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Norman Mailer: perché siamo in guerra?

di Massimo Virgilio
L’annientamento di Saddam Hussein, l’abbattimento del suo regime dittatoriale e l’instaurazione della democrazia in Iraq: questi sarebbero dovuti essere, almeno ufficialmente, i risultati della guerra contro l’Iraq. Un’operazione militare presentata dagli strateghi del Pentagono come semplice e rapida, seppure inserita nell’ambito di un più vasto e complesso progetto di lotta al terrorismo internazionale.
Ma che si è invece rivelata per gli americani e per i loro alleati difficile da portare a termine in tempi stretti e con successo. Non passa infatti giorno senza che i soldati della coalizione occupante subiscano sanguinose imboscate ad opera della guerriglia irachena. Né le cose sono migliorate dopo la cattura del Rais.
Così questa guerra, fortemente voluta da Gorge W. Bush e dai falchi neoconservatori, piuttosto che avvicinare gli U.S.A. alla vittoria definitiva contro il terrorismo, ha finito per rinfocolare – non solo nel mondo islamico, ma in ogni angolo del globo – il già ampiamente diffuso odio contro gli americani e i loro sostenitori. Al contrario di quanto dichiarato trionfalmente dal Presidente degli Stati Uniti qualche mese fa, la guerra non è affatto terminata. L’America è ancora in guerra. E in guerra ha trascinato anche il resto del mondo.
Come si è arrivati a questo punto? Norman Mailer cerca di dare una risposta a tale domanda nel suo pamphlet intitolato Perché siamo in guerra?, edito da Einaudi. Per lo scrittore americano la causa scatenante di quest’immane conflitto che ormai coinvolge ogni abitante del pianeta è stata la distruzione delle Twin Towers avvenuta l’11 settembre 2001. “E’ un giorno impossibile da cancellare dalla nostra storia: non soltanto un disastro di proporzioni apocalittiche, ma un simbolo, gigantesco e misterioso, di qualcosa che ancora ignoriamo, un’ossessione che continuerà a ripresentarsi nei decenni a venire”.

L’11 settembre ha colpito l’America proprio nel momento in cui essa stava attraversando una profonda crisi d’identità. Dopo gli anni del boom economico dell’epoca di Clinton gli Stati Uniti di Bush si sono trovati sotto la minaccia di una grave recessione. A partire dal 2001 sono andati persi più posti di lavoro di quanti ne sono stati creati. Il mercato azionario, scoppiata la bolla speculativa, è collassato, bruciando una parte cospicua dei risparmi di milioni di cittadini. Nelle grandi multinazionali, che sin dalla fine della seconda guerra mondiale hanno ininterrottamente espanso il proprio potere all’interno della società, gli scandali a livello dirigenziale si sono fatti sempre più gravi e numerosi. “Certo, – scrive al riguardo Mailer – per gli Stati Uniti, è stata una gallina dalle uova d’oro. Ma oltre alle uova, questa gallina ha anche prodotto una gran quantità di escrementi, vale a dire menzogne e manipolazioni. (…) E siamo arrivati al punto di aver sparso questo letamaio su tutto il pianeta, tanto da farci capire che, in fondo, una sorta di egemonia mondiale già ce l’avevamo. Stavamo esportando la fagocitante vacuità estetica delle più potenti aziende americane”. Da parte sua il mondo cattolico ha dovuto fare i conti con una vergognosa realtà, quella della pedofilia. Cosa ancora più grave, lo stesso Gorge W. Bush ha ottenuto la carica di Presidente attraverso elezioni ritenute da molti palesemente illegali.

In questa situazione di disagio la reazione degli americani al disastro delle Torri Gemelle “è stata del tutto comprensibile. Ci siamo ritrovati immersi fino al collo in un oceano di patriottismo. (…) Dovevamo superare la nostra crisi d’identità: e allora superiamola, che diamine, sventoliamo la bandiera”. Per Bush e per i neoconservatori è stata la salvezza. A far data dall’11 settembre il patriottismo è stato portato ad un livello tale da far sì che chiunque nutra anche solo un piccolo dubbio sulle sorti dell’America o sull’operato dei suoi governanti sia considerato alla stregua di un traditore e messo a tacere. E la pressione in tal senso è talmente forte che spesso è lo stesso cittadino dubbioso a considerare le proprie incertezze un tradimento del sogno americano. Così l’intera popolazione statunitense ha finito per stringersi acriticamente attorno al suo Presidente. “La nuova identità nazionale, ancora in fase transitoria e formativa, non è stata capace per un solo istante di pensare che, forse, Bush alla Casa Bianca non ci doveva nemmeno essere. Perché? Perché adesso c’era da salvare il paese”.

Dunque la paura scatenata dal terrorismo internazionale ha spinto la maggioranza degli americani ad accettare, in nome della sicurezza nazionale, pesanti limitazioni alle proprie libertà personali e ad affidare la conduzione della propria esistenza ai militari e ai servizi d’intelligence. Quelli che l’autore chiama “conservatori con bandiera” sono più che soddisfatti. La loro convinzione è che l’America debba essere governata da un esiguo numero di persone, quelle più ricche e più potenti. Normalmente la gente comune non tollererebbe un’idea del genere. Il terrore però ha reso quest’ultima accettabile. “E’ l’incubo del terrorismo, la paura che ha spinto tutti quanti a sventolare la bandiera. Gli incubi ci dicono che la vita è assurda, irragionevole, ingiusta, contorta, folle, pericolosa ai limiti del ridicolo”. Il terrorismo ci pone di fronte al disdicevole fatto che la nostra morte potrebbe non avere alcun legame con la nostra vita. Ci fa perdere “la capacità di dare un senso alla nostra morte, l’abilità di scoprire il significato della nostra esistenza. (…) Scopo finale del terrorismo è rendere la vita assurda”. Tutto ciò ha portato molti statunitensi ad una conclusione: la democrazia può essere “di ostacolo alla sicurezza”; ad essa, per il bene di tutti, si può e si deve rinunciare, magari anche solo temporaneamente.
Mailer non esita ad evidenziare con parole dure il suo rammarico e la sua preoccupazione per questo stato di cose. In un paese in cui i principali valori umani si stanno disgregando, “il patriottismo finisce col diventare la servetta del totalitarismo. La nazione diventa religione”. Bush esorta i suoi concittadini ad amare incondizionatamente l’America, simbolo del Bene, e a difenderla contro gli assalti del Male, rappresentato da tutti quelli che, invidiosi della sua vitalità, del suo potere e della sua ricchezza, vorrebbero distruggerla con ogni mezzo, anche il più cruento. “Ma amare senza discernimento il proprio paese significa cominciare ad abdicare a qualunque distinzione critica. E la democrazia dipende proprio da queste distinzioni”. La democrazia americana è relativamente giovane, le sue radici non sono ancora profonde, le sue tradizioni non sono antiche. “Di conseguenza, una transizione da stato democratico a regime totalitario potrebbe capitare con una certa rapidità”.
Un’idea pericolosa esercita un fascino perverso su molti americani, in particolare su Gorge W. Bush e i suoi consiglieri: “la convinzione di essere in grado di fare qualunque cosa”. I “conservatori con bandiera” sono certi di avere i mezzi e le capacità per sistemare “ogni faccenda” nel modo più opportuno, per superare ogni ostacolo. I “conservatori con bandiera” credono “che l’America non solo sia idonea a governare il mondo, ma che debba farlo. Senza la dedizione al culto dell’Impero” l’intero paese potrebbe finire a gambe all’aria. Questo, ad avviso dello scrittore, “è il sottinteso – mai ammesso e sempre negato – della questione irachena”. E questo è quello che potrebbe trasformare la democrazia statunitense in un oscuro regime totalitario.

C’è un aspetto dell’America che l’autore ha sempre amato: la libertà. La “straordinaria” libertà di pensare e agire secondo il proprio volere. “Ho goduto di enormi libertà (…), e non mi va che chi viene dopo di me non possa averne altrettante. Ma (…) la libertà è fragile come la democrazia. Dev’essere conservata in vita per ogni istante della nostra esistenza”. Deve essere protetta da chi vuole sopprimerla per soddisfare con la guerra il proprio “bisogno di vendetta per l’11 settembre”. Non importa che non siano state trovate le prove dell’esistenza di un collegamento tra l’Iraq e gli attentatori suicidi che hanno polverizzato le Twin Towers. “Bush ha solo bisogno di ignorare l’evidenza. Cosa che fa con tutto l’impeto di chi non si è mai vergognato di se stesso. Saddam, pur con tutti i suoi crimini, con l’11 settembre non c’entrava niente; ma il presidente Bush è un filosofo. L’11 settembre è stata una manifestazione del male, Saddam è il male, tutto il male è collegato. Ergo, l’Iraq”.
Per chi si oppone al pensiero unico imperante si preannunciano dunque anni duri, difficili, anni di sacrifici, di lotte da condurre “a denti stretti”. “La democrazia – afferma Norman Mailer – è la forma più alta di governo mai concepita dall’umanità, ed è giunto il momento di iniziare a chiederci se siamo pronti a soffrire in sua difesa, a perire addirittura, piuttosto che prepararci a trascinare un’infima esistenza in una monumentale repubblica delle banane il cui governo è perennemente ansioso di fare il servo alle megacorporazioni che si ingegnano a impossessarsi dei nostri sogni”. La speranza finale di Mailer è quella di vedere la democrazia riuscire a “sopravvivere alla sporcizia che le viene continuamente gettata addosso”.

Norman Mailer, Perché siamo in guerra?
Einaudi Tascabili Stile Libero, 2003, p. 108, euro 7,60.

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