Nonluoghi Archivio Il professore socievole: ricordo di Nino Recupero

Il professore socievole: ricordo di Nino Recupero

[Un anno fa, la notte tra il 2 e il 3 novembre, si spegneva il professor Nino Recupero, che proprio negli ultimi mesi di vita si era avvicinato anche al gruppo che anima Nonluoghi. Nino Recupero era nato a Catania nel 1940 e insegnava Storia moderna alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano, dove da tre anni teneva anche i corsi di Storia delle istituzioni politiche e sociali.]

di Alberto Castelli *

“Da George Orwell ho imparato che se qualcosa può essere detta in cinque pagine, è disonesto scriverne cento”. Questa frase, con cui Nino Recupero accoglieva i visitatori del suo sito web, mostra già molto bene il carattere sobrio e serio di un intellettuale dedito allo studio esclusivamente per il gusto di conoscere e di far conoscere. Era un accademico “semplice”, estraneo a ogni altezzosità, a ogni manifestazione di prestigio o di potere; dotato di una grande umanità e pronto a aiutare i giovani che si affacciavano alla ricerca e chiunque lo avvicinasse per chiedergli un consiglio o un parere. A ogni domanda riteneva di dover dare una risposta circostanziata, ampia, ragionata, problematica, senza cercare scorciatoie. Quando gli veniva posto un problema, rispondeva con calma, parlando a lungo e con una linguaggio semplice e preciso. Era capace di accostarsi alle persone senza pregiudizi, senza giudicarne l’intelligenza o la cultura, ma attento in tutti i modi a riconoscere il valore di ognuno.
Recupero si laureò in lettere nel 1966 a Catania, con Giuseppe Giarrizzo, con una tesi su Oliver Cromwell. Dopo la laurea fu assistente alla cattedra di Storia del Risorgimento dell’università di Catania con Gastone Monacorda, Giorgio Candeloro, Francesco Renda e Francesco Sirugo. Tra il 1968 e il 1969 trascorse un lungo periodo a Oxford, dove poté proseguire le sue ricerche sul Seicento inglese e dove perfezionò la conoscenza della lingua inglese che era in grado di parlare e scrivere in modo perfetto e con notevole proprietà di linguaggio. Vinse il concorso di professore associato nel 1984, divenendo titolare della cattedra di Storia dell’Europa occidentale alla facoltà di lettere dell’università di Catania. Si trasferì poi a Trieste e, nel 1995, a Milano, dove insegnò Storia moderna e Storia delle istituzioni politiche fino al novembre 2003, data della sua morte.

La sua attività intellettuale non si limitava all’insegnamento e alla ricerca: promuoveva iniziative di vario tipo, dando vita per esempio all’Istituto Siciliano per lo Studio dell’Italia Contemporanea di Catania, aderente alla rete degli Istituti della Resistenza; oppure organizzando a Messina, nel 1981, un convegno su Mafia e potere; oppure, ancora, realizzando seminari e corsi fuori dall’accademia, come il ciclo di conferenze Colloqui con la storia, tenuto a Cinisello Balsamo nel 2002, in collaborazione con Salvatore Lupo, Augusta Molinari, Luisa Passerini e Roberta Fossati. Collaborava, inoltre, regolarmente con vari editori, tra cui Giuseppe Maimone di Catania e Selene edizioni di Milano; e è stato tra i fondatori della casa editrice e del periodico Mesogea, che si propone lo scopo di mettere in relazione tra loro le diverse culture del mediterraneo.
Ho accennato alla sua profonda conoscenza dell’inglese, ma le sue competenze linguistiche andavano ben oltre: aveva una buona padronanza del francese, del tedesco e dello spagnolo e conosceva molto bene il latino classico, rinascimentale e seicentesco. I suoi interessi scientifici erano vari e comprendevano almeno tre ordini di argomenti. Il primo riguardava il contesto culturale, il sistema educativo e quello cetuale in Sicilia nei tre secoli che vanno dal Rinascimento all’Illuminismo . Il secondo, come ho accennato, concerneva il Seicento inglese, con particolare riferimento alle forme ideologiche assunte da vari gruppi sociali tra la metà del Cinquecento e l’inizio del Settecento . Più direttamente connesso con i problemi di oggi è il terzo ordine di argomenti coltivato da Recupero: quello che lo porta a sconfinare dal terreno dello storico modernista di professione, per studiare le dinamiche politiche e sociali che danno forma al mondo in cui viviamo.
Non ho le competenze per discutere dell’attività scientifica di Recupero nel campo della storia moderna inglese e siciliana, e mi auguro che altri lo facciano al più presto e in modo esauriente; vorrei invece proporre qualche considerazione sulla terza direttrice dei suoi interessi intellettuali: quella direttamente connessa con il suo impegno politico e sociale. Tra gli scritti di questo genere pubblicati da Recupero negli ultimi anni, a mio parere, rivestono particolare importanza il breve articolo Resistenza e Costituzione: cosa sono stati per me, lo scritto sul tema Mare di pace mare di guerra discusso nel corso del seminario di Mesogea tenutosi a Messina il 16 novembre 2001, il saggio Il mobbing in Italia, e il volumetto, scritto con Sandra Carrettin, “A chi il potere? Dialogo sulla democrazia, oggi”.

Recupero ha pubblicato l’articolo su Resistenza e Costituzione in occasione del 25 aprile 2002 sul periodico “L’isola possibile” del Catania Social Forum. Egli argomenta a favore dell’importanza di mantenere vive le celebrazioni per la liberazione dal nazifascismo anche a distanza di cinquanta anni e in una situazione storica e politica molto diversa da quella che ha dato origine alla Resistenza e alla Costituzione italiana. L’opportunità di continuare a celebrare la Resistenza, a suo giudizio, è data dal fatto che la democrazia, come oggi la conosciamo, nasce in modo non mediato da quell’esperienza. «Senza la Resistenza e la lotta armata contro i nazisti e i fascisti – scrive a questo proposito – non ci sarebbe stata nemmeno la Costituzione né la possibilità di votare. (…) La destra italiana già dal secolo precedente aveva manifestato la sua preferenza per la politica del bastone, del carcere, della repressione cieca: il fascismo non è nato per caso nel nostro paese. E nemmeno è stato sconfitto per caso. Per abbatterlo ci volle, oltre lo sforzo bellico degli Alleati, la guerra partigiana: “partigiana” cioè la guerra di chi, per buoni fini, si assunse la responsabilità di essere di parte». Insomma, le libertà e i diritti di cui godiamo ora non sono nati da soli, ma sono il risultato di una scelta politica ben precisa a favore della democrazia: una scelta che va ricordata, celebrata e rinnovata continuamente, affinché regimi autoritari di qualunque tipo non possano prendere il sopravvento. Non si tratta, a parere di Recupero, di restare ancorati in modo dogmatico alla lettera della Costituzione; al contrario significa cercare sempre il modo di accrescere gli spazi di democrazia che la Costituzione può garantire. Recupero conclude rivolgendosi direttamente ai lettori del periodico del Catania Social Forum con queste parole: «noi, seconda generazione della Resistenza, possiamo ancora riproporla ai più giovani, con speranza di essere ascoltati. Non vogliamo trasmettervi una realtà mummificata ma un insieme di principii, un ideale. Viveteli come credete, rendeteli adatti a voi e ai vostri tempi, modificateli, fateli vivere!».
Strettamente connesso a queste tematiche è l’argomento del volumetto A chi il potere?: una sorta di “dialogo platonico” che prende le mosse da problemi di attualità, come quello dell’elettrosmog, dello smaltimento dei rifiuti, o dell’atteggiamento dei governanti di fronte alle proteste avvenute a Genova durante il G8 del luglio 2001. Discutendo di questi problemi, Recupero fa emergere quella che gli sembra «l’ipocrisia fondamentale» dei nostri ordinamenti politici e che riguarda il divario tra la dichiarazione teorica della sovranità popolare e il modo effettivo in cui viene gestito il potere nelle democrazie occidentali. «Mentre le costituzioni – scrive – dichiarano la sovranità del popolo, quando si guarda da vicino si scopre che in realtà conta solo la gerarchia di potere» . Di fronte a questo problema, Recupero sostiene la necessità di riconquistare una «gestione collettiva della vita comune» sia attraverso il radicale ridimensionamento dei privilegi della classe politica, sia con la trasformazione dei rappresentanti parlamentari in “portavoce” eletti sulla base delle fasce di reddito dei cittadini e fortemente responsabili nei loro confronti. Certo, un progetto politico di questo tipo può sembrare utopico o, almeno, estremamente difficile da realizzare, per cui sorge la domanda se abbia ancora senso coltivare l’ideale della sovranità popolare, o se non convenga piuttosto accettare con spirito realistico la ferrea legge dell’oligarchia nella sua versione – morbida rispetto ad altre – delle democrazie occidentali. La risposta, del tutto condivisibile, che Recupero propone a questo problema mi sembra essere che, senza credere di poter eliminare del tutto il dominio della classe politica, è giusto e doveroso impegnarsi affinché tale dominio sia sempre più controllato e limitato dai governati. In altre parole egli sostiene che, pur nella coscienza che la piena sovranità popolare è destinata a rimanere un’utopia, non possiamo dirci legittimati ad accontentarci di ciò che abbiamo. Siamo cioè chiamati a lottare per riformare le nostre istituzioni, in modo che chi gestisce il potere sia sempre più responsabile di fronte a noi governati e sempre meno padrone di decidere del nostro destino.
Nell’intervento al seminario messinese di Mesogea, Recupero propone alcune considerazioni sulle forme attuali del conflitto – più che millenario – tra i popoli del mediterraneo. Un conflitto che negli ultimi anni tende sempre più a radicalizzarsi sull’onda del terrorismo globale e delle risposte a questo terrorismo. L’analisi di Recupero rifugge da ogni semplice attribuzione di responsabilità sulle cause del conflitto tra le sponde del mediterraneo nei modi e nelle forme in cui si configura oggi. Precisa piuttosto che attorno alle rive di un mare da sempre conteso la vera speranza di pace non sta nella «soppressione (utopistica?) della guerra», ma «nell’accettare l’impossibilità dell’unificazione formale e totalizzante, nell’accogliere le differenze, nel decidere di costruire su di esse» . Si tratta cioè di innescare tra i popoli del mediterraneo un processo simile a quello che ha portato all’unificazione europea, possibilmente senza che prima si debba passare per una catastrofe come quella delle due guerre mondiali. Recupero nota che l’avvio di questo processo viene ostacolato da numerosi fattori. Tra questi, a suo parere, il più importante è il lascito della storia degli ultimi due secoli; è l’eredità della «condizione coloniale che la costa nord ha imposto alla costa sud del Mediterraneo». Tale eredità, secondo Recupero, sopravvive al colonialismo che l’ha generata sotto forma di cultura, di mentalità che «sottende ancora oggi le relazioni tra i paesi del nord e del sud del Mediterraneo», che ci spinge a interpretare «ricchezza e povertà, sviluppo e sottosviluppo (…) come polarità tra “noi” e “loro”» e che, in ultima analisi, ci porta ad accettare la semplicistica raffigurazione di un potenziale o reale “scontro tra civiltà” così adatto a «buttare le fondamenta di una nuova crociata» .
L’ultimo saggio che vorrei prendere in esame in questa sede testimonia della curiosità e dei vasti interessi che Nino Recupero era capace di coltivare; il saggio in questione, infatti, non tratta di argomenti congeniali a un professore di storia, ma di un fenomeno legato alle relazioni sociali nel mondo contemporaneo come il mobbing. Lo scritto di Recupero sul mobbing costituisce la prima parte di un volume in cui figura anche la testimonianza diretta di una lavoratrice che ha subito personalmente la violenza del mobbing. Non bisogna però credere che, per questo, il lavoro di Recupero si limiti a una denuncia del fenomeno e a un appello alle autorità affinché prendano misure per combatterlo. Certo, questa prospettiva è presente nelle pagine di Recupero, ma egli sa anche esaminare il problema del mobbing in modo obbiettivo e distaccato, definendolo con precisione e cercandone le cause profonde e le dinamiche che lo contraddistinguono.
Recupero inizia il suo ragionamento portando degli esempi concreti di mobbing per poi definirlo, in termini generali, come una situazione in cui «l’ambiente circostante si è coalizzato contro di loro [le vittime del mobbing] scatenando non un singolo attacco, ma tutta una serie continuativa e ripetuta di piccoli atti che puntano a danneggiarli: li si rinchiude in uno spazio “negativo”, li si isola, in ultima analisi li si perseguita e li si distrugge» . Si tratta, secondo Recupero, di un fenomeno legato ai meccanismi con cui un gruppo sociale ribadisce i propri confini e la gerarchia al proprio interno; è ovvio, di conseguenza, che si verifichi soprattutto negli ambienti di lavoro organizzati in modo gerarchico, verticale, e percorsi da forti tensioni competitive. Ma il mobbing non è una caratteristica permanente di ogni luogo di lavoro e di ogni periodo storico; al contrario, pur non mancando esempi nel passato, è un fenomeno nuovo e diffuso nelle società in cui l’economia è più “avanzata” o, meglio, più conforme alle scelte organizzative che caratterizzano il mondo di oggi. In quest’ottica, il mobbing assume i tratti di una malattia sociale della nostra epoca e del nostro sistema economico: «Il mobbing propriamente inteso – scrive Recupero – si spiega solo in un mondo del lavoro ossessionato dalla mobilità e dalla competizione, dove tutti sono rivali di tutti, dove il miraggio delle facili carriere tende ad eliminare ogni solidarietà». E poco oltre: il mobbing «va di pari passo con quell’altro termine inglese che è la deregulation, cioè la totale abolizione di ogni vincolo al mercato del lavoro». In questo modo lo studio di Recupero sul mobbing non resta solo una ricerca su un fenomeno sociologico circoscritto, ma assume le dimensioni di una vera e propria riflessione sulla società contemporanea, sui suoi valori e sui suoi destini.

* Questo articolo è stato pubblicato in “Italia contemporanea”, (Milano), n. 233, dicembre 2003, pp. 701-705.

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