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Ragionamenti sparsi di bicicrazia

[appunti di Zenone Sovilla *]

1) Premessa quasi banale.

Condividiamo il proposito di evitare che la specie umana sparisca dal pianeta Terra. E con lei le altre specie oggi note.
Condividiamo l’assunto che ogni essere umano ha pari dignità.
E dunque condividiamo il proposito di sforzarci tutti insieme per limitare la sofferenza degli esseri umani. Per quanto il concetto di sofferenza possa ritenersi abbastanza relativo esistono alcuni aspetti correlati con lo stato di salute psicofisica che si possono considerare meno controversi. Per esempio l’ammalarsi o morire prematuramente e anche per cause prodotte da altri esseri umani che dunque mettono in atto comportamenti incompatibili con l’assunto della pari dignità e della riduzione della sofferenza.

Oppure distruggere l’ambiente naturale mettendo a rischio le condizioni che garantiscono la vita sul pianeta Terra così come la conosciamo oggi; o più o meno così.

2) Che cosa succede in realtà.

Bene. Se osserviamo il mondo che ci circonda – vicino e lontano – credo sia possibile verificare senza grande sforzo, che questi propositi di pari dignità sono disattesi non tanto nel linguaggio – delle istituzioni (che pure producono norme talora palesemente incoerenti con il nostro assunto), dei mass media, di buona parte della cultura – quanto nella realtà.

È evidentemente in atto uno spietato tentativo deterministico di indurre e accelerare una vera e propria mutazione antropologica che dovrebbe rendere l’essere umano sensibile solo ad alcune sfere dell’esistenza e della coesistenza, sfere informate dalle leggi dell’economia neoclassica che nelle intenzioni dovrebbero pervadere ogni attività umana. Con buona pace dell’impegno per la pari dignità umana, i mondi della cosiddetta politica (trasformata in una sorta di mega comitato di gestione asettica e iniqua delle risorse comuni), della scuola, dell’università, della stampa e di altre istituzioni e organizzazioni veicolano come valori indiscutibili la competitività, la concorrenza, la creazione di profitto economico. A tal punto da confondere, a volte completamente, i confini tra il mondo della psiche umana e quello della Borsa.
Il dogma neoliberista ha conquistato il potere.

Non è un fenomeno del tutto nuovo (è ricorrente nelal storia una minoranza in posizione di dominio che cerca di perpetuarsi e consolidarsi nelle società umane), solo che i suoi meccanismi si sono fatti via via più subdoli e riescono più facilmente a trasformare le vittime in complici volenterosi per stipulare una “polizza di assicurazione” sulla conservazione dell’ingiustizia spacciandola per il suo ineluttabile contrario. Cosicché questo sistema di dominio di questa idea-dogma sui principali centri di potere è assai robusto.
La trasformazione dell’essere umano in una macchina di produzione e di consumo che ragiona secondo le leggi del mercato è giunta a uno stadio avanzato, si compie il disegno della minoranza dominante che vuole arricchirsi sempre più a spese di una maggioranza da convincere della desiderabilità delle cose che in fondo vanno (quasi) nel migliore dei modi; manca solo qualche privatizzazione in più, un’iniezione di flessibilità sul lavoro, alcuni nuovi investimenti in spese militari e in grandi cementificazioni, un po’ di tasse in meno per i più ricchi.

Si basa su una serie di manovre favorite dal contesto storico con il fallimento di esperienze di organizzazione politica, sociale ed economica alternative; e con l’abbandono di nuove elaborazioni oltre il paradigma del mercato e del suo mito di libertà unidimensionale (e dunque falso).
Da un lato si consolida il credo neoliberista alimentandone il “bisogno” collettivo; dall’altro si opera la grande distrazione delle masse, che devono essere affaccendate a fare i conti con il denaro da guadagnare e da spendere, in una lotta di tutti contro tutti, non certo a ragionare e interrogarsi su modalità diverse di convivenza possibili.

Una caratteristica di tutto ciò è lo svuotamento di senso di gran parte delle cose che vediamo e spesso anche di quelle che facciamo. La produzione di senso è uno dei problemi di questa epoca. Il senso è asservito al dogma neoliberista e alla sua necessità di distrarre.
La tv è un caso macroscopico di questa deriva dell’instupidimento e dell’abbruttimento dell’individuo e delle comunità; ma non è l’unico. Lo sono il lavoro, lo studio e più in generale le relazioni sociali. Alle relazioni sociali, peraltro, dedichiamo sempre meno tempo. Nell’ultimo libro di Chomsky (“Il bene comune”) ho letto che negli Usa in vent’anni il tempo dedicato dall’americano medio al rapportarsi con gli altri è quasi dimezzato. Siamo sempre più chiusi dentro noi stessi a fare i conti con le leggi di mercato e con i conflitti che ci dilaniano fin nel nostro profondo: la mia anima ecologica si scontra con la parte di me “costretta” a usare l’auto invece della bicicletta e così via fino allo storico e irrisolto conflitto rossoverde tra lavoro e salute che ha visto tradizionalmente le centrali sindacali difendere acriticamente la fabbrica (ora ci penseranno le delocalizzazioni industriali nel modo più brutale e tragico: ai lavoratori mancherà il pane ma in cambio invece della libertà avranno probabilmente la malattia).

Ma la mistificazione funziona fino a un certo punto. Con il linguaggio si può mascherare la realtà, però quando gli effetti dello stato di cose concreto ti entrano direttamente in casa il filtro sparisce.
Si può predicare nelle aule universitarie di flessibilità del lavoro; ma quando la precarietà o la perdita del salario ti tocca direttamente i tuo credo neoliberista può svanire d’un tratto. Si può predicare di competitività e libero mercato, ma quando le imprese scappano lasciando i lavoratori a casa, si capisce chiaramente chi ha il coltello dalla parte del manico.
E questo capita, come vediamo anche in questi giorni con la crisi industriale del Trentino (cui i soldi della Provincia non sono bastati a costruire un tessuto solido).

Si può occultare, sopprimere ogni pulsione di liberazione dal lavoro facendone, da destra e da sinistra, un feticcio monolitico da adorare; ma per molti esseri umani il lavoro (o la sua assenza) è semplicemente un incubo che vorrebbero sostituire con un’altra dimensione di “attività umana solidale”, fondata su altre premesse psicosociali prima ancora che economiche, ma saremmo fuori del paradigma neoliberisma così come del cosiddetto socialismo reale.

Funziona fino a un certo punto, ma funziona, complice – appunto – questa progressiva privatizzazione dell’esistenza, al punto da rendere una tragedia privata eventi chiaramente determinati da scelte che derivano dalle politiche pubbliche, cioè di tutti.

La grande distrazione riguarda, tra l’altro, i costi sociali del mercato: le malattie e i decessi di esseri umani nonché i danni ambientali causati dalle imprese, una devastazione che si fa tanto più marcata quanto più il quadro sarà deregolamentato e ispirato alla concorrenza.
I dati empirici sulla morbilità e sulla mortalità causate dalla produzione industriale, dentro le imprese, nelle loro vicinanze e più in generale sui consumatori, sono impressionanti. E a pagarne anche monetariamente le conseguenze siamo noi tutti: con le spese sanitarie, di risanamento ambientale eccetera. Ciò nonostante, ci si vuole convicenre che la logica del business deve invadere totalmente la nostra vita, anche con la privatizzazione dell’energia elettrica, dell’acqua, della sanità, dello studio…

Si tratta di uno dei principali fenomeni che dimostrano che il neoliberismo è prima di tutto una bugia: si vorrebbe predicare il primato del mercato ma si pretende che sia l’ente pubblico a sostenere sotto una miriade di forme l’attività dell’imprenditoria privata.
Ciò vale per i contributi erogati dalla Provincia di Trento, per la copertura delle spese sanitarie o previdenziali causate dalle imprese, così come per le commesse del Pentagono alle potenti industrie belliche americane. La logica è la stessa: da un lato si vuole distruggere il senso comune di appartenenza solidale a una comunità per asservire le persone alla logica del profitto individuale; ma dall’altro si pretende dalle istituzioni delle stesse comunità grande efficienza nel sostenere con le risorse collettive l’attività di pochi, chiamiamoli pure padroni.
Anche le strade e il trasporto su gomma delle merci è un caso di sovvenzione più o meno cammuffata mentre si sottraggono i denari pubblici agli interventi per prevenire e curare la sofferenza umana sempre più affidata a sua volta alla privatizzazione, a pseudocooperative appaltatrici che generano precariato e pseudoprofessionalità.

La grande distrazione e la produzione di non-senso invadono anche la sfera della nostra relazione con il nostro corpo e con la natura.
Il modello non prevede che si usi gran che la nostra dotazione muscolare, se non per muoverci nei centri commerciali, e tende a sottrarci l’opportunità di esplorare un bosco o di svolgere attività di utilità domestica come raccogliere un po’ di legna; perché abbiamo da fare cose più importanti, come guardare la televisione o andare a fare la spesa la domenica perché gli altri giorni non c’è tempo, essendo il lavoro, prolungato dai tempi del pendolarismo, il totem della situazione. Il moto è relegato ad attività del tempo libero organizzata nelle palestre.

In questo quadro, non appaiono per nulla casuali le modalità cui tendenzialmente ci è consentito di spostarci.
Per questioni di tempo o di politiche pubbliche della mobilità, siamo generalmente obbligati a non utilizzare il nostro corpo per muoverci.
E per lo più saremo indotti a utilizzare l’automobile: tutto è costruito per lei, l’appropriazione degli spazi pubblici e privati è assoluta; i piani urbanistici e la dislocazione dei posti di lavoro, dei centri servizi e del commercio spesso danno per scontato l’utilizzo dell’automobile; gli orari di lavoro (altro non tema della nostra epoca) tendono a complicare la vita al non automobilista; l’alternativa del trasporto collettivo o delle piste ciclabili generalmente è debole o assente…
E qui va riposta l’attenzione su un altro “effetto collaterale”. Gli indirizzi urbanistici e sulla mobilità riguardano la salute dei cittadini (malattie e morti da inquinamento), la riduzione del rischio di incidenti stradali, la tutela dell’ambiente naturale; ma si tratta anche di forme indirette di politica dei redditi, considerato che orientano i consumi verso l’automobile: in luoghi in cui è negata ogni alternativa concreta, l’auto privata diventa per i più una scelta obbligata. Così ogni nucleo famigliare si vede spesso costretto a moltiplicare le vetture per consentire a ogni membro la possibilità di raggiungere la città o punti di essa in tempi accettabili, per ragioni legate al lavoro, allo studio o al tempo libero. Diventa “normale”, dunque, spendere decine di migliaia di euro nell’acquisto e nella gestione dell’automobile sulla quale si resta quasi regolarmente in coda; una spesa enorme cui si aggiungono le rimarchevoli quote di imposte versate dai contribuenti necessarie per affrontare i costi sociali del trasporto a motore (malattie, infortuni, invalidità, decessi, danni ambientali, infrastrutture).

Eppure appare normale che non ci si formalizzi gran che in Italia non dico sui morti per incidenti sulle strade, ma sulla mortalità indiretta, sulle migliaia di vite che si spengono ogni anno a causa del’inquinamento da traffico; per non parlare delle morti che si eviterebbero se alla sedentarietà si sostituisse l’uso della bici in condizioni di sicurezza.

Ma questa sostituzione è difficilmente praticabile senza mettere in discussione altri elementi. Ci si scontra, infatti, a guardar bene, con il sistema della democrazia rappresentativa, con la questione della proprietà privata, con l’organizzazione e i tempi del lavoro, con il malinteso senso di libertà veicolato dal linguaggio asservito al sistema di dominio economico [sono libero se vado in macchina, meglio se una fuoristrada, mi compro un sacco di cavolate trasportate inutilmente dai Tir sulle strade di mezzo mondo a doppie spese di tutti e con sovvenzioni pubbliche) eccetera, a fronte di politiche fiscali che privilegiano i devastatori del territorio e della salute a scapito di chi si sforza di rispettare la pari dignità degli esseri umani e l’impegno solidaristico a contribuire alla riduzione della sofferenza.

Su questo sfondo si consuma anche la lotta per la velocità, che è a sua volta una lotta di potere. Se alla nascita ognuno di noi ha teoricamente la medesima disposizione di “potere”, l’accumulo da parte di qualcuno implica una sottrazione per altri soggetti; alla stessa stregua la velocità dell’umanità: si può dire che se qualcuno vuole andare più in fretta qualcun altro dovrà andare più piano oppure (se preferite) morire di gas di scarico.

In questo quadro è quasi normale che muoversi in bicicletta sia pressoché impossibile e che il tentativo di farlo seriamente diventi un’azione politica che per forza mette in discussione almeno alcuni aspetti del paradigma politico ed economico.

Lo fa concettualmente, innanzitutto per le ragioni legate al questione del potere pro capite e dell’accumulazione in cerchie dominanti a scapito della generalità delle eprsone; ma lo fa anche concretamente, mettendo in discussione l’occupazione, la proprietà e la destinazione degli spazi così come i tempi e i modi dell’organizzazione del lavoro e della sua retribuzione. In altre parole, obbliga a interrogarsi sulla rimodulazione o rifondazione della democrazia, politica ed economica. Per questo si tratta di una dimensione occultata o distorta dai grandi centri del potere; e sempre per questo, credo, in Europa sono le società a tradizione meno legata all’individualismo, ora nella versione liberista, come quelle scandinave, a ragionare nel modo più serio su una questione che riguarda la vita e la sopravvivenza di noi tutti.

* [Appunti, naturalmente rimasti pressoché inutilizzati, per le presentazioni del volume Bicicrazia, ottobre-novembre 2004]

www.bicicrazia.it

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