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La spirale Usa tra petrolio e moneta

di Fabio Massimo Parenti
L’economia Usa è entrata in un circolo vizioso dal quale le sarà difficile uscire, e questo perché la spirale invalidante e disgregante in cui essa si trova lega insieme l’andamento del valore del dollaro al prezzo del petrolio, l’Opec all’euro, ed il deficit commerciale alle importazioni di petrolio. Proviamo a vedere schematicamente la dinamica che stabilisce un così ampio e complesso legame. Negli ultimi anni l’aumento costante del costo del crude oil importato negli Usa è dipeso soprattutto dal fatto che, sia i Paesi appartenenti all’Opec, sia quelli al di fuori di tale Organizzazione, hanno dovuto proteggere la propria perdita di potere d’acquisto (connessa alla svalutazione del dollaro, arrivata al 40%, soprattutto in rapporto alla nuova forza dell’euro) tramite appunto un aumento dei prezzi manovrando sulle quantità prodotte e offerte. In questo modo, se da una parte i produttori di petrolio si sono tutelati, dall’altra la combinazione fra aumento dei prezzi e incremento del fabbisogno petrolifero Usa (di cui il 60% è soddisfatto per mezzo dell’import) ha contribuito e contribuisce ad aumentare il deficit commerciale statunitense, ormai giunto nel 2003 al suo nuovo record storico (quasi 500 miliardi di dollari). E si badi bene al fatto che il 20,2% del deficit totale è costituito proprio dall’importazione di crude oil; una quota che peraltro sale al 26,5% se si includono gli altri prodotti petroliferi importati. Se allora il prezzo del crudo aumenta per controbilanciare la debolezza del dollaro, il deficit commerciale continuerà ad aumentare di conseguenza in una spirale difficile da arrestare. Questi dati ci vengono forniti da un recente articolo di James Turk (esperto di finanza e economia monetaria, e fondatore del sito goldmoney.com su cui sono pubblicate le sue analisi).
Quindi, la svalutazione del dollaro non ha garantito una ripresa dell’economia americana, non solo a causa del circolo vizioso parzialmente descritto fin ora, ma anche perché s’è ridotta la competitività di molte imprese statunitensi all’interno del proprio territorio d’origine. Tra l’altro il fenomeno di deindustrializzazione e perdita di competitività non si è verificato solo nell’ambito dei settori industriali tradizionali, ma anche in quei settori più avanzati dell’elettronica e della microelettronica.
I settori dell’economia Usa che invece rimangono ancora i più competitivi al livello mondiale sono, come ci ricorda il Prof. Roberto Panizza, quello agricolo e quello militare. Se il primo dota il Paese di una forza contrattuale incalcolabile sui Paesi affamati, il secondo consente di ottenere con la forza il controllo di territori strategici, tramite l’esercizio di un’arroganza neocoloniale divenuta sempre più inaccettabile.
C’è dunque un indebolimento strutturale dell’economia americana che non rende credibili i recenti dati, in prossimità delle elezioni, sulla sua ripresa. Per dare una risposta a ciò, sarà il caso di affidarsi all’autorevole opinione del Prof. Roberto Panizza, la cui esperienza in economia internazionale e monetaria gli fa affermare che: «le menzogne di Bush non sono una novità: servono per mantenere un’illusoria fiducia nel dollaro e evitarne quindi un crollo traumatico. Questo significa continuare a trattenere capitali stranieri e a sostenere in questo modo le posizioni debitorie degli Stati Uniti. In una realtà dominata dal mondo dello spettacolo anche le bugie servono a costruire scenari virtuali: i guai cominciano, però, quando i governi finiscono per credere alle bugie che hanno raccontato».
A chiudere il cerchio c’è, infine, una questione capitale, che completa il quadro descritto finora e che aiuta a comprendere gli assetti economici e politici mondiali in fieri: si tratta del rapporto Opec/euro nell’ambito della competizione valutaria mondiale, in particolare dollaro/euro.
Non sono in pochi, infatti, a credere che l’Opec stia già fissando i prezzi del petrolio crudo in euro – come già aveva iniziato a fare l’Iraq di Saddam Hussein – e che presto questa Organizzazione e gli altri principali Paesi produttori fattureranno le proprie esportazioni di petrolio in questa valuta.
A dimostrazione di ciò, James Turk ha comparato una serie di dati del Dipartimento del Commercio statunitense e della Federal Reserve: la quantità, in migliaia di barili, di petrolio crudo importato negli Usa (nei tre anni dal 2001 al 2003), il corrispettivo valore in dollari, il prezzo unitario sempre in dollari, il tasso medio (su base giornaliera) del cambio dollaro/euro e, infine, il prezzo unitario in euro. Da questa elaborazione, due sono l’evidenze che emergono con forza: 1) il prezzo del crude oil in euro è essenzialmente rimasto immutato nei tre anni considerati, e 2) che questo fatto, più che una coincidenza, sembra, secondo Turk, «il risultato di un disegno premeditato». Vale a dire di una strategia con cui l’Opec si difende dal declino del dollaro, aumentando i prezzi del petrolio al fine di controbilanciare l’eventuale perdita di potere d’acquisto, che è a sua volta calcolata in base alla fissazione, per il momento ancora tacita, dei prezzi del crudo in euro.
Naturalmente, questo ragionamento non riduce l’importanza di quei problemi strutturali del mercato petrolifero che riguardano il crescente squilibrio del rapporto fra domanda in continua crescita ed incapacità dell’offerta di dare risposte adeguate (almeno nel breve periodo). Così come l’analisi economico-finanziaria non deve sottovalutare le questioni energetiche e geologiche (sul prossimo raggiungimento del picco nei consumi dei combustibili fossili e sul ribasso delle stime delle riserve relative).
Per concludere, dunque, l’analisi del circolo vizioso di cui è vittima l’economia americana, e da cui forse con le guerre cerca, erroneamente, di trovare una via di uscita, deve fare i conti con il nuovo ruolo che l’euro sta ricoprendo proprio nell’ambito del mercato petrolifero globale.

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