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Israele, delusione unilaterale

(Pubblichiamo la traduzione a cura di Massimo Oriti di un editoriale della rivista israeliana Challenge www.hanitzotz.com/challenge/, curata da ebrei e arabi *)

A lato del governo e della Knesset, una istituzione parallela si è sviluppata in Israele. Conosciuta come il Congresso Herzlia. Tutti i notabili della politica di Israele, i ricchi e i potenti, sono riuniti la. Generali e politici annunciano i loro piani con olimpica serenità – senza fischi, maldicenze e gli infiniti manovratori che colorano le nostre istituzioni elette. Questa arena alternativa ben soddisfa il Primo Ministro. È il secondo anno consecutivo nel quale Ariel Sharon ha posto il suo sigillo al Congresso con un «discorso alla nazione». La tensione quest’anno è stata alta come mai. Il deputato di Sharon e presunto «pallone sonda», Ehud Olmert, ha dato un’intervista a Yediot Aharonot (5 dicembre). Fiutatore di consenso di destra, Olmert ha fermato il respiro della nazione con un appello per «l’evacuazione unilaterale di gran parte dei Territori e di Gerusalemme Est e la divisione della terra d’Israele in due Stati con il confine fra loro determinato non dalla politica, dal sentimento nazionale o dalla tradizione religiosa, ma dalla demografia». Olmert si riferiva alla proiezione che dal 2012, la maggioranza ad ovest del fiume Giordano sarà araba.

Israele ha atteso, quindi, ciò che Sharon stesso avrebbe detto a Herzlia. Ci sono maggiori ragioni di tensione: dalle dimissioni di Abu Mazen, Israele ha sempre agito senza un’agenda politica. Gli Americani hanno annunciato che toglieranno la loro amministrazione civile dall’Iraq per luglio 2004. Saddam è nelle loro mani. La Libia s’è unita all’Asse del Bene. Tuttavia tra Israeliani e Palestinesi, continuano vere e proprie carneficine.
Il vuoto politico ha messo le cose in movimento. Nella sinistra i vecchi supporter di Oslo riemergono con l’«Iniziativa di Ginevra». Presso le unità d’élite dell’esercito, alcuni si sono saziati di opprimere i Palestinesi; lettere di rifiuto si cumulano: dagli ufficiali, dall’aviazione, e ora dai comandi (Sayeret Matkal). I quattro più recenti capi dello Shin Beth (servizi segreti) hanno annunciato in novembre che Israele sta vivendo nei tempi supplementari; dovrà tenere il coltello fra i denti, affrontare i coloni, e ritirarsi da gran parte dei Territori.

Tutto ciò era alle spalle quando Sharon è salito sul podio a Herzlia il 18 dicembre. Egli ha annunciato che se la parte palestinese non fa quanto dovuto, come stabilito dalla Road Map, nel prossimo mezzo anno – specialmente dove è necessaria la sicurezza – allora Israele si riturerà unilateralmente da certe aree, tagliando lungo linee che lo soddisfacciano.
La dichiarazione di Sharon può essere vista come una specie di incoerenza. Egli sostiene il realismo demografico e lo stallo di tempo di Olmert. Non ha portato certamente la sua idea prima al suo consiglio dei ministri: il governo sarebbe caduto in un minuto.

Una frase del discorso di Sharon non ha ricevuto attenzione dai media, sebbene essa esprima la curiosa trappola in cui Israele si trova. Egli ha detto: «non lasceremo che i Palestinesi ci tengano in ostaggio». Che cosa avrà voluto dire? In che senso sono i Palestinesi gli ostaggi qui? Nel senso che il paese non può andare avanti, economicamente o nella sicurezza, a causa della violenza. Ogni volta i Palestinesi colpiscono, gli Israeliani rispondono, e loro controbattono alle risposte, e cosi va avanti. L’idea di Sharon è di «disconnettere», così come l’ha messa, in modo che i Palestinesi non avranno da colpire che un muro. C’è qualcosa di assurdo, comunque, nella figura del bullo locale, armato con il più moderno armamento, che grida: «non mi lascerò prendere ostaggio da te».

La minaccia di un ritiro unilaterale arriva a tempo quando l’anarchia regna dalla parte palestinese. Nessuno è nella posizione di poter negoziare con Israele. Questo fatto è diventato ovvio ai primi di dicembre, quando le varie fazioni palestinesi si sono trovate al Cairo per arrangiare una tregua (hudna). Sotto l’egida dei servizi segreti egiziani, hanno cercato una formula che avrebbe abilitato l’Autorità Palestinese (PA) a fare progressi diplomatici. Si è supposto che Hamas accettasse una hudna da estendere non solo sugli abitanti israeliani, ma anche sui coloni e sui soldati. Il Primo Ministro palestinese Abu Ala stava per raggiungere il risultato, ma Hamas lo ha ostacolato. Essa era d’accordo a risparmiare i civili israeliani ma non ha voluto andare oltre. Essa ha anche chiesto garanzie dall’America per la fine degli assassinii israeliani. Abu Ala ha lasciato il Cairo con le mani vuote. La conseguenza pratica è che la PA non ha il mandato per iniziare lo sviluppo della Road Map, la quale cita la fine del terrorismo come un punto di partenza. La conferenza del Cairo ha dimostrato la debolezza della PA, che è diventata, in effetti, un mediatore fra Hamas e Israele. Tutti inoltre coscienti del destino di Abu Mazen, Abu Ala non farà un passo senza l’approvazione di Hamas.

La PA e Fatah sono spazientite con Hamas. Loro accusano gli estremisti islamici di mal’interpretare la mappa. Quando Hamas ha cercato di salvare la pelle nell’estate 2003, hanno dichiarato, essa ha accettato una hudna totale, ma adesso, con il destino dell’intero popolo palestinese in gioco, non se ne può interessare di meno. Tuttavia non lo diranno mai in pubblico, molti hanno osservato che Hamas ha provocato la costruzione del muro. Hamas asserisce, da parte sua, che precisamente le sue azioni hanno causato il crollo del morale israeliano: testimone il discorso del ritiro unilaterale. Tuttavia anche supponendo che Hamas abbia ragione, i parametri delle concessioni israeliane rimangono anni luce lontani dal punto di partenza palestinese.
L’odio per Israele, infatti, crea il principale carburante per la crescita di Hamas, ma c’è la faccenda reale che a nessuno sarà lasciato raccogliere i frutti dell’Islam radicale. Il tempo lavora contro entrambe le società.

In Israele c’è un nuovo consenso nel fatto che il momento delle decisioni è arrivato, e che l’occupazione di 2.9 milioni di Palestinesi non è più realizzabile. I leader più equilibrati, come il boss del Labor Party Shimon Peres, dicono correttamente che un ritiro unilaterale non condurrebbe in nessun luogo. Nahum Barnea scrive su Yediot Aharonot (22 dicembre): «Ogni avvocato novizio sa che il peggior accordo è meglio della miglior mossa unilaterale». Anche Washington lo pensa – ma sembra evidentemente incapace di far funzionare la Road Map.
Il concetto di separazione unilaterale proviene dall’impudenza israeliana, come se uno potesse raggirare la realtà con ragioni militari. L’impudenza è largamente diffusa, comunque, poiché questa idea populista trova sostenitori in entrambi i partiti, nel Labor e nel Likud. (Ehud Barak del Labor, per esempio è stato a lungo sostenitore di una «separazione» con le buone o con le cattive). A questa delusione Sharon dichiara: Butteremo giù un paio di insediamenti e regolarizzeremo il resto. Indietreggeremo per ridare un po’ di tranquillità al morale dell’esercito. Eluderemo la responsabilità di assicurare la catastrofe economica all’altro lato.

Non può essere, comunque, un caso di «acchiappare e andare via», come in Libano tre anni fa. Le infrastrutture della West Bank e di Gaza (acqua, elettricità, fogne) rimangono connesse ad Israele. Lo stesso avviene per le economie. Avendo distrutto le autorità nei Territori, Israele si è resa responsabile, piaccia o no, dei servizi pubblici alla gente. Arrivare adesso con la minaccia di una «disconnessione» unilaterale equivarrebbe a un giudizio universale. L’arma, in questo caso, non sarebbe una bomba nucleare, il che sarebbe irrilevante per un popolo così indifeso. L’arma del giudizio universale di Sharon è il ritiro unilaterale.

È sempre pericoloso, comunque, usare un’arma da giorno del giudizio. Supponiamo che fallisca? La «disconnessione» unilaterale, infatti, è senza alternative. Assumendo che Sharon la mettesse in moto (contro le proteste dei coloni), il risultato sarebbe un nuovo inferno nei Territori, confrontato al quale l’attuale situazione sembrerebbe un purgatorio. Milioni di palestinesi, morendo di fame dietro muri e recinti, ossessioneranno gli israeliani non meno degli esiliati del 1948 i quali, con i loro bambini, oggi chiedono il diritto di tornare.

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