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Idee anarchiche oltre il movimento…

[Tratto da A Rivista anarchica– estate 2005, il dibattito prosegue nel numero di ottobre].

di Francesco Codello

La storia delle idee anarchiche non coincide con la storia dell’anarchismo. Fortunatamente il pensiero non si specchia nel movimento. Questo fatto, questo pregio vorrei dire, fa si che l’anarchia non dipenda esclusivamente dal movimento anarchico.
Oggi, contrariamente a quanto accaduto in altre fasi della storia, la logica del movimento può costituire, in certe sue forme di chiusura e di autoreferenzialità, addirittura un limite alla comprensione delle idee anarchiche. Non basta infatti diffondere delle idee ma è indispensabile farle comprendere e ciò è paradossalmente più efficace se si rinuncia alla logica del proselitismo. Vale a dire se si evita la superiorità della supponenza, la fede messianica e l’ostentazione esibizionistica della propria presunta verità. La stessa diversità, valore irrinunciabile, diventa violenza quando ha come presupposto la dogmaticità del pensiero e come tale allontana le sensibilità più sincere e profonde.
Anche la storia dell’anarchismo, così come quella di altri movimenti storici (marxismo, liberalismo, sindacalismo) ha vissuto una duplice tensione: da un lato la pulsione verso la sovrapposizione alla realtà dei movimenti, dall’altro quella verso l’annullamento della propria identità.
Alla prima specie appartiene sicuramente l’anarchismo faista e cenetista spagnolo (soprattutto nel suo apogeo rivoluzionario tra il 1936 e il 1939), alla seconda quello tedesco (movimento che non è praticamente quasi mai esistito). Tra queste due tendenze, le sfumature non si contano, ma non sono ora importanti per il ragionamento critico che sto cercando di sviluppare.
Ciò che è importante trovare, a mio avviso, è un equilibrio che da un lato fortifichi l’identità e dall’altro la nutra attraverso la realtà, con l’apertura alle istanze e alle sfide dei movimenti e delle sperimentazioni sociali. Ma l’identità mi pare più proficua in una comunità anarchica piuttosto che in un movimento anarchico.

Un sentire non esclusivamente mio

Cerchiamo di spiegarci meglio. Non giudico naturalmente, né do consigli a chicchessia, esprimo solo un sentire che credo, ma posso sbagliarmi, non esclusivamente mio.
Ho la convinzione che persista nel movimento anarchico organizzato una tendenza a riproporsi secondo una logica di partito, una tendenza figlia legittima di uno schema organizzativo più prossimo alla struttura del partito (seppure naturalmente non autoritario), ma che si confronta con la molteplicità del reale attraverso modalità, sia organizzative che di logica culturale, che sono sostanzialmente quelle di un anarchismo che ritengo completamente ormai esautorato nella sua funzione più profondamente vitale. Spesso assistiamo alla ri-proposizione di forme culturali e di immaginario ideale che rischiano, magari inconsapevolmente, di sovrapporre una struttura pre-definita ad una presunta realtà, autocelebrandosi come avanguardia. Il gruppo anarchico rischia di diventare talvolta la cellula del partito anarchico, senza competizione elettorale, senza iscrizioni, senza gerarchie codificate, ma non per questo completamente estraneo alle logiche sostanzialmente autoritarie. Nel momento in cui, in questi casi, si afferma la propria identità, si codifica una forma elitaria e rischiosa di potere, nel senso di riproporre il dualismo classico tra teoria e prassi.
Ma ciò che mi pare importante esprimere in questo contesto storico-geografico è piuttosto la necessità, direi quasi ineludibile, di affermare un pensiero forte, identitario ma aperto, dopo la sbornia del pensiero debole tanto ricercato, dopo la sterile contrapposizione tra universalismo e relativismo culturale, dopo che abbiamo avuto, anche recentemente, sotto gli occhi la potenza della celebrazione di un pensiero come quello religioso che ha mosso e portato, certamente anche con il potere mediatico, milioni di esseri umani, in ogni latitudine, a manifestare il bisogno di risposte a problemi essenziali ad ogni esistenza umana.
Questo pensiero forte che io ritengo irrinunciabile è il pensiero anarchico, non quello del partito anarchico (che contiene solo in parte gli elementi di questo pensiero), ma piuttosto quello che la comunità storica e aperta degli anarchici contiene. Questo pensiero è la lettura della storia nel suo evolversi tra autorità e libertà, è l’insieme delle risposte antiautoritarie che gli esseri umani hanno dato alla risoluzione dei loro problemi rifiutando quelle soluzioni autoritarie che altri hanno perorato, è quell’immaginario sovversivo senza il quale nessun cambiamento profondo è possibile, è quell’etica del mutuo appoggio che ha sistematicamente confutato il darvinismo sociale. Queste idee sono il motore del cambiamento storico quando si trasformano in movimento storico che rompe gli argini del pre-stabilito e dell’imposto. Ma esse (le idee) non possono e non devono risolversi nell’appartenenza al movimento, hanno bisogno di sperimentarsi continuamente in ogni occasione di incontro umano, di confrontarsi con la loro approssimativa attuazione. Il pensiero anarchico è oggi un pensiero forte proprio perché cerca di dare risposte identitarie in contesti diversi, perché è metodo di ricerca, è coerenza tra mezzi e fini. Ma soprattutto perché è un pensiero che non trascendendo nel religioso, risponde ai bisogni fondamentali di ogni essere umano: coniugare gli opposti senza diventarne sintesi, ma accettandoli e sostenendoli come necessari elementi di vitalità.

Sviluppo dialogico

Ecco perché tutti i tentativi di portare a sintesi unica il pensiero anarchico sono miseramente falliti, proprio perché non vi può essere sintesi ma solo continuo sviluppo dialogico tra rivoluzione e conservazione, tra relativismo e universalismo, tra progressione e resistenza, tra autorità e libertà. Occorre una comune consapevolezza di comunanza di destino (in quanto esseri umani) che solo un pensiero aperto e dialogico (come quello anarchico) può contemplare. Le questioni della vita e della morte sono patrimonio fondante del pensiero forte.
È necessario concepire pertanto lo sviluppo come sviluppo umano liberandolo dal riduzionismo economicista, dallo schiavismo tecnologico, dalla perfezione ideologica. Oggi siamo, per la prima volta nella storia, di fronte alla possibilità concreta che la tecnologia, oltre che determinare la ricerca scientifica, si cimenti con il mutamento della natura biologica dell’essere umano. L’uomo può uscire dalla sua specificità biologica e naturale e trasformarsi in qualche cosa di diverso da se stesso. Il nuovo potere diventa dominio determinato da logiche ed esigenze extra-umane, prive di ogni finitezza e temporalità, da ogni specificità. Il potere della tecnologia sostituisce quello della religione nel dare certezze future. Ma ambedue, in modo diverso ma speculare, hanno nella loro strumentalità una logica di dominio.
Sono sempre più convinto che ogni cultura non ha un valore in sé assoluto, perché ognuna contiene elementi di disfunzionalità, di malfunzionalità, di tossifunzionalità, ma piuttosto che la sua valenza stia in quanto si meticcizza con le altre, concorrendo a delineare quegli elementi portanti e universali senza i quali è impossibile costruire un mondo migliore. Insomma questa complessità della cultura anarchica, che muove dalla convinzione che tutte le culture sono imperfette in se stesse, proprio a somiglianza dell’essere umano, rappresenta la sua vera forza, la sua stessa ragione d’essere e produce la convinzione, per dirla con Edgar Morin, che non solo ogni parte si deve ritrovare nel tutto (nel pianeta), ma anche che il tutto si debba ritrovare all’interno della parte.
Con queste brevi premesse è dunque pensabile che solo un movimento debole, perché variegato, aperto, contraddittorio persino, può alimentare un pensiero forte, così come solo un pensiero di questa portata può fondare una comunità anarchica e contrapporsi sia al relativismo che all’assolutismo dilaganti.
Ecco perché credo che il senso dell’anarchismo oggi sia rintracciabile solo nel suo essere sempre identico nella sua natura, piuttosto che nel dover essere della storia, nel tentativo fallimentare di piegare, in modo più o meno consapevole, la realtà alla sua interpretazione.
Il pensiero anarchico deve uscire dunque dal sogno della salvezza terrena, fondare la sua forza sulla sua presunta (dagli altri) debolezza: la sua utopia che già è esistita ed esiste tra le maglie soffocanti del dominio, in storie e racconti che si nutrono della rottura con l’immaginario dominante e si traducono in “deboli” realtà.
Per dirla ancora con Morin, “volere un mondo migliore, che è la nostra principale aspirazione, non significa volere il migliore dei mondi. Per contro, rinunciare al migliore dei mondi non significa rinunciare a un mondo migliore”.
Ciò che conta è volerlo veramente e che la necessaria consapevolezza della limitatezza e della gradualità non sconfigga la speranza.

[Tratto da A Rivista anarchica– estate 2005, il dibattito prosegue nel numero di ottobre].

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