Nonluoghi Archivio Terrorismo, il sonno della politica genera mostri

Terrorismo, il sonno della politica genera mostri

La tragedia di Beslan lascia annichiliti; la mostruosa ferocia terrorista su esseri umani inermi, su bambini e genitori, è un segno raggelante della bestialità cui può giungere la nostra specie. Ma preoccupano non poco anche i retroscena del dramma e l’inconcludente banalità della strategia globale di lotta al terrorismo: il sonno della politica, contrappuntato dal fragore delle armi, ha generato i mostri. E ora l’ex Kgb Vladimir Putin promette guerra a tutte le latitudini e con ogni mezzo ai terroristi ceceni (ma anche ai separatisti caucasici in genere). E meno male che le autorità russe precisano che per ora l’opzione nucleare non viene considerata (perché, più avanti si potrebbe forse valutare se radere al suolo, l’intera Cecenia, per risolvere il problema alla radice, dopo averla distrutta a metà con le bombe degli anni ’90?).
Oggi più che mai bisogna riflettere e agire con raziocinio; altrimenti non si farà che alimentare, in Russia come altrove, il circolo vizioso del terrore.
Putin e i suoi gerarchi, supportati da brillanti compagni di strada come George W. Bush e Silvio Berlusconi, cercano da anni, almeno dal tragico 11 settembre 2001, di omologare la questione cecena alla vicenda del terrorismo di matrice integralista islamica. Un modo da un lato di avere le mani libere per utilizzare metodi militari brutali nella repubblica secessionista e dall’altro di chiudere ogni canale di dialogo con l’ala politica del separatismo che, al contrario, viene equiparata da Putin ai terroristi.
L’organizzazione di elezioni-farsa per imporre candidati graditi al Cremlino è solo una manifestazione di un quadro clinico che ha tutte le caratteristiche di un tradizionale e sanguinoso conflitto coloniale la cui degenerazione, nel sonno della politica internazionale, ha prodotto il mostro terroristico che ci fa inorridire con la sua devastante fame di vendetta.
Intervistato ieri da Radio Radicale, il noto militante russo per i diritti umani Sergej Mironov (del quale in basso riportiamo un precedente intervento), sottolineava la necessità di trovare la forza, di fronte all’orrore terroristico ovviamente mai giustificabile, di interrogarsi sulle cause, sul contesto nel quale il mostro è cresciuto. Invece Putin e chi lo asseconda perché ha a sua volta scheletri nell’armadio (la sciagurata avventura in Iraq che ha trasformato il Paese arabo da dittatura sanguinaria a terreno di scontro tra fazioni di ogni genere, con l’esplosione del fanatismo e della criminalità) tentano con la complicità di molti media di depistare riducendo un conflitto coloniale all’equazione “separatismo ceceno=Al Qaida”. Lo stesso Mironov, per fare un esempio, faceva notare che a supporto di questo depistaggio subito dopo l’immane tragedia di Beslan le autorità russe avevano fatto circolare la notizia, poi risultata completamente priva di fondamento, della presenza nel commando di dieci arabi; o ancora, il sostanziale silenzio, invece, sull’offerta di mediazione fatta dal leader politico del secessionismo ceceno Akhmadov che si era detto pronto ad andare nella scuola a trattare con i terroristi per una soluzione del dramma senza ulteriore spargimento di sangue.
Mironov, dopo aver condannato ogni atto di violenza e di terrorismo, denuncia l’atteggiamento di totale chiusura al dialogo e i metodi autoritari e cinici adottati dalle autorità russe: “Se non si chiama la malattia con il suo nome non si troverà mai la cura giusta. Siamo di fronte a un tipoco conflitto di decolonizzazione, come i molti che le Nazioni unite si erano trovate a gestire nel secolo scorso”, ha detto, esortando a individuare, in un contesto che degenera rapidamente, una strada per ricostruire un percorso di dialogo, l’unico che può consentire di archiviare le violenze crescenti di questi anni.
Tra le degenerazioni, in Cecenia, vi sarà forse anche l’infiltrazione di frange legate all’integralismo islamico, sia pure in misura assai minore di quanto accade in Iraq, dove la radicalizzazione dello scontro religioso è una delle conseguenze di un ano e mezzo di guerra. Quel che è certo è che in entrambi i casi i risultati mostrano il fallimento a 360 gradi delle politiche e delle dottrine della guerra preventiva perseguite da personaggi inaffidabili come George W. Bush e Vladimir Putin, che a parole dichiarano guerra al terrorismo ma nei fatti alimentano con le loro scelte strategiche la spirale della violenza cieca che rende ogni giorno più vulnerabili le vite di noi tutti.
Sorprende, in questo quadro preoccupante, la superficialità demagogica di gran parte dei commenti politici e istituzionali, anche in Italia, di fronte a fatti agghiaccianti come l’epilogo del sequestro di alunni e genitori in Ossezia o il rapimento delle volontarie italiane in Iraq. È richiesto a noi tutti, a cominciare da chi ricopre funzioni rappresentative in democrazia, di andare oltre lo sgomento emotivo e oltre le frasi più o meno di circostanza di fronte all’orrore che si consuma a migliaia di chilometri di distanza. Esistono responsabilità precise che vanno messe a nudo e rimosse. Il macello senza confini che è l’Iraq pggi è la conseguenza diretta della politica scriteriata dell’amministrazione reazionaria americana, un’accozzaglia di affaristi bigotti che ha affrontato la questione terrorismo peggiorandone gli effetti. Non è escluso che una maggioranza di americani (visto lo scrutinio torbido delle precedenti elezioni sarebbe bello stavolta sapere esattamente quale) confermi G. W. Bush alla Casa Bianca, il che sarebbe una sciagura globale, anche se il grosso del danno ormai è già fatto e chiunque gli succeda farà molta fatica a correre ai ripari. Per quanto riguarda l’Italia di Silvio Berlusconi, è inqualificabile che non si prendano le distanze da una politica militare palesemente fallimentare e con pesanti tratti autolesionistici.
Ma prendere le distanze ora dalla politica Usa per costruire un’azione diplomatica europea e internazionale che cerchi di raddrizzare le cose, sarebbe un passo frutto di un’autocritica sul ruolo italiano in alcune aree di crisi. Negli anni scorsi, per esempio, l’Italia è stata completamente assente da tutti gli scenari che oggi rappresentano altrettanti focolai di violenza e di terrorismo: Medioriente, Cecenia, Iraq. Nel conflitto israelo-palestinese, l’unica cosa che appare evidente è l’appiattimento di Roma sulle posizioni del governo di Ariel Sharon, con buona pace del possibile ruolo dell’Italia di catalizzatore di un negoziato che langue da anni mentre muoiono migliaia di persone; in Cecenia non risulta che negli anni ’90 l’impegno istituzionale italiano abbia brillato per fermezza nel chiedere una soluzione negoziale dello scontro, con la venuta a palazzo Cigi di Berlusconi, poi, sodale di Putin, caliamo un velo pietoso; in Iraq, negli anni ’90 regnava l’indifferenza, salvo qualche dibattito sull’embargo e qualche denuncia sulle sue conseguenze sulla popolazione (mentre non era all’ordine del giorno la pressione politica sul regime nella prospettiva di una riconciliazione democratica irachena). Il vuoto della diplomazia ha reso le cose più facili all’esplosione del terrorismo.
Sarà così anche in futuro, se si riterrà che le armi siano l’unica risposta ai registi del terrore che approfittano del dolore, della disperazione e del desiderio di vendetta di molti giovani per trasformarli in spietate macchine di morte inneggianti al Dio della guerra.
z. s.

Intervento di Sergej Mironov alla conferenza “Cecenia, una guerra nascosta”, organizzata dal Partito radicale e dai deputati radicali della Lista Bonino al Parlamento europeo in collaborazione con Rsf Italia, in memoria di Antonio Russo, giornalista di Radio radicale ucciso in Cecenia.

Sergej Mironov è tra i fondatori di Memorial, Centro per i diritti dell’uomo sorto sotto la presidenza di Andrej Sakharov per ricordare e riabilitare le vittime del totalitarismo sovietico, per favorire lo sviluppo della società civile e dello stato di diritto, le trasformazioni democratiche in Russia.
L’anno scorso Mironov fu vittima di un grave pestaggio a Mosca, a opera di un agente di polizia russo: nonostante la denuncia e le gravi conseguenze sulla salute della vittima (costretta a un lungo periodo d’infermità), le autorità hanno archiviato il caso.
Ecco la relazione di Mironov. Vorrei dire qualche parola su una distruzione invisibile; abbiamo già parlato molto dei morti, degli assassinati, dei rapiti, ma credo che ci sia una cosa non meno importante di questa, forse anche più importante di tutto, quella che io chiamerei distruzione dell’anima. Qui dietro le mie spalle c’è l’immagine delle rovine, e rovine sono ciò che rimane dell’anima di chi ha avuto esperienze di guerra, della vittima come del boia. Dobbiamo tener conto che ciò è già successo più volte nella storia, e le conseguenze della guerra si fanno sentire per molto tempo dopo la sua fine. Ora si parla molto dei Talibani, ma da dove sono venuti i Talibani, perché non esistevano prima dell’invasione dell’Unione Sovietica in Afganistan? I morti là sono stati circa un milione e mezzo. (…) Nessuno vuol dire che i Talibani siano buoni, ma dobbiamo tener conto che quello che chiamiamo estremismo ha spesso radici nell’estremismo nostro, parlo dei Russi, ora. Lo stesso più o meno possiamo vedere in Cecenia.
Come cambia l’anima umana nella guerra… Faccio due esempi, uno all’inizio della guerra, l’altro alla fine. Quando sono andato in Cecenia nel dicembre del ’94, era appena cominciata la guerra, l’esercito era già entrato in Cecenia, ma non era ancora a Grozny, c’erano solo incursioni aeree. Sono russo; appena entrato in città ho incontrato qualche ceceno che mi ha invitato a casa sua, mi hanno dato da mangiare, mi hanno aiutato in tutto, a organizzarmi, a raccogliere le informazioni che cercavo. Poi in città il primo Ceceno armato che ho incontrato mi ha chiesto “Senti, sei un estraneo qui, forse vuoi mangiare, andiamo a casa mia”, era un’accoglienza un po’ strana per me, russo, da parte di chi fa la guerra contro i Russi. Ho ringraziato e risposto che mi avevano già dato tutto, “Però -mi fa quello- forse vuoi del tè?”, “Grazie, ho già bevuto il tè, anche molto”, “Bene, però casa mia è di là, vieni a trovarmi dopo”. Questo era all’inizio della guerra. Ho vissuto in un plotone ceceno; c’erano una decina di combattenti che mi facevano vedere tutto, quante armi avevano, mi chiedevano solo una cosa “Non dir mai loro quanto siamo pochi”. “Loro” erano i Russi, a quei tempi tutti parlavano dei Russi come di “loro”. Grozny era piena di Russi, che sono stati le prime vittime, perché vivevano per lo più nei palazzi grandi che sono stati distrutti per primi. Quindi si parlava di “loro” anche con me, Russo, poi è stata coniata l’espressione “i Federali”. Non è mai stato tanto facile per me lavorare come in Cecenia, tutti mi aiutavano, bastava, a cento chilometri da Grozny, in Inguscezia, stare sulla strada per trovare subito un passaggio per Grozny, quando dicevo che ero giornalista e attivista per i diritti umani. Se qualcuno non poteva portarmi personalmente, mi raccomandava a qualcun altro e mi portavano dove volevo andare, nonostante il pericolo. Era l’inizio della guerra.
Poi, dopo la guerra, nel ’97, 23 febbraio (giornata commemorativa della “deportazione” staliniana, eufemismo per sterminio di massa); appena arrivati dall’aereoporto, stavamo facendo un giro per la città io, il fotografo italiano Galligani e un altro compagno e subito siamo stati fermati da un gruppo di armati che sparavano in aria e volevano rapirci tutti e tre; però altri Ceceni che erano lì l’hanno impedito. Comunque hanno preso con la forza Galligani e l’hanno rapito. Quindi erano criminali. Che cosa è successo in questi due anni, tra questi due episodi, che è successo al popolo? Devo subito dire che dietro il rapimento di Galligani c’era sì un Ceceno, ma un Ceceno che è apparso in Cecenia dopo la guerra, pieno di dollari, e che utilizzava il satellite militare russo, che era sotto il controllo dei servizi segreti. Ma non di questo voglio parlare ora. Bensì: perché prima era assolutamente sicuro, anche per una donna, andare in Cecenia e lavorare là come giornalista? Sì, era possibile essere uccisi, 27 giornalisti sono stati uccisi durante la guerra, io conto tutti, anche i giornalisti ceceni, non sono mica diversi da noi; però una cosa è quando si viene uccisi da una scheggia e l’altra è essere rapito, apposta.
Quindi torniamo un po’ a questo famoso film, “il film degli orrori”, come viene definito, cioè quello portato dall’ambasciata russa. Prima della guerra non c’erano notizie di rapimenti in Cecenia, se non nei romanzi storici, come succedeva in Svizzera qualche centinaio di anni fa. Però durante la guerra i rapimenti sono diventati comuni. Il primo rapimento che ho registrato io è stato nel gennaio del ’95: un Ceceno di un villaggio che si chiama Goite è stato rapito e reso poi per 1.000 dollari. All’inizio i prezzi erano relativamente bassi. Era alla guida di un trattore, era un contadino, senza averi. Cha è successo alla gente con la guerra? All’inizio della guerra pochi rubavano, molti controllavano che nessuno rubasse. Invece alla fine, nel ’96’ già molti erano coinvolti. Più la gente si adatta alla guerra, meno diviene adatta alla vita normale. Anche i valori si spostano e vengono distrutti. Così, quando l’ambasciata russa ha mandato quel filmato è stato strano per me vedere che, sì, si tagliano le teste, sì, si rapisce… ma chi rapiva, chi tagliava teste prima della guerra? Questa è una conseguenza della guerra, non è mica la ragione della guerra. E’ una grande mistificazione usare per propaganda cose del genere. Ora, molti hanno dimenticato che nel ’94, prima di cominciare la guerra il governo russo parlava di delitti di altro tipo, del riciclaggio dei soldi sporchi. Attribuivano questo crimine esclusivamente ai Ceceni. C’è una certa ironia nel fatto che oggi in Italia si parli molto del riciclaggio del denaro sporco in Russia, però sempre più si parla del signor Chernomyrdyn, che era Ministro russo all’epoca; in questa occasione non si parla più dei Ceceni. Anche ora, sì, ci sono criminali fra i Ceceni, criminalità rampante, ma è il risultato di ogni guerra e la guerra cecena non è diversa. Anche in Italia nei primi anni del dopoguerra era così, anche in URSS. Più lunga è la guerra, più profondamente viene distrutta l’anima umana.
Come curarla? Ringrazio tanto Valentina Melnikova, che ha già detto qualche parola che volevo dire io. L’Europa può fare qualcosa. C’è un’intera generazione che cresce in Cecenia che è priva di educazione, la gente non studia, nonostante ci siano moltissimi che vogliono studiare. E che futuro avrà la società cecena, quali che siano le condizioni politiche, se mancheranno quelli che sanno agire nella società contemporanea? L’Europa può aiutare gli studenti ceceni ammettendoli alle Università europee, anche usando i fondi destinati alla Russia. Però dando la priorità agli studenti ceceni, perché non possono studiare né in Russia, né in Cecenia, per colpa del governo russo. Il governo russo insiste che i Ceceni sono cittadini russi; anche per questa ragione è del tutto legale, sotto ogni punto di vista, dare la precedenza agli studenti ceceni. Forse si può far venire anche le famiglie, per permettere ai ragazzi di frequentare anche la scuola media. Conosco moltissimi casi di genitori che vogliono andare fuori dalla Russia, non emigrare per sempre, ma per qualche anno, per dare un’educazione anche minima ai figli. Certo che politicamente questo obiettivo è poco realistico, ma come ha detto Sergej Kovalev, non bisogna sempre che gli obiettivi siano realistici, le cose realistiche saranno raggiunte comunque anche senza il nostro aiuto; bisogna lavorare solo per quello che è impossibile. Questo per i Ceceni. Si può fare anche altro, aiuti umanitari, si è già detto molto.
Ma anche i Russi, che sono i persecutori in questo caso, hanno un grandissimo problema con l’anima, con l’anima nazionale, si può forse definire così. Chi è Putin, quel grigio ufficiale dell’ex KGB, perché è diventato Presidente? Perché la gente ha votato per lui? Ma per la stessa ragione per la quale hanno votato per Benito Mussolini, o per la quale hanno votato per Hitler. C’è una specie di sindrome di Weimar, questa è la conseguenza della guerra cecena nella società russa. E per questo è pericolosissimo dire che questo è un affare interno; dicevano lo stesso di Hitler in Europa, e quando è cominciato l’olocausto nessuno vi ha fatto attenzione, e quanto abbiamo pagato caro per questo. Esiste anche una colpa storica del popolo russo verso i Ceceni; la popolazione cecena fu dimezzata dagli zar russi, Stalin fece lo stesso cent’anni dopo. Però Stalin si sbrigò, in due mesi dimezzò quello che era rimasto. Nella guerra del ’94-’96 la popolazione è stata decimata nel vero e proprio senso del termine. Quindi c’è un genocidio, e la colpa non è minore di quella che i tedeschi hanno verso gli ebrei. La miglior maniera di aiutare la Russia sarebbe, secondo me, quella di fare tutto il possibile per far riconoscere questo fatto prima al popolo russo, e poi al governo.
Per finire e per portare ulteriori argomenti alla mia tesi, vorrei riferire una citazione di Sergej Kovalev, che non è mai stata pubblicata in Russia, nonostante che lui abbia detto questo più volte, a diverse agenzie anche straniere. Tutti chiedono Who is mister Putin? Immaginatevi che in Germania, dopo la guerra, fosse divenuto cancelliere un ex ufficiale della Gestapo o delle SS, o della Stasi; che reazione ci sarebbe stata in Europa? E’ chiaro. E figuratevi se durante una conferenza stampa a quell’ufficiale foste stato chiesto “Lei come vede il suo passato professionale?” e la risposta fosse stata “Ne sono fiero”, quale sarebbe stata la reazione. Questa non è una domanda retorica; bisogna far capire che non c’è differenza fra i due casi. Essendo russo, io mi sento in colpa per quello che sta succedendo al mio popolo e credo, e lo ripeto, che l’aiuto migliore sarebbe anche la critica, e non solo dello stato, poichè credo che anche il popolo russo abbia a che fare con questa colpa. Grazie.

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