Nonluoghi Archivio L’insurrezione popolare in Bolivia

L’insurrezione popolare in Bolivia

di Giacomo Catrame *

L’insurrezione boliviana ha ottenuto i suoi due obiettivi. La straordinaria mobilitazione di popolo, partita dalle campagne e guidata dalle organizzazioni dei contadini e dei cocaleros, composte per lo più da indios Quechua ed Aymara (il 61,2 % della popolazione) ha man mano unificato le multiformi opposizioni al presidente Gonzalo Sanchez de Lozada e, nonostante la ferocia della repressione ha imposto alle classi dominanti di abbandonare quest’ultimo che, in pieno stile “repubblica delle banane” è fuggito a Miami scappando in elicottero dalla residenza presidenziale. Il Presidente è stato abbandonato dai suoi stessi alleati, il partito di destra NFR e quello di sinistra MIR (Movimento de la Izquerdia Revolucionaria… sic!) e, in particolare dal vice presidente Meza che, in conseguenza della fuga di Gonzalo, si è ritrovato alla più alta carica della repubblica e ha concesso per fermare l’insurrezione sia un referendum sull’eventuale vendita del gas a Messico e Stati Uniti, sia una futura assemblea costituente che riscriva la Costituzione, dal momento che quella odierna è stata scritta dall’ultimo governo militare nel 1982.

Il dato più notevole del successo dell’insurrezione è che solo domenica scorsa (cinque giorni prima della fuga di Gonzalo) gli Stati Uniti avevano assicurato il proprio appoggio al presidente, nonostante l’esercito avesse appena finito di massacrare almeno 80 persone negli scontri in corso presso il paese di El Alto e alle porte di La Paz verso la quale stavano convergendo i minatori della COB che erano entrati in sciopero ad oltranza per dare la spallata finale al governo del presidente soprannominato “Gringo”. Al contrario Brasile e Argentina avevano iniziato fin dalla scorsa settimana a tessere le fila dell’accordo che sarebbe poi stato applicato in modo spettacolare questo fine settimana. Insieme agli Stati Uniti l’altro sconfitto è il Cile che, fedele cane da guardia di Washington nel cono Sud del continente, aveva inviato i propri ufficiali a guidare la repressione nei confronti della popolazione boliviana. Fatale contrappasso visto che fu proprio il Brasile “americano” degli anni sessanta e settanta a guidare il golpe che nel 1971 affossò l’unico governo progressista boliviano e completò l’accerchiamento del Cile di Allende favorendo il golpe di Pinochet. Una doppia sconfitta, quindi, per gli Stati Uniti che si va ad aggiungere a quella subita l’anno scorso con il fallito golpe in Venezuela. Per l’ordine americano, dunque, le difficoltà non vengono solo dalla gestione delle invasioni in Medio Oriente e in Asia Centrale, ma dallo stesso storico “cortile di casa” latinoamericano.

La base sociale dell’insurrezione è chiaramente da ricercarsi in quel 75% della popolazione che vive della terra e che abbisogna delle molte risorse del territorio boliviano e che dalla fondazione del paese non ha mai avuto nemmeno le briciole dell’economia estrattiva e dipendente del paese, e nei lavoratori del settore estrattivo che, già a febbraio erano insorti contro il progetto di riduzione delle pensioni trovando addirittura la solidarietà degli agenti di polizia (anch’essi minacciati dal taglio delle prestazioni pensionistiche) che si erano scontrati armi in mano contro i militari nel centro stesso della capitale. Anche un settore delle classi dominanti boliviane, però, ha chiaramente deciso di superare una situazione ormai ingovernabile e di riprendere in mano le redini del paese al di là dell’appoggio di Washington. Ha sicuramente contribuito a questo finale il fatto che all’interno delle fila dell’esercito fossero iniziate le diserzioni e che gli ufficiali avessero dovuto ricorrere alle fucilazioni per punire i propri soldati che rifiutavano di sparare sulle manifestazioni. Tra la borghesia dipendente e compradora della Bolivia si è quindi iniziato a insinuare il sospetto che l’applicazione delle ricette neoliberiste avesse toccato un punto assolutamente non sopportabile da parte della popolazione e che l’uso della forza militare non bastasse più a contenere una protesta che squassava da ormai due anni il paese.

D’altra parte la questione della vendita del gas era tale da spingere alla rivolta una quota sempre più consistente della popolazione: la Bolivia dopo il Venezuela è il primo produttore di gas dell’intero territorio continentale, ma l’85% della popolazione (nelle campagne ma anche nelle periferie cittadine) cucina e si scalda ancora con la legna.
La rivolta contro la rapina delle risorse boliviane d’altra parte è presente nel DNA della popolazione boliviana: dal saccheggio delle miniere di argento di Potosì nel 1600-1800, a quello del salnitro rapinato dal capitale inglese alla fine dell’Ottocento finanziando la guerra del Cile (il cui governo era controllato da Londra) per l’acquisto della provincia costiera boliviana di Antafogasta dove era concentrato il minerale, allo sfruttamento dello stagno (Bolivia primo produttore mondiale) a poco prezzo da parte delle imprese minerarie americane. Il risultato è che la Bolivia nonostante la ricchezza del suo sottosuolo ha una composizione sociale assolutamente verticale: il 12% della popolazione composta dalla classe dominante, formata da imprenditori minerari lautamente ricompensati per la vendita a sottocosto delle risorse minerarie, e dalle alte gerarchie statali e militari possiede l’84% della ricchezza nazionale, mentre l’84% ne possiede appena il 4%.
Il rafforzamento delle politiche neo liberiste varato dal primo governo Sanchez de Lozada (1993-1997), da quello dell’ex dittatore Panzer e dal secondo governo de Lozada, ha avviato il paese verso la guerra civile: prima l’insurrezione a Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua a favore della multinazionale Bechtel, poi lo scontro armato tra minatori e poliziotti contro i militari questo febbraio, infine l’insurrezione contro la vendita del gas all’estero. Davanti a queste proteste i governi non hanno trovato di meglio da fare che rafforzare la repressione; il presidente fuggito a marzo aveva varato un regolamento militare straordinario antisommossa che prevedeva pene dai cinque agli otto anni per il blocco dei trasporti, proprio mentre il ministro economico del suo governo varava sotto pressione del Fondo Monetario Internazionale una manovra fiscale durissima per ridurre il deficit del paese, manovra all’interno della quale era compresa la svendita del gas.
Oggi dopo la vittoria dell’insurrezione diventa chiaro che la Bolivia deve imboccare una strada diversa e che la stessa classe dominante non ha più margini per imporre il “consenso di Washington” alla propria popolazione senza alcuna contropartita. Sullo sfondo si avvia anche un nuovo protagonismo di quei governi come quello argentino e brasiliano che hanno capito che, per sviluppare il proprio capitalismo, devono uscire dal ruolo di semplici portatori di risorse e lavoro a buon prezzo per l’economia degli Stati Uniti, e che devono cercare di costruire un loro consenso all’interno della popolazione dei loro paesi. L’ordine di Washington in America potrebbe subire pesanti scossoni nel corso di questo decennio.

* Questo articolo è tratto dal settimanale anarchico “Umanità Nova” [www.ecn.org/uenne/] n. 34 del 26 ottobre 2003

nonluoghi

nonluoghi

Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

More Posts

ARTICOLI CORRELATI