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Basi militari, la conversione per il bene di tutti

di Andrea Licata

In Friuli Venezia Giulia, così come in Sardegna, molti cittadini stanno amaramente scoprendo quanto devastanti siano gli effetti delle attività “ordinarie” di una base militare. Non mi riferisco qui alle attività belliche, vale a dire alle guerre, scatenate proprio attraverso le basi militari, ma ai danni sul territorio che qualunque base crea, a causa delle attività inquinanti che vi sono quotidianamente svolte, in maniera più o meno segreta. È di questi giorni, infatti, la notizia del pesante inquinamento delle falde acquifere nella provincia di Pordenone causate da un diserbante, il bromacile, impiegato per decenni in terreni altamente permeabili come sono quelli su cui è posta la base USAF di Aviano: un disastro con il quale, le comunità nei pressi di quella base aerea avranno a che fare per i prossimi trenta o quarant’anni almeno. Le istituzioni sono di fatto immobili.
Si tratta di fatti molto gravi, anche se talvolta poco conosciuti, che fanno venire alla mente altre situazioni, sempre in Italia, ma certamente non solo, come il preoccupante inquinamento radioattivo del mare, rilevato nella zona de La Maddalena da un istituto indipendente francese. In entrambi i casi è l’acqua, risorsa fondamentale per la vita delle future generazioni, ad essere inquinata, con effetti imprevedibili sull’ambiente e la salute delle persone.
Emerge, in secondo luogo, quanto pericolose siano oggi le attività militari, anche a causa della presenza di armi di distruzione di massa chimiche, biologiche o nucleari e quanto, d’altra parte, siano impenetrabili e poco collaborative queste strutture, anche nel fornire informazioni utili alla soluzione dei problemi, ammesso che si possa parlare banalmente di soluzioni di fronte a danni così gravi; si può rilevare, inoltre, come questi incidenti siano spesso scoperti in ritardo con conseguente aggravamento delle conseguenze.
Le possibilità di controllo da parte dei civili appaiono molto limitate, così come anche, perlomeno in Friuli Venezia Giulia, l’impegno degli amministratori locali nel migliorare la situazione.
Una base militare in quanto tale, tuttavia, è destinata, prima o poi, ad andarsene, così come era venuta: paragonabile ad un moderno accampamento, esaurito il suo ruolo strategico, essa leva le tende. Le ragioni di chiusura di una base sono molte ed in alcuni casi hanno contato le proteste della popolazione. Nonostante le apparenze quindi, queste installazioni sono molto precarie, come testimonia, per fare riferimento all’attualità, la prossima ondata di spostamenti di basi militari in Europa recentemente decisa dall’amministrazione degli Stati Uniti.
Pare che le spese di bonifica e pulizia dei siti militari in Germania saranno enormi: c’è da immaginare, visto cos’è successo altrove, che i militari USA cercheranno di risparmiare il più possibile e di ridurre al minimo le proprie responsabilità, magari cercando di vendere qualche edificio all’interno delle basi. Per queste ed altre ragioni, i cittadini non possono delegare alle autorità militari questioni fondamentali come la salute e il rispetto del territorio, dato che le installazioni in questione non sono state costruite né per aiutare l’economia locale, né per salvaguardare l’ambiente, ma, com’è noto, per svolgere attività belliche: il rispetto della natura non è nell’agenda delle loro priorità, ma è quasi vista come un ostacolo, dato che le basi preferiscono i Paesi con legislazioni deboli e permissive.
Se vogliamo essere onesti intellettualmente e basarci su esperienze, fatti e dati reali, possiamo affermare con sicurezza che è rischioso per le comunità affidarsi alle pericolose scelte dei militari, condividere le loro segrete intenzioni, credere alle loro vane promesse: essi, storicamente, utilizzano, in maniera sistematica, la disinformazione e la menzogna come strumenti di propaganda e controllo sociale. Si possono invece creare sin d’ora alternative ed immaginare per queste aree un futuro civile, senza nucleare ed inquinamento, senza i pesanti condizionamenti durati per troppi anni.
Se le comunità riusciranno a prendere in mano il processo di conversione sarà possibile evitare che le basi, una volta dismesse, siano utilizzate per attività belliche, inquinanti, come depositi di scorie (magari radioattive), o altre scelte disastrose, si eviteranno le speculazioni edilizie ed altri scenari fallimentari.
Cosa fare quindi subito? Bisogna che degli istituti indipendenti possano controllare che tipo d’inquinamento esiste, avviare sin d’ora delle attività economiche alternative, svuotando la base di significato, diversificando l’economia e riducendo la dipendenza dalla struttura; si deve, infine, creare subito un fondo regionale per la conversione dal militare al civile. Queste proposte, lanciate in Friuli Venezia Giulia nell’ambito del Convegno Internazionale “La conversione possibile”, hanno ottenuto molti consensi: tra le attività alternative proposte nello specifico c’è quella della ricerca e produzione di energia solare, in particolare del fotovoltaico, che necessita di ampi spazi e che potrebbe, tra l’altro, essere attuata con successo anche in Sardegna.
Le basi, come dimostrano importanti studi, non aiutano l’economia, mentre i processi di conversione dal militare al civile hanno portato all’estero (in Europa Centrale ed Orientale, ad esempio, dove centinaia di basi dimesse dopo il 1989 sono state riqualificate con successo) ad aumenti dei posti di lavoro, oltreché ad un miglioramento della qualità della vita. Un processo di conversione preventiva ed attiva che coinvolga le comunità locali in maniera diretta può portare ad accelerare i tempi di trasformazione delle basi a luoghi civili.

Andrea Licata è presidente del Centro Studi e Ricerche per la Pace dell’Università di Trieste.

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