, Bosnia-Herzegovina) che hanno costituito, fino al 1991, lo stato federativo Jugoslavo (nel biennio 1991 – 1992 la maggioranza di queste repubbliche sono diventate stati indipendenti).

“L’istituzione legale chiamata “cittadinanza di una repubblica” era sconosciuta alla gente comune. Mateuž Krivic, che è stato uno dei giudici della Corte Costituzionale slovena, ha più volte dichiarato ufficialmente che nella Repubblica Federativa Jugoslava tale istituzione era del tutto ignota perfino a numerosi avvocati”. [Zorn, p. 93]

Moltissime persone erano completamente all’oscuro di quale fosse la loro effettiva classificazione burocratica in quanto “cittadini di una repubblica”. Tale classificazione era invece registrata negli archivi di polizia, dove veniva integrata da un’ulteriore informazione relativa alla cosiddetta “identità etnica”.

Si incontrava infine un terzo livello, determinante sotto il profilo dei diritti civili, ma abbastanza sorprendente per chi non sia familiare con il contesto federativo, multi-nazionale e multi-culturale della Repubblica Jugoslava: la cosiddetta “residenza permanente” (stalno prebivališče).

La “residenza permanente” era la chiave che consentiva di fruire della quasi totalità dei diritti civili: casa, lavoro, istruzione, assistenza sanitaria…
Solo attraverso di essa i cittadini jugoslavi diventavano “cittadini” nel pieno senso del termine, secondo un’accezione di “cittadinanza” funzionale e relazionale e non “etnica”, che si riferisce alla possibilità di vedersi effettivamente garantire i diritti civili e il rispetto dei diritti umani.

In base alla “residenza permanente”, e non all’iscrizione nel Registro dei cittadini di una Repubblica, quanti erano in possesso della cittadinanza jugoslava potevano esercitare il diritto di voto nei referendum e alle elezioni amministrative.

La “residenza permanente” poteva essere concessa anche agli stranieri, estendendo loro i diritti civili (escluso il diritto di voto) dei cittadini della Repubblica Federativa Jugoslava.
Tra due fuochi

Il 25 giugno 1991 la Slovenia proclama la propria indipendenza dalla Repubblica Federativa Socialista Jugoslava.
In quel momento, sul suo territorio risiedono stabilmente oltre 200.000 persone (il 10% della popolazione) che non risultano iscritte nel Registro dei cittadini della Repubblica Slovena.

Fin dal 6 dicembre 1990 (quando fu indetto il plebiscito destinato a sancire, il 23 dicembre dello stesso anno, l’indipendenza del paese) i gruppi parlamentari avevano formalizzato un accordo che prometteva ai membri delle minoranze italiana e ungherese e ai cittadini delle altre repubbliche jugoslave che l’esito del plebiscito non avrebbe modificato il loro “status” politico e i loro diritti civili, invitandoli a partecipare alla votazione.
Nelle “Linee guida per la nuova Costituzione slovena”, varate dal parlamento il 25 giugno 1991, si legge:

“La Repubblica di Slovenia garantisce la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali di tutte le persone che si trovano sul suo territorio, indipendentemente dalla loro origine nazionale, senza alcun tipo di discriminazione…” (art. 3)

Immediatamente prima della proclamazione dell’indipendenza, inoltre, il governo aveva promesso che avrebbe reso possibile ai circa 200.000 “immigrati interni” provenienti dalle altre repubbliche l’acquisizione della cittadinanza slovena. Questo principio fu formalizzato nella Legge sulla cittadinanza (25 giugno 1991) e nella stessa Costituzione Slovena.

Le condizioni per acquisire la nazionalità slovena erano tre:
1) essere stati in possesso della “residenza permanente” in Slovenia alla data del 23 dicembre 1990 (quando ebbe luogo il referendum sull’indipendenza)
2) tale residenza doveva essere effettiva
3) presentare formale richiesta di acquisire la nazionalità slovena, entro il termine di sei mesi.

Secondo i dati del Ministero dell’Interno, a circa 170.000 persone, provenienti dalle altre repubbliche, sarebbe stata conferita la nazionalità slovena sulla base delle condizioni sopra elencate.

Rimanevano oltre 30.000 persone. Di queste
– circa 11.000 avrebbero lasciato la Slovenia
– 18.305 non avrebbero presentato la richiesta di acquisire la nazionalità slovena entro i termini fissati (che, come si è detto, erano di soli sei mesi), oppure avrebbero presentato domanda in tempo utile, ma essa sarebbe stata respinta (le istanze rigettate, secondo il ministero, sarebbero state 2.400). Tutti costoro, in ogni caso, erano in possesso della cittadinanza jugoslava e della “residenza permanente” in Slovenia.

Dal balletto delle cifre rese pubbliche, in modo tardivo e reticente (nel 2002), dal Ministero degli interni, non si riesce a evincere la consistenza di un terzo gruppo di persone: coloro ai quali fu concessa in un primo momento, e in seguito inspiegabilmente revocata, la cittadinanza slovena.
Va specificato inoltre che la cifra di 18.305 persone si basa su dati non verificati, comunicati dal Ministero dell’Interno molti anni dopo i fatti, sotto la pressione dell’opinione pubblica.
Vi è il fondato sospetto che il numero dei soggetti che si sono trovati in questa condizione sia molto più alto. A Helsinki Monitor, un’organizzazione non-governativa molto attiva in Slovenia, lo stesso ministero aveva infatti riferito una cifra sensibilmente maggiore: 62.816 persone (Rapporto annuale, International Helsinki Federation for Human Rights, 2001 – basato su dati comunicati dal Ministero dell’Interno nel dicembre 2000).
Le informazioni relative a questo aspetto sono, a tutt’oggi, secretate e non consultabili.

In ogni caso, il dato “ufficiale” di “sole” 18.305 persone corrisponde a circa l’1% della popolazione slovena.

Le ragioni per le quali un numero così elevato di persone non ha richiesto la nazionalità slovena sono diverse.
Molti erano impossibilitati a reperire i documenti necessari, dal momento che nelle regioni d’origine era esplosa la guerra. Altri non furono informati per tempo, essendo malati o assenti dalla Slovenia.
Diverse persone, sconcertate dalla rapidità con cui precipitava il processo di disintegrazione dello stato federale, non se la sentirono di rinunciare allo status di “cittadino della Repubblica Federativa Socialista Jugoslava” per adottare quello di “cittadino sloveno” – punto e basta. Alcuni confondevano il concetto di “cittadinanza” con la cosiddetta “appartenenza etnica” e si sentivano rom, o ungheresi, o “bosniaci”, piuttosto che “sloveni”.
Altri infine, nati e cresciuti in Slovenia, erano certi che la nazionalità slovena sarebbe stata loro accordata automaticamente.

Nessuna di queste persone, in ogni caso, poteva sospettare che la mancata acquisizione della nazionalità della neonata Repubblica Slovena avrebbe comportato la perdita di tutti i diritti civili e la sostanziale compromissione dei diritti umani.

La “cancellazione” (Izbris)

Il 26 febbraio 1992 con un’operazione segreta il Ministero degli interni della neonata Repubblica di Slovenia (retta da un governo di centro-destra) rimuove dai registri di residenza permanente tutti i cittadini jugoslavi (18.305 persone, secondo i dati diffusi diversi anni dopo dallo stesso Ministero degli Interni) che non hanno richiesto, o non hanno ottenuto la nazionalità slovena, privandoli con questo atto di ogni diritto civile e facendo venir meno le basi legali e materiali della loro esistenza.

Nella Slovenia di oggi, infatti, come nel precedente stato federale jugoslavo, i diritti sociali (diritto al lavoro, alla scolarizzazione, alla casa, alla pensione, all’assistenza sociale e sanitaria – la possibilità stessa di aprire un conto corrente bancario…) sono strettamente legati al permesso di “residenza permanente”, una sorta di “zoccolo duro” al quale sono ancorati
i diritti delle persone.

La rimozione avvenne senza la minima base legale e senza che le persone coinvolte fossero informate. I loro dati anagrafici furono spostati dal registro dei residenti permanenti della Repubblica Slovena a un altro elenco (“Neaktivna evidenza – Evidenza inattiva” – uno dei misteriosi “buchi neri” del Ministero degli Interni), che raccoglie i nominativi di quanti, non essendo più in vita o per altri motivi, hanno perso definitivamente l’esercizio dei diritti civili.
Ha luogo, con questo atto, la “cancellazione” di oltre 18.000 persone. Un “genocidio virtuale” che si consuma davanti ai monitor dei computer, ma è destinato ad avere effetti devastanti su molte decine di migliaia di cittadini. Esso, infatti, non coinvolge solo i singoli “cancellati”, ma l’insieme delle loro famiglie.

Sul momento, tuttavia, in apparenza nulla accade. La vita procede normalmente, nella tranquilla Repubblica di Slovenia.
Dovranno trascorrere mesi, oppure anni, prima che gli “izbrisani”, i “cancellati”, si rendano conto che è stata decretata la loro “morte civile”.
La rivelazione avviene in vari modi, con apparente casualità, secondo un copione che mira a dissimulare il carattere premeditato e sistematico dell’intera operazione.

“Nel 1992 volevo rinnovare, a Dravograd, la mia patente di guida. L’impiegata mi aveva chiesto di portare anche il passaporto perché doveva registrare dei dati. Ha preso il passaporto, è andata in un’altra stanza e l’ha bucato. (…) Mi parve strano, perché era valido fino al 1995. Infine concluse: “Lei non può avere i nostri documenti.” Così sono rimasto senza documenti e, ovviamente, la mia patente non è stata prorogata. L’impiegata mi disse che potevo farlo nel mio paese.”
[Zorn, p.104-105]

E’ una delle modalità classiche attraverso le quali puoi scoprire di essere stato “cancellato”. Ti convocano in un ufficio pubblico con un pretesto, ti chiedono di portare il passaporto e gli altri documenti e poi, sotto il tuo sguardo esterrefatto, li distruggono.
Esistono altri scenari: ti presenti per il rogito della casa, ma il notaio ti informa, ridacchiando, che non puoi acquistarla perché sei uno “straniero”… “illegale” per giunta, clandestino insomma.
Oppure c’è stato un incidente stradale e all’ospedale si rifiutano di somministrarti le cure necessarie: non hanno diritto all’assistenza sanitaria, gli stranieri illegali.
Non serve a nulla far presente che da vent’anni paghi i contributi, come gli altri lavoratori.

Perdendo la “residenza permanente” non sei diventato solo, di punto in bianco, uno “straniero” – ma uno “straniero senza permesso di soggiorno”. Anzi, sei precipitato ancora più giù, se possibile, perché non hai neppure una casa da qualche altra parte del mondo, né un’ambasciata alla quale rivolgerti.

Era questa, la condizione degli “apolidi” che si aggiravano per l’Europa negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Fuggiti dalla Germania di Hitler senza un passaporto

“…non avevano diritto di vivere da nessuna parte. Erano costretti a rimanere in movimento… una marcia infinita, interrotta solo dall’arresto per “ingresso illegale nel territorio dello stato”, e dalla successiva deportazione in un altro paese dove li attendeva il medesimo destino. Questa è la storia della gente senza passaporto. Ha inizio a Vienna, nel 1937, prima dell’occupazione nazista dell’Austria”.

Comincia con queste parole il film “So ends our night”, uscito negli Stati Uniti nel 1942, cinquant’anni prima dei fatti di cui si parla.

Alcune conseguenze della “cancellazione”

Un grande numero di “cancellati” fu costretto a emigrare. Diversi ottennero asilo politico in Italia, in Germania, in Jugoslavia, e perfino… in Slovenia. Accadeva a chi aveva la fortuna di imbattersi in un funzionario comprensivo, disposto a chiudere un occhio, che accettava di derubricarlo da “cittadino con residenza permanente” a “richiedente asilo”: un primo passo nel durissimo cammino verso la ricostruzione di uno straccio di “visibilità civile”.

Moltissimi rimasero in Slovenia in condizioni di clandestinità, venendo spesso rinchiusi in carcere o in qualche Centro di Permanenza Temporanea.
In alcune occasioni, la “cancellazione” ebbe conseguenze tragiche. Vi furono casi di suicidio, altri di morte nell’indigenza o perché era stata negata l’assistenza medica.

Una ragazza, ricoverata d’urgenza per partorire, si vide sottrarre il figlio neonato perché l’assicurazione sanitaria era stata cancellata insieme a lei. Non poteva pagare il conto dell’ospedale e il bambino venne preso in “ostaggio”. [Juri 1]

Nella grande maggioranza dei casi i “cancellati” hanno perso il posto di lavoro, senza la possibilità di trovarne un altro. Molti sono rimasti senza pensione.
Non potevano più guidare l’automobile, perché la patente di guida, rilasciata in Slovenia, era stata distrutta insieme agli altri documenti.
Non erano in condizione di lasciare il paese, dal momento che non vi sarebbero potuti rientrare. Venivano spesso cacciati dalle proprie abitazioni, e anche quando ciò non accadeva, perdevano il diritto di riscattarle (nel processo di privatizzazione, gli appartamenti di proprietà dello stato potevano essere acquistati a un prezzo assai conveniente dagli inquilini – purché dotati di “residenza permanente”).
Numerose famiglie sono state divise dalla “cancellazione”, e ad alcuni genitori è stato impedito di formalizzare il proprio ruolo di padre.

Dalla “residenza permanente” alla “permanenza temporanea”
B.R. era arrivata in Slovenia negli anni ’80 come giovane operaia dalla Bosnia.
Era impiegata in una fabbrica tessile e viveva in un piccolo paese, dove aveva preso in affitto una stanza. All’inizio degli anni ’90 perse il lavoro.
Non avendo richiesto la nazionalità slovena, fu cancellata dal “registro di residenza permanente”. Stava per perdere anche l’appartamento, perché non poteva più permettersi di pagare l’affitto.
Un giorno – era il 1994 – si presentò la polizia a casa sua e le chiese i documenti. Non potendoli esibire, in quanto “cancellata”, venne trasferita a Ljubljiana e rinchiusa nel Centro di Permanenza Temporanea.
Per tutto questo tempo, B.R. ha “vissuto” nel Centro di Permanenza Temporanea, con l’eccezione di due o tre anni, passati in un “Centro profughi”, e di un anno, trascorso all’ospedale psichiatrico.
(Da una testimonianza raccolta da Jelka Zorn [Zorn, p. 122])

Terzo stato
La Bosnia è costituita da tre entità: musulmana, serba e croata.
D. P. era un serbo di Bosnia, anno di nascita 1959.
La famiglia vive ancora in Slovenia (la figlia ha 27 anni).
Aveva la residenza permanente in Slovenia. La polizia lo ha espulso in Croazia: il “terzo stato”.
I croati lo hanno accettato, e immediatamente deportato nello stato bosniaco (1992), dove fu consegnato all’enclave croata in Bosnia.
Un serbo nell’enclave croata? All’epoca, equivaleva a una condanna a morte.
Fu rinchiuso in diversi lager, e infine, probabilmente, ucciso.
Pare sia stato identificato attraverso il DNA, in una fossa comune.
(Documentazione Croce Rossa, UNHCR. Archivio Alexander Todorović.)

“Questo procedimento era, all’epoca, usuale. I nostri poliziotti non lo hanno consegnato ai croati, gli hanno semplicemente ingiunto di attraversare il confine – prendendo un treno regolare.”
(Dichiarazione del capo di gabinetto del Ministero degli Interni, consigliere del governo. Nel 1998 è diventato direttore generale della polizia. Archivio Alexander Todorović.)

Terra di nessuno
M.B. ha vissuto in Slovenia dall’inizio degli anni ’70. E’ sposato con due figli.
Negli anni ’80 ha intrapreso un’attività commerciale. All’epoca della secessione ha richiesto la cittadinanza e nel 1992 è diventato cittadino sloveno.
Per poter comprare l’appartamento in cui viveva con la famiglia, una casa popolare data in concessione dallo stato, ha dovuto vendere tutti i poderi che aveva in Bosnia.
Quando nel 1993 si reca al Comune per rinnovare la carta d’identità, gli ritirano tutti i documenti e glieli invalidano. Scopre così che la cittadinanza gli è stata revocata ed è stato cancellato dal “registro di residenza permanente” – alla stessa stregua di coloro ai quali non era mai stata conferita la nazionalità slovena.
All’improvviso la sua vita si capovolge. Non ha più diritto di comprare l’appartamento e tutto il denaro messo da parte viene usato per gli avvocati (per la denuncia per “espropriazione illegale del diritto di cittadinanza” e “cancellazione illegale dal registro dei cittadini”).
Viene cacciato dalla Slovenia per due volte. Sebbene sia di origine serba (serbo bosniaco) è deportato al confine croato nel periodo peggiore della guerra. La polizia croata lo respinge alla frontiera; quella slovena sarebbe tenuta a riportarlo indietro.
Durante il viaggio di ritorno, i poliziotti fermano la macchina nel territorio tra i due posti di blocco, che non appartiene a nessuno dei due stati. Lo trascinano fuori dall’automobile, gli ficcano una pistola in bocca: “Se ti azzardi a tornare, la prossima volta premiamo il grilletto.”
M.B. chiede aiuto ai poliziotti croati. Gli preparano un caffè, e gli spiegano che ogni giorno la polizia slovena consegna loro una dozzina di persone. I croati vengono accolti (c’è bisogno di combattenti); i serbi, rimandati indietro. Alla fine gli indicano il punto in cui può attraversare il confine clandestinamente.
M.B. ha ripreso la sua vita in Slovenia con il terrore di subire maltrattamenti da parte della polizia.
In un’altra occasione lo hanno portato al commissariato per un interrogatorio e picchiato a sangue, rompendogli una costola e provocandogli gravi lesioni.
Nel 2001, a conclusione di un’estenuante battaglia legale, a M.B. è stata restituita la cittadinanza slovena.
(Da una testimonianza raccolta da Jelka Zorn [Zorn, pp. 118, 132-133, 140-141, 144])

La battaglia degli “izbrisani”

“La settimana scorsa hanno occupato in modo pacifico un’aula di un edificio di Ljubljana che ospita la rappresentanza della Commissione Europea. Sono stati sfrattati violentemente da agenti della sicurezza privata. Continua il calvario dei cancellati, certo non lenito dall’attuale maggioranza di governo. (…) ‘Tutti i cancellati sono invitati al ballo in cui Zmago Jelinčič suonera’ il fucile mitragliatore’ era scritto su un manifesto appeso all’ingresso del gruppo parlamentare del Partito Nazionale Sloveno (SNS), una formazione di estrema destra, fondata e guidata dallo stesso Jelinčič. Un partito che sta formalmente fuori dalla maggioranza ma che di fatto fiancheggia il governo di Janez Janša, che al SNS ha affidato in cambio, suscitando sorpresa e costernazione, la vicepresidenza della Camera.” [Juri 2]

Per gli “izbrisani”, la scoperta della nuova condizione fu un fulmine a ciel sereno.
In un primo momento, ognuno di essi visse l’esperienza della “cancellazione” in completa solitudine, in uno stato di disperazione. Le circostanze li inducevano a ritenersi il bersaglio di un “accanimento amministrativo” feroce, ma isolato; un abuso inspiegabile, ma occasionale, che per qualche motivo si era abbattuto sul loro capo.

I “cancellati” sono rimasti, per un lungo periodo, completamente all’oscuro del fatto che la violenza di cui erano oggetto non riguardava solo la loro persona, ma almeno un cittadino su cento della Repubblica di Slovenia. Ci vollero diversi anni perché la verità potesse affiorare e il fenomeno della “cancellazione” iniziasse a essere percepito nei suoi contorni reali.
Un po’ alla volta, le vittime di questa silenziosa, accurata operazione di pulizia etnica, hanno cominciato a incontrarsi, a conoscersi. E a far sentire la loro voce. Ha preso il via una robusta iniziativa politica e legale, in grado di mettere in difficoltà il governo sloveno. Le loro istanze hanno investito la Corte Costituzionale, inducendola a pronunciarsi.

Nel 1999, la Corte Costituzionale dichiarò l’incostituzionalità della ‘cancellazione’, rilevando che gli “izbrisani” erano vittima di un evidente vuoto legale, dato che nessuna delle normative esistenti permetteva la loro regolarizzazione.

Nella sua risoluzione, la Corte obbliga il legislatore a risolvere entro sei mesi l’evidente incompatibilita’ con la Costituzione e proibisce di espellere i ‘cancellati’ dal territorio sloveno. [U-I-284/94 del 4-2-1999, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica di Slovenia, n. 14/99]
Questa presa di posizione, che di fatto sancisce il diritto dei “cancellati” a riottenere lo status di residenti, viene ribadita in alcune sentenze successive [Up-60/97, 15-7-99; U-I-89/99, 6-10-1999; U-I-295/99, 18-5-2000]. Nella prima di esse, la Corte osserva che il riconoscimento della “residenza permanente” deve essere retroattivo, con effetto a partire dalla data della “cancellazione”.

Il governo di centro-sinistra, costretto a intervenire, lo fece in due tempi.
Un primo provvedimento (ZUSDDD – Zakon o urejanju statusa državljanov držav naslednic nekdanje SFRJ v Republiki Sloveniji – Legge che regola lo status dei cittadini delle altre repubbliche ex-jugoslave presenti in Slovenia”, 8-7-1999) fissava, ancora una volta, un termine strettissimo (tre mesi!) per presentare la domanda di regolarizzazione (alla quale andava allegata tutta la documentazione necessaria).
Inoltre, al fine di ottenere nuovamente lo status di residenti era indispensabile provare di non essersi allontanati dal territorio sloveno – e i “cancellati” espulsi con la forza o indotti in varie forme a emigrare si contavano a migliaia!
Infine, il provvedimento con cui si ripristinava la “residenza permanente”, non avendo carattere retroattivo, lasciava un “buco” di diversi anni nel curriculum civile delle persone “cancellate”, con pesanti effetti sul piano sociale ed economico.

Una seconda legge (Zakon o spremembah in dopolnitva zakona o državljanstvu Republike Slovenije-Č), promulgata dal Parlamento sloveno nel novembre del 2002, non modificò sostanzialmente la situazione. Il principio della retroattività fu nuovamente ignorato.

Nel 2003, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legge del 1999 (ZUSDDD) e, indirettamente, sul successivo provvedimento del 2002, ispirato alla medesima logica. Nella sentenza, prendendo in esame il caso delle persone che hanno riottenuto la “residenza permanente”, la Corte dichiara che la legge e’ inconstituzionale perché la “residenza permanente” non viene riconosciuta in senso retroattivo.
Di conseguenza, la Corte sancisce l’obbligo di emettere i documenti aggiuntivi con i quali i ‘cancellati’ potranno provare la loro condizione di residenti, con effetto a partire dal giorno della cancellazione. Inoltre, essa impone nuovamente al Governo di eliminare entro sei mesi gli aspetti incostituzionali presenti nella normativa. Tra questi, il mancato riconoscimento dei diritti di quanti erano stati espulsi dalla Slovenia a causa della “cancellazione”. [U-I-246/02, 3-4-2003]
La questione si politicizzò bruscamente. La destra xenofoba guidata da Janez Janša, allora all’opposizione, organizzò una campagna di denigrazione nei confronti degli “izbrisani”, stigmatizzati come “antisloveni”, e della stessa Corte Costituzionale.
Il governo di centro-sinistra mise in atto un tentativo maldestro di “disinnescare” la questione. Anziché applicare integralmente le sentenze della Corte Costituzionale e reintegrare i cancellati nella loro condizione di residenti, con decorrenza dal 26 febbraio 1992, promulgò un provvedimento ad hoc, la cosiddetta “legge tecnica sui cancellati”.
Attraverso di essa si intendeva rendere retroattiva la “residenza permanente“ solo per i “cancellati“ che ne erano già in possesso. Tutti gli altri sarebbero rimasti esclusi.
Ancora una volta venivano disattese, nella sostanza, le indicazioni della Corte Costituzionale.

La legge fu immediatamente contestata dagli “izbrisani”, che videro in essa una manovra finalizzata a dividere il movimento: mentre si riconoscevano i diritti di una minoranza, si rendeva inaccessibile a tutti gli altri la soluzione del problema.
Sul versante opposto, la destra individuò in questo provvedimento, pasticciato e contradditorio, l’occasione che da tempo attendeva, e promosse un referendum per la sua abrogazione. Il quesito referendario non era di agevole lettura:

“È d’accordo con l’ottavo paragrafo della sentenza US RS no. U-I-26/02-28 (EPA 956/III), accettato dal parlamento della Repubblica Slovena il giorno 25.11.2003?“

Il 4 aprile 2004 il 31% dell’elettorato sloveno si recò a votare, rispondendo all’appello della destra. In altri paesi, l’esigua affluenza alle urne (meno di un elettore su tre) avrebbe sancito il “flop” dell’iniziativa, invalidando questa assurda istigazione al linciaggio “per via referendaria”.
In Slovenia essa assunse il significato opposto: una vittoria della destra xenofoba.

Gli sviluppi politici successivi sono tutti sfavorevoli alla causa dei cancellati.
Finché è rimasto in carica, il governo liberale e socialdemocratico ha mantenuto una linea di ambiguo ostruzionismo, dilatando i tempi di una soluzione della vicenda.
La Commissione europea non si è mai pronunciata, e il suo Presidente

“…Romano Prodi, giunto a Gorizia il 1 maggio 2004 per celebrare l’allargamento dell’Unione Europea, non ritenne opportuno incontrare il portavoce dei cancellati, Alexander Todorović, che cercava di far sentire la voce di molti disperati.” [Licata]

Non trovando ostacoli di rilievo lungo il proprio cammino, né in Slovenia né in Europa, l’opposizione di destra ha potuto cavalcare indisturbata l’ondata xenofoba, capitalizzandola alle elezioni del 2004, che hanno portato Janez Janša alla guida del paese.
Oggi, gli esponenti del governo dichiarano con improntitudine che “la cancellazione non è mai esistita e, di conseguenza, nemmeno i cancellati esistono”.

“It’s not legal, it’s not illegal. It’s beyond anything legal”

Il 1° maggio del 2004 la Slovenia è entrata a far parte dell’Unione Europea.
Le indicazioni della Corte Costituzionale sono tuttora lettera morta.
Per nessuno dei “cancellati” è stata ripristinata, con effetto retroattivo, quella condizione di pienezza di diritti che si traduce, nella Slovenia di oggi come nella Jugoslavia di ieri, nella formula amministrativa della “residenza permanente”.

La durissima battaglia degli “izbrisani”, sostenuta da diverse associazioni e da parte dell’opinione pubblica, e le fondamentali vittorie ottenute dal loro movimento sul terreno del diritto costituzionale, hanno determinato un alleggerimento della condizione in cui versano molti di essi. Secondo dati del Ministero degli Interni, circa 11.000 persone sono riuscite a ottenere di nuovo, in un modo o nell’altro, la “residenza permanente”.
Dei costi umani ed economici, il Ministero non fa alcun cenno. Di certo, questi cittadini hanno raggiunto tale risultato a prezzo di enorme fatica e di spese ingenti: non è facile ottenere i documenti dal proprio paese natale, se nel frattempo esso ha cambiato nome e vi imperversa la guerra civile.
A ciò si deve aggiungere che non poche persone, nate e vissute in Slovenia, hanno dovuto procurarsi dei certificati falsi, per potersi presentare all’Ufficio Immigrazione e registrarsi come stranieri.

A nessuno dei cancellati sono stati risarciti i danni morali e materiali prodotti da un provvedimento totalmente illegittimo, che offende i diritti umani.
Né vi è stata, da parte del governo sloveno, la minima assunzione di responsabilità.
Il suo comportamento si potrebbe definire in questi termini: “It’s not legal, it’s not illegal. It’s beyond anything legal” (“Non è legale, né illegale. E’ al di là di tutto ciò che è legale”).
Perfino chi ha vinto il ricorso alla magistratura, riottenendo la cittadinanza slovena, si ritrova con un “buco” di diversi anni nella propria storia ”ufficiale”. In quel lasso di tempo, per lo Stato sloveno, egli “non esisteva” – con le conseguenze che si possono immaginare ai fini della pensione e di un complesso di implicazioni di carattere economico e sociale.

Il dato più rilevante, in ogni caso, è che migliaia di persone non hanno riavuto la “residenza permanente”.
Alcuni sopravvivono alla meno peggio, classificati come “stranieri” autorizzati a rimanere sul territorio sloveno in virtù di varie tipologie di permesso di soggiorno temporaneo, in una condizione di insolubile precarietà.
Molti altri, ancora oggi, sono “cancellati” a tutti gli effetti. La loro situazione si fa sempre più drammatica; hanno alle spalle tredici anni di violenze, intimidazioni, negazione sistematica dei diritti umani.
Il caso più tragico, forse, è quello dei minorenni, che per far visita ai parenti durante le vacanze hanno lasciato la Slovenia per un breve periodo. Al ritorno, gli è stato impedito di rientrare nel paese.
Si tratta di un gran numero di persone, nate in Slovenia, che sopravvivono in Macedonia, Serbia, Bosnia, Kosovo e Croazia, senza poter regolarizzare la propria posizione.
Lo stato sloveno si rifiuta di fornire loro qualsiasi genere di documento.

“Croata”, che ti piaccia o no
M. U. è nata in Slovenia negli anni ‘50 da madre slovena. Il padre era serbo.
M. U. era convinta di essere cittadina slovena fino a che, nel 1992, ebbe un bimbo. Recatasi all’anagrafe per iscrivere il figlio, scoprì di essere stata registrata come… cittadina croata! Aveva perso, di conseguenza, la “residenza permanente”, entrando a far parte della schiera dei “cancellati”.
Da un giorno all’altro, M.U. si ritrovò in una condizione di totale vulnerabilità sul piano dei diritti civili. Ciò accadeva in una piccola città della Slovenia, dove era nata e vissuta per quarant’anni. La madre, cittadina slovena, era stata collega di lavoro degli impiegati che l’avevano “cancellata”.
M.U. ha dovuto escogitare una complessa strategia per riacquistare una qualche “visibilità” sul piano sociale. La volevano “croata” a tutti i costi, e ha dovuto adattarsi. Grazie alla solidarietà di alcune persone conosciute casualmente, ha firmato un finto contratto d’affitto in Croazia, simulando di esservi residente e riuscendo a ottenere un passaporto croato.
Dopo sette anni di illegalità, nel 2000 M.U. ha acquisito lo status di “straniero con residenza permanente”. In questo modo può continuare a vivere nella cittadina in cui è nata e cresciuta, dove ha frequentato le scuole e dove tutti la conoscono da sempre.
(Da una testimonianza raccolta da Jelka Zorn [Zorn, pp. 105-107])

Coesione familiare
S. S. è stato definito “profugo di Bosnia” benché sia vissuto in Slovenia per oltre 40 anni.
Ha moglie e tre figli. L’intera famiglia è stata “cancellata”, tranne uno dei figli (e nessuno conosce il motivo di questo “trattamento privilegiato”: le vie della burocrazia sono infinite…)
Per dodici anni S. S. è riuscito a sopravvivere in una condizione di completa clandestinità.
Solo nel 2003 è stato chiamato in tribunale per una irregolarità amministrativa. Resisi conto della situazione, i poliziotti lo hanno immediatamente chiuso nel Centro di Permanenza Temporanea di Ljubljana. Alla fine, lo hanno classificato come “richiedente asilo”, concedendogli di vivere fuori dal C.P.T. e decretando che deve eleggere residenza, in qualità di profugo, sotto la custodia della figlia (“cancellata” pure lei!).
Da allora, si trova in “libertà vigilata” nella casa in cui è vissuto per 40 anni. Non è autorizzato a uscire dai confini cittadini.
Ogni mese è tenuto a presentarsi all’ufficio di polizia per rinnovare il permesso di soggiorno.
(Testimonianza raccolta da Alexander Todorović e Karaula MiR)

Health care – assistenza sanitaria
I. B., nato in Bosnia. Entrato in Slovenia all’eta di 6 mesi, 47 anni fa.
Scuola primaria e secondaria in Slovenia. Sempre vissuto in Slovenia.
Una vita di lavoro (e di contributi per l’assistenza sanitaria).
All’atto dell’indipendenza della Slovenia ha avuto un incidente stradale: frattura dell’anca, alcune protesi artificiali e diversi mesi di ricovero in ospedale.
Quando è entrato in ospedale era un cittadino normale, con tutte le garanzie del caso. All’uscita era un “cancellato”, privo di assistenza sanitaria.
A tutt’oggi non ha potuto sottoporsi a un intervento chirurgico indispensabile per proseguire la terapia e completare le protesi. Questa situazione determina gravissimi problemi al sistema circolatorio, in un quadro di trombosi dilagante. Le gambe sono una ferita aperta; i problemi circolatori hanno già provocato la perdita della vista a un occhio.
Altri cancellati, in condizioni simili, hanno perso la vita.
(Testimonianza raccolta da Alexander Todorović e Karaula MiR)

Welcome to Kosovo
A.B., nato a Peč – Kosovo nel 1969. Viveva in Slovenia, con la “residenza permanente”.
Nel 1993 si recò a visitare dei parenti in Germania. Come altri “cancellati”, non incontrò alcun problema per uscire dal territorio della repubblica. Al rientro però, le autorità di frontiera slovene lo hanno arrestato. Dopo aver distrutto tutti i suoi documenti, passaporto incluso, lo hanno rinchiuso in un C.P.T. – all’epoca denominato “Centro transitorio per l’espulsione degli stranieri”.
Dopo qualche giorno A.B. è stato deportato in Albania, benché non vi avesse mai messo piede, nemmeno come turista. Vi è finito solo perché non c’erano, all’epoca, collegamenti con la Serbia.
L’Albania lo ha immediatamente espulso in Slovenia, rispedendolo al mittente.
In Slovenia fu nuovamente incarcerato, nello stesso C.P.T. di prima.
E’ evaso e si è rifugiato illegalmente in Germania, dove è stato ufficialmente classificato come “profugo dal Kosovo”, sulla base del certificato di nascita: l’ultimo documento che gli è rimasto.
Vive in Germania, dove non può più usufruire della condizione di richiedente asilo, che è stata abolita per chi proviene dal Kosovo. Le autorità tedesche vogliono espellerlo in Kosovo, dove non conosce nessuno: i parenti vivono tutti a Maribor, in Slovenia.
Nella sola Stuttgart, una sessantina di persone versano nella medesima condizione di A.B.
(Documentazione: archivio Alexander Todorović)

Riferimenti

[Juri 1] Franco Juri Slovenia: cancellati, vergognoso silenzio della Commissione europea, in www.osservatoriobalcani.org (20 aprile 2004)

[Juri 2] Franco Juri Il futuro incerto dei cancellati, in www.osservatoriobalcani.org (28 febbraio 2005)

[Licata] Andrea Licata La lezione dei cancellati, in www.nonluoghi.it (5 luglio 2005)

[Zorn] Jelka Zorn The politics of exclusion during the formation of the slovenian state, in “The erased. Organized innocence and the politics of exclusion”, Mirovni Inštitut, Ljubljana 2003.

APPENDICE

EFFETTI DELLA »CANCELLAZIONE« SUL PIANO DEI DIRITTI

(Dal saggio di Jelka Zorn: The politics of exclusion during the formation of the slovenian state, in “The erased. Organized innocence and the politics of exclusion”, Mirovni Inštitut, Ljubljana 2003, pp.147-148)

Perdita dell’impiego e impossibilità di trovarne uno nuovo.
Danni materiali alla persona:
non avendo la possibilità di lavorare regolarmente si interrompe il computo complessivo degli anni utili ai fini della pensione
ingenti spese legali, dovute all’altissimo costo dei servizi legali, alle parcelle degli avvocati, alle tasse amministrative, agli oneri giudiziari…
ingenti spese sanitarie, per il fatto di essere stati esclusi dalle prestazioni del servizio sanitario nazionale
Negazione del diritto alla pensione.
Negazione del diritto alla salute, dal momento che i »cancellati« sono stati privati della possibiltà di usufruire delle prestazioni del servizio sanitario nazionale.
Perdita del diritto alla casa e impossibilità di riscattare l’appartamento in concessione (nel processo di privatizzazione i residenti avevano facoltà di comprare le case »sociali« a un prezzo conveniente, un diritto negato ai »cancellati«).
Violazione del diritto degli adulti ad accedere all’educazione elementare.
Separazione dell’unità familiare e violazione del diritto del bambino di vivere con i propri genitori (la separazione avveniva in conseguenza all’espulsione dalla Slovenia di uno o più membri della famiglia. I »cancellati« venivano rimossi anche daillo stato di famiglia anagrafico).
Creazione di profughi sloveni (i »cancellati« che hanno, volontariamente o meno, lasciato la Slovenia, chiedevano asilo politico in vari stati Europei – prevalentemente Germania e Italia. C’è anche chi ha ottenuto lo status di »profugo sloveno« in Serbia, in piena guerra).
Violazione del diritto di eleggere il proprio luogo di residenza, dato che ai »cancellati« veniva imposto di risiedere all’estero.
Violazione del diritto di formalizzare il proprio ruolo di padre (in alcuni casi al padre del bambino è stato negato il diritto di iscrivere il proprio nome nell’atto di nascita del figlio, con la motivazione che si trattava di uno »straniero«).
Negazione della libertà di movimento oltre i confini del territorio sloveno. I »cancellati« che hanno lasciato la Slovenia non potevano rientrare in modo legale. Molte persone non hanno potuto, per questo motivo, assistere ai funerali dei loro cari. Molti giovani che si erano recati all’estero per visitare i parenti nel periodo delle vacanze del 1992, hanno appreso di essere stati »cancellati« solo alla frontiera, al momento di tornare in Slovenia. Di conseguenza, non hanno potuto riunirsi con i propri genitori.
Negazione della possibilità di guidare un’automobile. Le regole relative ai permessi di guida furono modificate senza informare, in modo pubblico e trasparente, le persone interessate. Quanti avevano un permesso di guida »straniero« (rilasciato sia in Slovenia, sia in altre Repubbliche della ex-Jugoslavia) avrebbero dovuto convertirlo in una patente slovena entro il termine perentorio di 6 mesi, ma molti di loro non lo fecero, perché non ne erano al corrente. Venivano accusati di violare le leggi slovene, ogni volta che erano sorpresi alla guida di un veicolo con una patente croata, o jugoslava.
Impedimento a condurre legalmente le principali attività economiche e sociali: i »cancellati« non potevano comprare o vendere proprietà, dar vita a un’attività commerciale, fondare una ditta o aprire un conto corrente bancario. Non potevano registrare l’automobile – e nemmeno possedere un telefono cellulare (naročniškega razmerja)…
Esclusione dalla partecipazione alla vita politica nelle sue diverse articolazioni.
Esposizione quotidiana all’arbitrio dei funzionari di polizia, che in molti casi imponevano la propria volontà con comportamenti brutali per i quali non sono stati mai sanzionati.
Esposizione quotidiana all’atteggiamento arrogante, corredato da insulti nazionalisti e razzisti, degli impiegati degli uffici municipali. Simili comportamenti si accompagnavano spesso al deliberato occultamento di informazioni essenziali al fine di regolarizzare la posizione dei »cancellati«.
Esposizione a offese, insulti e minaccie tramite il telefono e la posta, da parte dei vicini.
Violazione del diritto alla tutela legale e giudiziaria.
Violazione del diritto all’informazione: oltre al fatto, fondamentale, di non essere stati informati della propria »cancellazione dal registro di residenza permanente«, anche negli anni successivi un numero assai rilevante di persone non ha potuto procurarsi le informazioni essenziali dalle istituzioni responsabili.
Violazione del diritto alla privacy delle consegne postali.
Violazione del diritto a candidarsi per ottenere l’assistenza sociale.
Violazione dei diritti delle persone incarcerate. I »cancellati« in stato di reclusione venivano privati della possibilità di lasciare la prigione per delle licenze brevi.

A cura di: Civilna iniciativa izbrisanih aktivistov – Koper, Ptuj, Ljubljana
Karaula MiR – MigrazioniResistenze – Friuli, Roma, Slovenija
Društvo Dostje! – Ljubljana

Contatti:

In lingua slovena o serba: Alexandar Todorović (++38631532621).
In lingua slovena o inglese: Jelka Zorn (jelka.zorn@fsd.si),
Sara Pistotnik (spistotnik@yahoo.com).
In lingua italiana o inglese: Uršula Lipovec Čebron (ursula.lipovec-cebron@guest.arnes.si),
Roberto Pignoni (pignoni@mat.uniroma1.it).

Altre informazioni su: http://skylined.org/izbrisani/

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